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da CounterPunch 12 giugno 2025 (USA) |
I campi di concentramento offshore dell’America
di Chris Hedges *
traduzione di Rachele Marmetti
I nostri campi di concentramento per ora si trovano in El Salvador e nella baia di Guantanamo, a Cuba. Ma non aspettatevi che vi restino. Una volta normalizzati, cioè usati non solo per gli immigrati e i residenti deportati dagli Stati Uniti, ma anche per i cittadini statunitensi, migreranno in patria. Il passo per far diventare le nostre prigioni, già zeppe di abusi e maltrattamenti, campi di concentramento – dove i detenuti scompaiono, isolati dal mondo esterno, privati di assistenza legale e ammassati in fetide e sovraffollate celle – è molto breve.
I prigionieri dei campi in El Salvador sono costretti a dormire sul pavimento, o segretìgatiin isolamento, al buio. Molti hanno la tubercolosi, soffrono di infezioni fungine, scabbia, malnutrizione grave e malattie digestive croniche. I detenuti, tra cui oltre 3.000 bambini, vengono nutriti con cibo rancido. Subiscono percosse. Secondo Human Rights Watch, vengono torturati, anche con il waterboarding [annegamento simulato], o immersi nudi in barili di acqua gelida. Nel 2023 il Dipartimento di Stato descrisse la detenzione in El Salvador «pericolosa per la vita» già prima della dichiarazione dello «stato di emergenza» da parte del governo salvadoregno, a marzo 2022. La situazione si è notevolmente «esacerbata», osserva il Dipartimento di Stato nel citato rapporto, in conseguenza dell’«aumento di 72 mila detenuti successivo alla dichiarazione dello stato di emergenza». Secondo l’organizzazione locale per i diritti umani Socorro Jurídico Humanitario, dallo stato di emergenza dichiarato dal presidente salvadoregno Nayib Bukele nell’ambito della «guerra alle bande», circa 375 persone sono morte nei campi di detenzione.
Questi campi – il Centro de Condinamiento del Terrorismo (Centro di Confinamento del Terrorismo), noto come CECOT, dove gli Stati Uniti mandano i loro deportati, ospita circa 40 mila detenuti – questi campi, dicevo, sono il modello, l’avvertimento di quanto ci aspetta.
Il metalmeccanico e sindacalista Kilmar Ábrego García, rapito il 12 marzo 2025 [negli Stati Uniti] davanti al figlio di cinque anni, è stato accusato di essere membro di una gang e spedito in El Salvador. La Corte Suprema conferma la sentenza del giudice distrettuale Paula Xinis, che ha ritenuto la deportazione di García «atto illegale». I funzionari dell’amministrazione Trump l’attribuiscono a un «errore amministrativo». Xinis ordina all’amministrazione Trump di «facilitare» il rientro del metalmeccanico. Ma questo non significa che García rientrerà negli Stati Uniti.
«Spero che non mi stiate suggerendo di fare entrare di contrabbando un terrorista negli Stati Uniti», ha dichiarato il presidente salvadoregno Bukele alla stampa, in occasione dell’incontro con Trump alla Casa Bianca. «Come potrei farlo entrare clandestinamente? Come potrei riportarlo negli Stati Uniti? Come se potessi introdurlo clandestinamente negli Stati Uniti! Beh, ovviamente non lo farò… la richiesta è assurda».
Questo è il futuro. Quando un segmento della popolazione viene demonizzato – compresi i cittadini statunitensi che Trump etichetta «criminali autoctoni» – quando viene privato della sua umanità, quando lo si considera incarnazione del male, nonché una minaccia esistenziale, il risultato è che questi «contaminanti» umani vengono rimossi dalla società. La colpevolezza o l’innocenza riconosciute dalla legge sono irrilevanti. Nemmeno l’essere cittadini statunitensi offre protezione.
«Il primo passo essenziale sulla via verso il dominio totale è uccidere la persona giuridica nell’uomo» scrive Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo. «Questo è stato fatto.Da un lato mettendo certe categorie di persone al di fuori della protezione della legge e forzando allo stesso tempo, attraverso lo strumento della denazionalizzazione, il mondo non-totalitario a riconoscerne l’illegalità. Dall’altro collocando i campi di concentramento fuori dal sistema penale e selezionando i detenuti fuori dalla normale procedura giudiziaria, ove un reato definito comporta una pena prevedibile.»
Chi costruisce campi di concentramento costruisce società basate sulla paura. Diffonde incessantemente allarmi su pericoli esiziali, sia che provengano dagli immigrati, dai mussulmani, dai traditori, dai criminali comuni o dai terroristi. La paura si diffonde lentamente, come un gas sulfureo, fino a contagiare le interazioni sociali e provocare paralisi. Ci vuole tempo. Nei primi anni del Terzo Reich, i nazisti gestivano dieci campi con circa 10 mila detenuti. Ma dopo essere riusciti a schiacciare tutti i centri di potere concorrenti – sindacati, partiti politici, stampa indipendente, università, chiesa cattolica e chiesa protestante – il sistema dei campi di concentramento esplose. Nel 1939, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, i nazisti gestivano 100 campi di concentramento con circa un milione di detenuti. Dopo furono i campi di sterminio.
Chi crea questi campi sa anche propagandarli efficacemente. Sono progettati per intimidire. La brutalità è il loro punto di forza. Dachau, il primo campo di concentramento nazista, non fu, come scrive Richard Evans in The Coming of The Third Reich [La nascita del Terzo Reich, Mondadori, 2019] «una soluzione improvvisata a un problema inaspettato di sovraffollamento delle carceri, ma una misura pianificata da tempo, immaginata dai nazisti sin dall’inizio. Ampiamente pubblicizzata anche attraverso la stampa locale, regionale e nazionale, servì da severo monito a chiunque contemplasse l’idea di resistere al regime nazista».
Agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), in borghese e su auto-civetta, rapiscono residenti legali come Mahmoud Khalil. Sono rapimenti identici a quelli di cui sono stato testimone nelle strade di Santiago del Cile, sotto la dittatura di Augusto Pinochet, o di San Salvador, capitale di El Salvador, durante la dittatura militare.
L’ICE si sta rapidamente trasformando nella versione locale della Gestapo o del Commissariato del Popolo per gli Affari interni (NKVD) sovietico. Supervisiona 200 strutture di detenzione. È una formidabile agenzia di sorveglianza interna che ha accumulato dati sulla maggior parte degli americani, secondo un rapporto del Center of Privacy & Technology della Georgetown University.
«Accedendo agli archivi digitali statali e locali, nonché acquistando database con miliardi di dati da aziende private, l’ICE ha creato un’infrastruttura di sorveglianza che gli consente di raccogliere dossier dettagliati su pressoché chiunque e in ogni momento» si legge nel rapporto. «Per arrestare e deportare, l’ICE ha avuto accesso, senza alcun controllo giudiziario, legislativo o pubblico, a database contenenti informazioni personali sulla stragrande maggioranza delle persone che vivono negli Stati Uniti, semplicemente perché hanno chiesto la patente, guidato sulle strade pubbliche o si sono registrate per ottenere servizi pubblici locali come riscaldamento, acqua ed elettricità.»
Le persone rapite, tra cui una cittadina turca, dottoranda alla Tufts University, Rümeysa Öztürk, sono oggetto di accuse generiche, come «attività a sostegno di Hamas». Sono furbizie, accuse non più reali dei crimini inventati sotto lo stalinismo, dove alcuni erano accusati di appartenere al vecchio ordine sociale – kulaki o membri della piccola borghesia – altri, come i trotskisti, i titoisti, gli agenti del capitalismo o i sabotatori, chiamati «demolitori», erano condannati per aver complottato contro il regime. Quando una categoria viene presa di mira, i crimini di cui vengono accusate le persone che vi appartengono, ammesso che ci si prenda il disturbo di accusarle, sono quasi sempre inventati.
I detenuti dei campi di concentramento vengono isolati dal mondo esterno. Non esistono, sono cancellati. Addirittura, è come se non fossero mai esistiti. A quasi tutti i tentativi di ottenere informazioni su di loro la risposta è il silenzio. Anche la loro morte, quando muoiono durante la detenzione, è anonima, è come se non fossero mai nati.
Quelli che gestiscono i campi di concentramento, come scrive Hannah Arendt, sono persone senza curiosità o prive della capacità mentale di formarsi un’opinione. «Non sanno cosa significhi maturare una convinzione» osserva la filosofa: sanno solo obbedire, condizionati ad agire come «animali perversi». Sono inebriati dall’onnipotenza di trasformare esseri umani in greggi di pecore impaurite.
L’obiettivo di qualsiasi sistema di campi di concentramento è distruggere ogni caratteristica individuale, plasmare le persone in masse spaventate, docili e obbedienti. Le prime strutture operative sono campi di addestramento per guardie carcerarie e agenti dell’ICE. Qui imparano le tecniche brutali progettate per infantilizzare i detenuti, un’infantilizzazione che presto deformerà l’intera società.
Ai 250 presunti membri di una gang venezuelana spediti in El Salvador, in spregio a una sentenza della corte federale, è stato negato un processo equo. Sono stati frettolosamente caricati su aerei, che hanno ignorato l’ordine del giudice di inveeertire la rotta; una volta arrivati a destinazione i deportati sono stati spogliati, picchiati e rasati a zero. Il cranio rasato è una caratteristica di tutti i campi di concentramento. La scusa sono i pidocchi. Ma ovviamente è un modo per spersonalizzarli, infatti indossano anche uniformi e sono identificati da numeri.
L’autocrate si crogiola senza remore nella propria crudeltà. «Non vedo l’ora di vedere quei criminali terroristi e psicopatici ricevere 20 anni di carcere per quello che stanno facendo a Elon Musk e a Tesla» ha scritto Trump su Truth Social. «Magari potrebbero scontare la pena nelle prigioni di El Salvador, di recente diventate famose per le loro condizioni davvero piacevoli!»
Coloro che costruiscono campi di concentramento ne vanno fieri. Li esibiscono alla stampa, o almeno agli adulatori che si spacciano per giornalisti. La segretaria alla Sicurezza interna, Kristi Noem, che ha pubblicato un video di se stessa in visita alla prigione salvadoregna, ha usato i detenuti a torso nudo e con la testa rasata come comparse per dimostrare quanto possono far male le sue minacce contro gli immigrati. Se c’è una cosa che il fascismo sa fare bene, è lo spettacolo.
Prima gli immigrati. Poi gli attivisti con visti per studenti stranieri nei campus universitari. Poi i titolari di green card. Poi i cittadini statunitensi che combattono il genocidio israeliano o il fascismo strisciante. Poi sarà il tuo turno. Non perché hai infranto la legge. Ma perché la mostruosa macchina del terrore ha bisogno di un costante rifornimento di vittime per alimentarsi.
I regimi totalitari sopravvivono combattendo eternamente minacce mortali ed esistenziali campate in aria. Una volta eliminata una minaccia, ne inventano un’altra. Si fanno beffe della legalità. I giudici, almeno fino a quando non vengono epurati, hanno la possibilità di denunciare l’illegalità, ma non hanno alcun meccanismo per far rispettare le loro sentenze. Il Dipartimento di giustizia, affidato alla servile Pam Bondi, fedele sostenitrice di Trump, è, come in tutte le autocrazie, organizzato per impedire l’applicazione della legge, non per facilitarla. Non ci sono più ostacoli legali a proteggerci. Sappiamo dove tutto questo porterà. Lo abbiamo già visto. E non è niente di buono.
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Chris Hedges è stato capo dell’ufficio mediorientale del New York Times. Ha fatto parte del team di giornalisti del New York Times insigniti nel 2002 del Premio Pulitzer. Parla arabo, per sette anni ha coperto il conflitto tra Israele e Palestina, per la maggior parte del tempo da Gaza. Ha scritto 14 libri, i più recenti sono: The Greatest Evil Is War (non tradotto);A Genocide Foretold: Reporting on Survival and Resistance in Occupied Palestine (Un genocidio annunciato: Storie di sopravvivenza e resistenza nella Palestina occupata, Fazi Editore, 2025).
MILANO DA SBALLO
4,6 minuti a testa
di Scot e Rac
Rieccoci all’edizione 2025 del Forum dell’Economia Urbana, organizzato dal Comune di Milano presso l’università privata di cui è socio, la Luiss. Due giorni: il 17 e 18 giugno, dalle 9.30 alle 19, con un intervallo di un’ora o un’ora e mezza dedicato al networking, che non ho capito bene in cosa consista ma siccome è sostitutivo dell’ineludibile pausa pranzo, suppongo sia il cuore del programma, dove anche ci si scambiano i biglietti da visita, ci si confidenzia e, soprattutto, si negozia. Che cosa? Alleanze politiche, accordi mercantili, interessenze in intraprese graziate da denaro nostro, ma più che lecite, ci mancherebbe. Ben vero è che il dominus del Forum è il sindaco della città, quel Giuseppe Sala che si fece le ossa nel famigerato Expo 2015, fiera espositiva fallimentare che calamitò l'attenzione di magistrati ansiosi di scoprire come una fiumana di denaro pubblico si fosse inaridita nel Carso meneghino. Ma sia chiaro: Sala ne uscì assolto.
La duegiorni dibattimentale esibirà durante 16 ore ben 117 tra relatori e moderatori, che dunque avranno mediamente a disposizione 4,6 minuti a testa, al lordo di ospitame vario, di cronofagie logistiche e rituali, di prolungamenti concionatori, di preponderanze decisionali sulle dissertazioni accademiche. E al netto di cene e altre scorribande serotine. Il ruolino di marcia nega dunque al raduno ogni aspirazione dibattimentale e riflessiva, per relegarlo in un ideale recinto alle grida non dissimile da quello che fu il cuore della Borsa di Milano fisica, dove stuoli di mediatori urlavano proposte d’acquisto e di vendita, corredate e mimetizzate da gesticolazioni criptiche ai risparmiatori, relegati in un soppalco non casualmente battezzato parco-buoi.
Dunque non perdete tempo, voi come me estranei alle cerimonie negoziali dei padroni della città, a seguire la duegiorni: sarebbe come cercar di decifrare la messa in latino, ignorando che le questue si computano e spartiscono a fine messa in sacrestia e in lingua volgare, i fedeli nella navata a smaltire l’eco della lingua del Signore e all’oscuro del pondo elemosinario e di come venga declinato in carità cristiana.
Del resto Sala, pur nella sua inevitabile contiguità fisica ‒ mai complice in alcunché di men che lindo, sia chiaro ‒ con i facitori e i redditieri della città, esibisce on-line un programma del Forum cristallino: vi sono dettagliati nomi e cariche e relazioni di tutti che si alterneranno al microfono. Se non vi troverete nulla di concreto, come non ce l’ho scovato io e dunque non capirete il senso del raduno, sia monito a starne alla larga. Citando il barista del Naviglio Stretto, «è già umiliante, come cittadini liberi, farsi pisciare addosso, sarebbe intollerabile sentirsi dire che piove».
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TUTTI A WASHINGTON PER LA PARATA MILITARE
Sfila anche la Brigata degl’Italiani che Viaggiano a Sbafo
di Scot
Marceranno o faranno le belle statuine 6.600 soldati. Romberanno 150 veicoli da guerra. I carrarmati Brahams e altri cingolati grattugeranno l’asfalto, il cui ripristino contribuirà per un terzo ai 45 milioni di dollari (39 di euro) del costo della sfilata. In cielo frulleranno 50 elicotteri tra Apache e Black Hawk. Poi uno stormo di jet. Spunteranno a quota nana, ricalcando medesima, discreta, infida rotta: da sud-sud-est a nord-nord-ovest lungo la quale 24 anni fa il babbo di un pilota odierno tirò un missile sul Pentagono. Lo centrò sul lato della Marina, opportunamente svuotato perché gl’inquilini non si facessero male. Evacuazione replicativa di quella pure ordinata la vigilia alle Torri Gemelle. Vi lasciarono poco più di mille inquilini sui 50 mila che vi risiedevano ogni giorno lavorativo alle 9 del mattino, quando i timer della Cia cominciarono a detonare la sequela di bombe che avrebbe collassato, in verticali perfette, tre grattacieli costruiti a prova di schianto aereo. Eppure è a due aerei cargo, telecomandati e vuoti e coi finestrini finti pitturati sulle carlinghe, che la messinscena governativa imputò il crollo. Ma si afflosciò anche un terzo grattacielo, che non fu colpito da alcun aereo, semplicemente perché quello a ciò programmato non era riuscito a decollare. Lo nascosero subito in un hangar fuorimano, vi cancellarono i finestrini e lo rimandarono a fare il mestiere di fattorino. Addio sogni di gloria postuma al cimitero dei velivoli-martiri.
Idem al Pentagono. Anche qui il ministero della Propaganda diede la colpa a un aereo passeggeri. Fantasma. Alcun testimone lo vide mai, che nessuna telecamera riprese, ma che nessun argomento scientifico e razionale mai sarebbe riuscito a sbugiardare agli occhi del popolo dei creduloni. Com’è possibile che un aereo di linea, largo una sessantina di metri, abbatta cinque edifici lasciandoci un tunnel di due metri e mezzo? E dove sono i suoi rottami? Domande inudibili per popoli emozionoidi, cioè allocchiti da emozioni antagoniste della ragione. Sarebbe come eccepir loro che il signor Cristo non resuscitò Lazzaro, né moltiplicò ‒ per partenogenesi? per clonazione? fulminee ‒ pani e pesci né sgorgò ettolitri di vino da brocca vuota, sennò da duemila anni non ci sarebbero coltivatori di grano né mugnai né pescatori né vignaiuoli.
Eppure è il 250° compleanno delle forze armate dei massimi bugiardi e terroristi del mondo moderno, che allestirono gli auto-attentati dell’11 settembre 2001, che domani si festeggia a Washington. Concediamo che, tra il folto dei creduloni patologici, si siano insinuati resistenti alla follia, e che eccepiscano: «D’accordo, l’11 Settembre fu hollywoodata indispensabile a far accettare a popoli tendenzialmente pacifisti, per non dire codardi irresponsabili, guerre di aggressione che i politici responsabili ritenevano necessarie. Ma adesso le cose sono cambiate: lo Zio Sam e la sua sfilza di nipotini in Europa hanno smesso di fare birichinate e imputarle ai nemici. Non ordiscono più quelle che i militari e i politici con le stellette chiamano Operazioni di False Flag, cioè sotto falsa bandiera».
Balle. La Nato ha scatenato i mercenari ucraini ad aggredire la Russia, che se ne è difesa; la Nato ha dinamitato i metanodotti marini (costruiti da Russia, Germania e altri Paesi europei) per importare dall’Est metano a buon mercato; la Nato (compreso il governo Meloni, ovvio) continua a fornire a Israele le armi che gli hanno sinora consentito di massacrare 64 mila palestinesi, in ritorsione a un attentato (7 ottobre 2023) di False Flag, cioè che il governo israeliano propiziò, se non direttamente pilotò per «risolvere la questione palestinese» così come il nazismo volle risolvere quella ebraica: Hitler deportando gli ebrei in Madagascar o altrove, il governo Netanyahu deportando i palestinesi in Egitto, Giordania o altrove…
Vi percepisco irritati e scalpitanti: Ma dove sto andando a parare? che c’entra questa sgradita filippica rievocativa delle nefandezze storiche e odierne dell’Occidente? Cos’ha a che vedere con la parata di domani a Washington?
Niente. Le torme di italioti che hanno trovato il modo di farsi spesare dal governo Meloni o dalle amministrazioni locali la trasferta nella capitale degli Stati Uniti pretestando «dovere di presenza politica», in realtà vi fanno presenza godereccia. Cosa non si farebbe per volare in prima classe, sparapanzarsi in alberghi a 50 stelle, famiglia al seguito e tutto gratis, spesati in ristoranti sontuosi nei quali la maggioranza del popolo statunitense non ha dollari per metter piede! E poi sono lì a incettare quattrini e sinecure. Complice la rituale corte sciacquina di pennivendoli, i nostri Viaggiatori a Sbafo, Mendicanti di Lusso, cercheranno d’insinuare, sottotraccia in un comunicato qui, in un’intervistina là, profferta d’ulteriore servaggio. In cambio di prebende per sé, per la famiglia, per i famigli e giù giù, ma proprio in fondo, per elettori a ciotola tesa verso ogni sperata brocca di Cana.
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Se Renzi cerca lavoro
Un giornalista francese, peraltro autore di libri d’inchiesta che hanno svelato misfatti politici e militari di portata ecumenica, nonché conduttore di primario sito internazionale di controinformazione, un giorno si rese conto che i suoi scritti on-line erano molto letti e condivisi. Ma non redditizi. Ogni volta che tentava di aggiogare i lettori a un abbonamento pagante, li perdeva. Pretendevano disporre gratis di buona stampa. Allora l’Autore, che senza indipendenza economica non avrebbe avuto di che permettersi quella giornalistica, si risolse a offrire i propri servigi professionali ai governi che gli erano ideologicamente vicini, o quantomeno accettabilmente lontani. Lo faceva accusando gli agognati committenti di non saper fare il loro lavoro o di non saperlo fare bene; lavoro che invece lui, il questuante, conosceva benissimo. E che dunque ‒ sottinteso ‒ lui avrebbe potuto aiutarli a svolgere meglio, se non svolgere completamente al posto loro. In questo modo, ottenne consulenza sul teatro bellico della Jugoslavia invasa, poi da Gheddafi, entrando addirittura nel governo biblico come esperto mediatico, indi dal governo siriano.
All’oggi: non ho idea dove questo Autore, che peraltro continua a produrre a un alto livello qualitativo, reperisca i soldi per tirare avanti.
È a questo grande giornalista francese che nei giorni scorsi ho pensato quando, a Milano, ho ascoltato un breve comizio teatrale di Matteo Renzi, già primo ministro romano in conto atlantico.
Renzi ha reiterato la catena concettuale che sintetizzo: «Ho grande rispetto per il governo Meloni; purtroppo Meloni non sa fare politica estera; io ho dimostrato e continuo a dimostrare di saperla fare; io sono disposto a collaborare con il governo Meloni».
Persino io, che non sono un’aquila della politica, mi sono sentito autorizzato a sospettare che Renzi aspiri a una di queste cose: o farsi cooptare da Meloni nel governo, o farsi assumere come consulente, o farsene ascoltare come consigliere disinteressato, o farsene preporre alla guida di qualche ente protagonista della politica internazionale, o farsene sponsorizzare la nomina in analogo organismo europeo.
Ma, chiedo a me e a voi: uno con i trascorsi e le entrature di Renzi possibile che, per inoltrare una domanda di lavoro o una raccomandazione a Meloni, abbia bisogno di fittare un teatro milanese? E, aggravante: c’era bisogno di prendere la scusa di esprimere solidarietà ai palestinesi, macellati da un governo israeliano con il quale Renzi è sempre stato, e continua a essere, pappa e ciccia?
(gcs) |
MERCATINO DEI VOTI
Urina e giornali
di Scot
I ladri pavidi hanno solo un modo per campare: derubare chi non può impedirglielo. Le Asl della grassa padania tagliano i fondi ai malati deboli. Per esempio hanno sfoltito la provvista mensile di pannoloni agli anziani incontinenti e poveri, quelli che non hanno i quattrini di comprarsene quanti ne servono. Così da tre pannoloni al giorno si è scesi a due. Uguale a condanna a macerarsi per 12 ore nel piscio le parti intime. Scrivo volgare, vero? Roba da prendermi a sberle, pensate cosa farei io a questi politicanti dell’Als e peggio agli elettori che li hanno messi lì o che li tollerano.
In vista dell’annunciata Terza Grande Guerra, altri soldi saranno trasferiti dalla sanità pubblica alle forze armate. Obiettivo: spendere in armi il 5% del PIL, cioè due volte e mezza di quanto il governo Meloni spende oggi. Per racimolare tanti quattrini dovranno affondare le mani nelle tasche di chissà quanti povericristi, tutti incapaci di difendersi, chiaro.
Ma se una mano ruba, l’altra dona: lo stesso governo Meloni ha stanziato 65 milioni di euro per fare contenti edicolanti, distributori di giornali ed editori. In dettaglio: 13 milioni a chioschi e simili, 4,5 a quanti vi recapitano i giornali, il resto per arrivare ai 65 milioni va agli editori. Tutti beneficiari in gran parte bari, perché le edicole vendono soprattutto grattaevinci, giochini, ricordini, biglietti dei mezzi pubblici, cibi e bevande. Sembrano i bazar dei terzomondo, dove trovi di tutto. Quanto ai distributori, che cavolo trasportano alle edicole, visto che il grosso dei pochissimi lettori rimasti è abbonato on-line? Ma i più imbroglioni sono gli editori, che sparano diffusioni multiple di quelle reali. È già da masochisti leggere gazzettini ridotti a cronacare sesso, sangue e sport, nonché a far eco alla propaganda di regime; pagare per questa robaccia è martellarsi in testa. Masochismo peraltro da semianalfabeti, visto che i cronisti più miserandi arrivano a guadagnare, per ogni articolo, il valsente di una birra. Che cultura e indipendenza volete vantino questuanti di così basso conio?
Sì, edicole e redazioni di giornali olezzano più dei cronicari e delle solitudini domestiche a corto di pannoloni.
Handy Flotilla
Da due anni e 8 mesi in Palestina avvampa una guerra che ha già provocato 55 mila morti. Finirà quando Israele avrà deportato un bel po’ di palestinesi in Egitto, in Giordania e ovunque altrove qualcuno sia disposto a mantenere un’etnia che da tre generazioni si fa mantenere dalla comunità internazionale. La quale ha portato in Palestina centinaia di tonnellate di cibo e medicinali, in gran parte bloccate come arma di guerra dai militari di ambo gli schieramenti. Nessun Paese al mondo ha sinora imposto sul serio la distribuzione di queste risorse, figurarsi la pace.
Ed ecco che un gruppetto di diportisti-esibizionisti da catastrofe carica su una barca a vela un paio di quintali tra pelati e sardine in scatola, acqua minerale e aspirine, nonché una ragazza autistica da anni sfruttata da genitori indegni come fenomeno da baraccone. I pennivendoli mondiali si lasciano convocare da questo gruppetto, che proclama in mondovisione: «Andiamo a salvare i palestinesi che muoiono d’inedia». I pennivendoli li prendono sul serio, il popolobue d’ogni latitudine pure.
Per fortuna di tutti questi irresponsabili, i soldati israeliani non lo sono e salvano la ciurma dalle bombe. Impacchettano la signorina handy e la spediscono ai genitori, astenendosi dal liquidare il resto dell’equipaggio come da due anni e 8 messi stanno facendo con i terroristi e con gli zingari locali che li esprimono e sostengono.
(gcs) |
articolo riservato
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da CounterPunch 5 giugno 2025 (USA) |
No, non abbiamo bisogno di un altro Progetto Manhattan per l’IA
di Eric Ross *
traduzione di Rachele Marmetti
«La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa». L’aforisma di Marx sembra oggi più che mai profetico.
La settimana scorsa il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti ha lanciato un appello sciovinista sui social media per un «nuovo Progetto Manhattan». Obiettivo: vincere la cosiddetta corsa alla supremazia nell’intelligenza artificiale.
Ma il Progetto Manhattan non è un modello da imitare. Al contrario, deve essere un avvertimento, un ammonimento di ciò che accade quando la scienza viene messa al servizio del potere dello Stato, quando la libera ricerca cede il passo alla rivalità nazionalistica e il culto del progresso viene scisso dalla responsabilità etica. Dimostra come la segretezza propaghi la paura, corroda la fiducia del cittadino ed eroda le istituzioni democratiche.
Il Progetto Manhattan può essere considerato, come affermò il presidente Harry Truman, «il più grande azzardo scientifico della storia». Ma rappresentò anche una sfida alla continuità della vita sulla terra. Portò il mondo sull’orlo dell’annientamento, un abisso sul quale oggi ci affacciamo di nuovo. Un altro progetto di questo tipo potrebbe spingerci oltre il limite.
I parallelismi tra le origini dell’èra atomica e l’ascesa dell’intelligenza artificiale sono sorprendenti. In entrambi i casi, proprio i ricercatori all’avanguardia nell’innovazione tecnologica sono stati tra i primi a lanciare l’allarme.
Durante la seconda guerra mondiale gli scienziati atomici manifestarono preoccupazioni per la militarizzazione dell’energia nucleare, ma il loro dissenso fu represso grazie alle rigide restrizioni imposte dalla segretezza bellica. Furono indotti a continuare a lavorare al progetto dall’imperativo di costruire la bomba prima della Germania nazista. In realtà, quando il Progetto Manhattan prese slancio, la minaccia era ormai fortemente ridimensionata, giacché la Germania stava abbandonando gli sforzi per sviluppare un’arma nucleare.
Il primo studio tecnico che valutò la fattibilità della bomba concluse che essa poteva certamente essere costruita, ma avvertì che «a causa della dispersione di sostanze radioattive dovuta al vento, la bomba non potrebbe probabilmente essere utilizzata senza causare la morte di un gran numero di civili; il che la renderebbe impropria come arma…».
Quando nel 1942 gli scienziati teorizzarono che la prima reazione a catena atomica avrebbe potuto incendiare l’atmosfera, Artur Holly Compton ricorda di aver pensato che se tale rischio si fosse dimostrato reale, allora «queste bombe non dovrebbero mai essere costruite… meglio subire la schiavitù dei nazisti che correre il rischio di calare il sipario sull’umanità».
Leo Szilard redasse una petizione per esortare il presidente Truman a non utilizzare la bomba atomica contro il Giappone. Avvertì che questi bombardamenti sarebbero stati moralmente indifendibili nonché strategicamente miopi: «La nazione che per prima usa a fini distruttivi queste nuove forze della natura appena liberate» scrisse «potrebbe doversi assumere la responsabilità di spalancare le porte a un’èra di devastazione su scala inimmaginabile».
Oggi non possiamo nasconderci dietro il pretesto di una guerra mondiale. Non possiamo nemmeno invocare lo spettro di un avversario esistenziale. Gli ammonimenti sull’intelligenza artificiale sono chiari, pubblici e inequivocabili.
Nel 2014 Stephen Hawking avvertì che «lo sviluppo di un’intelligenza artificiale compiuta potrebbe significare la fine della razza umana». In anni più recenti, Geoffrey Hinton, definito il “padrino dell’IA”, si è dimesso da Google adducendo preoccupazioni sempre più fondate sul «rischio esistenziale» rappresentato dallo sviluppo incontrollato dell’IA. Poco dopo, un sodalizio di ricercatori e leader del settore hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano che «mitigare il rischio di estinzione causato dall’IA dovrebbe essere una priorità mondiale come per altri rischi globali, quali pandemie e guerre nucleari». Nello stesso periodo, oltre un migliaio di esperti e decine di migliaia di altre persone hanno firmato una lettera aperta per chiedere una pausa temporanea nello sviluppo dell’IA al fine di riflettere in quale direzione stiamo andando e sulle conseguenze a lungo termine.
Tuttavia la corsa allo sviluppo di un’intelligenza artificiale sempre più potente non si ferma, implacabilmente spinta più dalla paura che dalla lungimiranza: fermarne lo sviluppo potrebbe significare restare indietro rispetto ai rivali, in particolare alla Cina. Ma di fronte a rischi esiziali, ciascuno dovrebbe chiedersi: ma qual è la vera posta in palio?
Riflettendo su analogo fallimento rispetto ai pericoli rappresentati dal progresso tecnologico del proprio tempo, Albert Einstein ammonì: «Il potere scatenato dell’atomo ha cambiato tutto tranne il nostro modo di pensare; ci stiamo lasciando trasportare verso una catastrofe senza precedenti». Queste parole oggi suonano imperiose quanto allora.
La lezione dovrebbe essere ovvia: non possiamo permetterci di ripetere gli errori dell’èra atomica. Evocare il Progetto Manhattan come modello di sviluppo dell’IA non solo significa ignorare la storia, è anche politicamente sconsiderato.
Ciò di cui abbiamo bisogno non è una nuova corsa agli armamenti alimentata dalla paura, dalla competizione e dalla segretezza, ma del contrario: di un’iniziativa globale per democratizzare e smilitarizzare lo sviluppo tecnologico, per dare priorità ai bisogni umani, per fare di dignità e giustizia il fulcro per promuovere il benessere collettivo di tutti.
Oltre trent’anni fa, Daniel Ellsberg, già pianificatore di guerre nucleari, diventato in seguito voce di denuncia, propugnò un diverso tipo di Progetto Manhattan: non per costruire nuove armi, ma per rimediare al danno causato dalle prime e per smantellare le macchine apocalittiche già nelle nostre mani. La sua idea permane l’unico "Progetto Manhattan" razionale e moralmente difendibile che valga la pena perseguire.
Non possiamo permetterci di prenderne atto e di agire a posteriori, come fu per la bomba atomica. Joseph Rotblat, l’unico scienziato che si dimise dal Progetto Manhattan per ragioni etiche, riflettendo su quello che riteneva un fallimento collettivo, scrisse:
«L’èra nucleare è un vivaio di scienziati… formati nel totale disprezzo dei principi fondamentali della scienza: apertura e universalità. È stata concepita segretamente e, ancor prima della sua nascita, usurpata da uno Stato per conquistare il dominio politico. Con tali difetti congeniti, e per di più alimentata da un’armata di dottor Stranamore, non c’è da stupirsi che si sia trasformata in un mostro… Noi, gli scienziati, abbiamo molto di cui rispondere.»
Se la strada che abbiamo imboccato porta al disastro, la risposta non è accelerare. Come avvertirono i medici Bernard Lown ed Evgeni Chazov al culmine della corsa agli armamenti, durante la guerra fredda: «Quando si corre verso un precipizio, il progresso è fermarsi».
Dobbiamo fermarci non già per opporci al progresso, ma per perseguire un tipo di progresso diverso: un progresso radicato nell’etica della scienza, nel rispetto per l’umanità e nell’impegno per la nostra sopravvivenza collettiva.
Se prendiamo coscienza delle minacce dell’intelligenza artificiale, dobbiamo abbandonare l’illusione che la sicurezza consista nel precedere i nostri rivali. Come hanno ammonito coloro che questa tecnologia la conoscono dall’interno, in questa corsa non ci possono essere vincitori, perché è solo un’accelerazione verso una catastrofe comune.
Fin qui siamo sopravvissuti per un soffio all’èra nucleare. Ma se non ne traiamo insegnamento e rinunciano all’intelligenza umana, potremmo non sopravvivere all’èra dell’intelligenza artificiale.
*
Eric Ross è organizzatore, educatore, ricercatore e dottorando presso il Dipartimento di Storia dell’Università del Massachusetts Amherst. È coordinatore nazionale del Teach-In Network, sponsorizzato dal RootsAction Education Fund.
INCIPIT & INCIPOT
«Vieni a Toppelo, scriveremo la tua favola»
di Scot
Sul serio: l’invito viene dalla Lega dei Biografi Toppelesi (LeBit). Sono corporazione talmente folta che quando vanno all’annuale messa di ringraziamento a Caravaggio riempiono tre corriere granturismo. Del resto ti basta risalire Via dei Torchi ed è tutt’un susseguirsi d’insegne professionali della medesima congrega: Lo scrivano, Studio di scrittura e di edizioni, La casa della biografia, Visto si stampi, Profumo d’inchiostro, Penna d’oca e calamaio, Cronache famigliari, A futura memoria, Storia di casati e parentele, Dalla parola alla stampa, La tua autobiografia... Le vetrine sono stazioni di una mostra permanente che allinea i capolavori di tipografie dai guizzi arditi, che elevano a opera d’arte anche le 22 pagine che dànno conto del passaggio terreno di Nicolsandro Vernacci, deceduto a due anni. Le sue gesta, per quanto cronaca puntigliosa di lallazioni sempre uguali, non potrebbero issarsi in palco in alcun soggiorno se non fossero incise su carta di grammatura pontificia, con inchiostro millesimato certificato leggibile per un millennio e non fossero rilegate con pelle di vitello lattonzolo rutilante di borchie, dorsi, angoli e punzonature in oro o comunque in princisbecco lustrato a zecchino. Obietterete che tanto scialo di materie prime pregiate non intride di letteratura le esternazioni di un Nicolsandro ch’è misero progetto-di-uomo allo stadio di afonia belluina; ma ce l’hanno eccome se il supposto dire del duenne è interpretato dalla Prima Penna di Toppelo, al secolo Gualtiero Gofressa, non a caso sollecitatissimo da sfilza di committenti. Sì, perché a Toppelo non meno degli artigiani del torchio eccellono quelli della penna: sono costoro a mettere ordine razionale e grammaticale nelle esternazioni confuse e quasi sempre smargiassate dei clienti, che in copertina si esibiranno come gli autori delle proclamate autobiografie.
Prima di metterti in viaggio per Toppelo e sognare di bearti delle invidie che la tua biografia susciterà, due avvertenze. La prima: su molte mappe, comprese quelle che ti orientano sul cellulare e sul cruscotto, il paese si palesa col vecchio nome. Motivo: cambiarlo è procedura laboriosa e lenta, che a volte persino s’inceppa e ristà sino ad arrugginire, per cui se non ne lubrifichi gl’ingranaggi non riparte più. E sia bandita ogni allusione che associa l’olio al denaro, anche se il Gofressa ha chiesto e ottenuto dal sindaco «lo stanziamento di somma adeguata per sveltire la pratica di riconoscimento del nuovo toponimo». E comunque, anche ove il novello Toppelo riuscisse a riscattarsi anche formalmente dal plebeo Toppealculo (pazienta, sto per spiegare), con cui appunto ancora si sconvenia sulle mappe, è un fatto che è con questo nome che devi cercarlo.
Ma chi fu tanto cattivo, nei secoli scorsi, da appioppare a questo borgo pur così piangente (ti spiego anche questo) un nome che a pronunciarlo ti arriccia le labbra di sgradevolezza? Tu sei benestante più che agiato, stai pensando di farti confezionare una biografia o un’autobiografia su misura manco fossi un berluskino che commissioni le gesta santificate di babbo. Hai orrore del vólgo, massime di quello propeso alla sudditanza: l’antico Toppealculo non scimmiottava i sanculotti, implicando analoghe benemerenze ghigliottinarde (si fa per dire, immagino tu stia col Re Sole, similia similibus palanche). Il motivo della scelta battesimale fu proprio quella che pronuncia agre suggerisce: la gente del borgo era talmente povera da promenarsi con le toppe sulle brache. I latifondisti cavavano poco da questi campi e pagavano pochissimo chi li lavorava. I senzabrache, come anche dileggiavano quelli di Toppealculo, erano in gran parte ridotti al mendicantato. A piedi, e poi in bici e in motorino e in auto (negli anni Settanta una brava manotesa postata a ridosso di chiesa o di fiera, a fine giornata aveva insaccocciato anche 60 mila lire, quando un operaio della grande fabbrica metalmeccanica della città ne guadagnava 15 mila), quelli di Toppealculo erano mandria pezzente che transumava per l’intera provincia. E oltre: tra le loro mete di caccia svettava Caravaggio. Ecco perché i toppelesi che oggi hanno il culo rivestito armani vanno volentieri ancora lì.
Al secondo avvertimento ti ho già preparato: che tu decida di farti biografare o autobiografare, il conto sarà salato. Quando distribuirai a parenti e amici le copie del “tuo” libro forse la ruota del pavone letterato non li incanterà, ma sicuramente riscuoterai invidia per quanto avrai speso per girarla.
così poco alterativo di consolidate abitudini?
©
(1 - continua - Testo integrale nella raccola Prima di spegnere la luce, vol. II, 2025)
MOLTO DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
Figliolo, ti toccherà lavorare
di Scot e Rac
Nell’articolo sotto Alfredo Jalife-Rahme offre un saggio di quanto il Partito della Guerra sia ovunque attivo, di là e di qua dell’Atlantico.
Secondo l’Internazionale dei Falchi urge sconfiggere innanzitutto la Russia. Con una disfatta che la inginocchi e rattrappisca, proseguendo la medesima offensiva verso Est ch’era nei piani del III Reich e che Stalin gli mandò a monte. Sconfitta la Russia, si passerà alla Cina. Per poi (ma questa è narrazione nostra, non di Jalife-Rahme) smembrarla in regioni autonome chiamate Stati intermedi, seguendo lo stesso copione collaudato negli anni Novanta all’indomani dell’invasione della Jugoslavia. Cascame produttivo della vittoria occidentale su Pechino: si rimetterà in riga anche Tokio, che non potrà più accampare di dover tenere buoni rapporti con la Cina per non obbedire puntualmente e del tutto agli ordini della Nato Globale, sulla quale appunto e finalmente non tramonterà mai il sole.
Se registi delle due prossime spallate conclusive anti-Russia e anti-Cina sono Washington, capocordata, seguita da Londra, Varsavia e Parigi, la guerra mondiale arruolerà nel ruolo di ascari anche Stati minori, a cominciare dall’Italia. Che è anni-luce dall’avere i quattrini per pagare la propria caratura di conto. Ma siccome in un modo o nell’altro si è impegnata a saldarlo ‒ con la dissennatezza d’indebitarsi in bianco ‒ vediamo quali sgradite sorprese i governi nostrani preparano a un popolo che peraltro si è meritato gli uni e le altre.
Per tratteggiarle, muoviamo da due premesse:
1. Dal punto di vista economico la sovranità di ogni Stato europeo è ormai da anni trasferita a organismi sovrannazionali, ancorché sostanzialmente para-statunitensi, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e via elencando. Anche nell’ipotesi, puramente accademica, che la maggioranza del popolo si converta al pacifismo, ormai è tardi per riconquistare la dignità e la libertà perduta.
2. Sostenere il primo riarmo europeo per attaccare di brutto la Russia e un secondo per sistemare la Cina richiede di spendere in armi assai più del 5% del Pil ipotizzato dai Signori della Guerra, quota peraltro più che doppia rispetto al 2% cui Meloni ci ha già portato e che basta e avanza a immiserire schiere di famiglie. Anche se Meloni e compari smagrissero all’osso il bilancio della Stato, resecando a mannaia le spese sociali, schizzando l’inflazione e creando poveri e morituri a milionate, molto peggio di quanto fu costretta a fare la Grecia anni fa, non sarebbero neppure a metà raccolta.
Allora dove drenare il resto delle risorse per vincere la III guerra mondiale in entrambe le sue offensive? Non resta a Meloni e compari che assaltare il più gigantesco, il più sin qui intoccabile forziere del Paese. Quello che assorbe il 20% del Pil, costituisce il 60% dell’intero patrimonio nazionale e che ha sinora garantito sonni tranquilli e privilegi medievali alla borghesia più vorace, privilegiata, immeritevole ed egotista; talmente barbara da negare alla costituzione repubblicana quello che dovrebb’esserne caposaldo e suggello etico: Tutti nascono economicamente uguali. Parliamo dell’eritocrazia (accorciativo di ereditocrazia, analogamente al francese héritocratie): cioè della casta degli ereditieri, che stanno alle repubbliche del XXI secolo come i nobili stavano alle monarchie del XVIII. Questa eritocrazia è destinata a finire sulla ghigliottina della Storia, così ovviando a una dimenticanza della Rivoluzione francese.
Avvalendoci anche dei contributi di quell’unico comparto dell’intelligenza artificiale che le giustifica l’aggettivo, cioè la sua prodezza predittiva, vi introduciamo ai ribaltoni sociali al cui cospetto quello del 1789 farà figura di scaramuccia marginale.
(1 ‒ L’analisi completa è riservata)
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da La Jornada (Messico) 28 maggio 2025 |
La sinofobia della Trappola di Tucidide di Graham Allison… prescinde dall’intelligenza artificiale
di Alfredo Jalife-Rahme*
traduzione (dal francese) di Rachele Marmetti
È nell’ambito dell’università di Harvard, oggi afflitta da gravi problemi e roccaforte del partito Democratico, che l’ottantacinquenne geopolitico Graham Allison, ex direttore della Harvard Kennedy School, ha ideato il banalissimo schema della sinofobaTrappola di Tucidide, un’inconsistente garanzia concettuale pergli Stati Uniti di fronte all’irresistibile ascesa della Cina.
Graham Allison è consulente del Pentagono dagli anni Sessanta ed è stato consigliere speciale del segretario alla Difesa Caspar Weinberger; ha inoltre diretto il think tank militarista Belfer Center. A causa del suo DNA accademico, il suo celebre libro Destined For War: Can America and China escapeThucydide’sTrap?, Mariner Books, 2017 (Destinati alla guerra, Possono l’America e la Cina sfuggire alla Trappola dei Tucidide?, Fazi editore) è uno strumento di propaganda militarista geopolitica più che una ricerca rigorosa, perché sottende l’inevitabilità di una guerra tra Stati Uniti e Cina.
La propaganda militarista travestita da ricerca accademica di Allison è evidente. In un articolo pubblicato nel 2012 sul Financial Times, poi sviluppato nel libro citato, c’era un’osservazione che oggi, a 13 anni di distanza, è più che mai attuale: determinante per l’ordine mondiale dei prossimi decenni sarà la risposta alla seguente domanda: la Cina e gli Stati Uniti riusciranno a sfuggire al fatale ingranaggio dellaTrappola di Tucidide? È il problema posto dal giornalista kazako ultrabellicista Gideon Rachman ad Allison.
La tesi di Allison presenta molte lacune, sia sul piano cronologico sia su quello della realtà attuale, caratterizzata dalla nuova leadership nelle tecnologie critiche. Estrapola infatti allegramentedal celebre racconto di Tucidide (V secolo a.C.), La guerra del Peloponneso,il conflitto tra una potenza marittima emergente (Atene) e una potenza terrestre dominante (Sparta).
Atene prese il controllo della Lega Delio-Attica: una vasta alleanza navale che dominava il Mar Mediterraneo e accerchiava Sparta [1]. Ma avvenne un fatto accuratamente nascosto dalla propaganda kazaka dominante in Occidente: nel 405 a.C. la flotta ateniese fu distrutta dalla flotta spartana di Lisandro, che aveva ricevuto aiuto dai persiani! Per questa ragione Hollywood non mostrerà mai la sconfitta di Atene da parte della coppia Sparta/Persia.
Allison estrapola la battaglia tra Atene e Sparta per fare emergere la fragilità della situazione e portare acqua al proprio mulino: in 12 casi analoghi su 16 la rivalità è sfociata in guerra, ragion per cui Cina e Stati Uniti oggi si trovano in rotta di collisione verso la guerra.
L’esempio matrice di Allison non è pertinente: Sparta sconfisse Atene, ma oggi, praticamente in ogni campo, con l’eccezione di quello militare – che potrebbe essere anch’esso molto discutibile per l’alleanza di Russia e Cina –, Pechino è la potenza emergente di fronte alla potenza dominante statunitense, oggi in pieno declino. È esattamente il contrario della teoria che promuove Allison! A meno che non sottenda in modo subliminale chela potenza emergente di oggi, la Cina, soccomberà alla potenza tuttora dominante, gli Stati Uniti.
Il riduzionismo militarista ideologizzato impedisce ad Allison di vedere la realtà circostante: non tiene conto dell’inesorabile ascesa dell’intelligenza artificiale e ragiona basandosi su una fragile trasposizione storica dal V secolo a.C. in un contesto del XXI secolo d.C., che segna l’inizio del regno dell’IA.
Questa banalizzazione della dicotomia tra potenze emergenti e potenze dominanti è confutabile perché in molti settori,e secondo i criteri con cui vengono analizzati, la Cina sembra già essere la potenza dominante. Fa eccezioneil settore militare, come detto, dove ancora predominano gli Stati Uniti; ma Pechino è già in vantaggio nell’IA – un dato boicottatodalle classifichestatunitensi, in particolare dal fallace indice commerciale di Stanford. È rivelatorio che un ex direttore della cybersicurezza del Pentagono abbia rassegnato le dimissioni a causa del ritardo militare di vent’anni nel settore che sta trasformando, o trasformerà, il volto umano del pianeta.
C’è di peggio. Il libro di Allison è molto in voga in Occidente: è un invito all’inevitabilità della guerra in un momento in cui le ricerche accademiche e i think tank dovrebbero formulare teorie innovative per preservare la vita di tutti gli esseri viventi nella biosfera e nella noosfera.
[1]
Lega Delio-Attica: alleanza di isole e città costiere di Grecia e Asia Minore strettasi attorno ad Atene nel 478 a.C. per continuare la lotta contro la Persia. Si trasformò gradualmente in un impero di Atene. Ebbe fine con la guerra del Peloponneso (431-404).
*
Professore di Scienze politiche e sociali all’Università nazionale autonoma del Messico (UNAM). Dottore honoris causa dell’università pontificia di San Francesco Xavier di Chuquisaca.
PUNITI I VECCHI CHE DISERTARONO, I MATURI CHE TRADIRONO E I GIOVANI CHE NON SI ARRUOLARONO MAI
Chi pagherà il conto della guerra e del fallimento dello Stato
inchiesta riservata
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da Le Monde 11 marzo 2022 |
E se l’eredità non fosse scontata?
inchiesta di Anne Chemin
traduzione di Rachele Marmetti
Dagli anni Settanta l’eredità è tornata a essere fattore determinante del patrimonio. Si discute della sua tassazione, ma il dibattito non è acceso quanto le discussioni del XIX secolo, quando molte correnti intellettuali contestavano il principio stesso della trasmissione ereditaria.
Nei libri di testo scolastici, ma anche nelle opere accademiche, la filippica è passata alla storia con il nome di Lezione di Vautrin. Nel Père Goriot [Papà Goriot] di Balzac (1835), Vautrin, affabulatore senza scrupoli, spiega all’ambizioso provinciale Rastignac come fare rapidamente fortuna. È inutile studiare, dice subito al giovane studente di giurisprudenza: dopo battaglie estenuanti e senza requie, i concorrenti finiscono sempre per «divorarsi reciprocamente come ragni in un vaso». Poiché l’onestà serve a niente, conclude Vautrin, è meglio «arrivare a ogni costo», «giocare alla grande» sposando una ricca ereditiera.
È una scena che fa sorridere i lettori del XXI secolo: l’universo cinico della società di rentiers ritratto da Balzac sembra molto distante dagli ideali egualitari e meritocratici della Francia contemporanea. «Chi consiglierebbe oggi a un giovane studente di legge di abbandonare gli studi per seguire la strategia di scalata sociale suggerita da Vautrin?» si chiede Thomas Piketty in Le Capital au XXI siècle (Seuil, 2013) [Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani 2018]. Nessuno, senza dubbio – cosa che non è necessariamente segno di lucidità. «Nella Francia di questi anni d’inizio secolo, l’eredità non è lontana dal riacquistare l’importanza che aveva all’epoca del Papà Goriot», continua l’economista.
I dati sono inconfutabili: in uno studio pubblicato a dicembre 2021, il Conseil d’analyse économique mostra che dagli anni Settanta la quota di ricchezza ereditata rispetto alla ricchezza totale è passata dal 35% al 60%. «Dopo un riflusso delle disuguaglianze e una forte mobilità economica e sociale nella seconda metà del XX secolo, l’eredità è tornata a essere un fattore determinante nella formazione del patrimonio, che sta alimentando una dinamica di rafforzamento delle diseguaglianze patrimoniali, basate sulla nascita», affermano Clément Dherbécourt, Gabrielle Fack, Camille Landais e Stefanie Stantcheva.
La Francia non è ancora tornata la società di ereditieri del XIX secolo o della Belle Époque, ma negli ultimi cinquant’anni la ricchezza dipende sempre più, non dal talento, dall’impegno o dal lavoro, ma dalla casualità della nascita. In una società che promuove l’uguaglianza delle opportunità, questo nuovo stato di cose dovrebbe alimentare aspre controversie intellettuali. Non è così. Sebbene talvolta si discuta della tassa di successione, l’«immaginario filosofico sull’eredità si è impoverito» osserva Mélanie Plouviez, docente all’Università della Costa Azzurra.
L’eredità è stata a lungo un problema filosofico
Questa apatia non è sempre stata la regola. «Dalla Rivoluzione francese fino agli inizi del XX secolo l’eredità è stata un problema filosofico pervasivo» continua Plouviez. «All’epoca era inconcepibile affrontare la questione sociale senza interrogarsi sulla legittimità della trasmissione ereditaria. Le posizioni erano molto differenziate, nonché molto radicali: i discepoli di Saint-Simon, Bakunin e Durkheim sostengono che l’eredità deve essere abolita; alcuni liberali radicali difendono un’assoluta libertà di testare; John Stuart Mill auspica invece la definizione di un tetto dell’eredità; secondo Eugenio Rignano si devono differenziare i lasciti di prima e seconda generazione.»
Per quale motivo questi dibattiti sulla fondatezza del principio della trasmissione ereditaria sono scomparsi? Perché nel XX secolo l’eredità ha smesso di alimentare vivaci dispute filosofiche? «Probabilmente perché le grandi questioni legate all’eredità sono state risolte durante la Rivoluzione francese e nel XIX secolo, risponde Patrick Savidan, docente di filosofia politica all’Università Paris-Panthéon-Assas. Questo periodo storico è stato il laboratorio delle nostre istituzioni democratiche: in tema di eredità e protezione sociale ha cercato di inventare istituzioni ispirate al paradigma egualitario della Rivoluzione francese.»
Durante gli sconvolgimenti del 1789 i rivoluzionari rimettono infatti in discussione i privilegi trasmessi di generazione in generazione. «Incarnano una modernità politica fondata sulla preminenza del merito rispetto alla nascita, continua il filosofo. Questa idea, nata nel Settecento, è al centro dell’alterco del 1726 tra Voltaire e il cavaliere di Rohan: al nobile che gli chiede se abbia un nome, Voltaire, che aveva costruito il proprio sul merito invece che sull’appartenenza a un lignaggio, risponde: “Il mio nome, io lo comincio, voi il vostro lo finite”. La stessa idea ispira nel 1778 Beaumarchais, quando fa dire a Figaro che il conte si è semplicemente limitato a “prendersi la briga di nascere”.»
Sebbene alla fine del XVIII secolo i rivoluzionari abbiano abolito molti privilegi legati alla nascita, primo fra tutti la trasmissione ereditaria del potere politico, non hanno abolito del tutto l’eredità. In materia di successione hanno infatti istaurato un regime di «libertà controllata», secondo le parole della sociologa Anne Gotman. L’eredità viene mantenuta e imposta, ma la ripartizione dei beni è sottoposta a una regola egualitaria «draconiana»: i figli minori ricevono quanto i maggiori, le sorelle quanto i fratelli.
Questi principi segnano una rottura con le pratiche dell’Ancien régime: «In nome della perpetuazione del lignaggio, della conservazione del patrimonio e della lotta contro la frammentazione fondiaria, il padre, in particolare nelle regioni di diritto romano della Francia meridionale, aveva il diritto di testare, cioè di privilegiare uno dei figli, il più delle volte il maggiore dei figli maschi» continua Gotman, autrice di Hériter (PUF, 1988). «Nel 1789 i rivoluzionari, la cui parola d’ordine è uguaglianza, pongono fine alla libertà di testare: ora il padre ha le mani legate.»
Nel 1791 questo attacco all’autorità paterna suscita un acceso dibattito all’Assemblea nazionale. Il padre deve restare «il primo magistrato della famiglia», sostiene il deputato Josep Prugnon. Se la legge «sottrae alla sottomissione figliale» uno dei suoi pilastri e nega al padre il diritto di «ricompensare la buona condotta» dei figli, sorgeranno gravi disordini, avverte il deputato Riffard de Saint-Martin. Non è forse, aggiunge, «una sorta di barbarie proibire ai padri liberalità che giustizia e umanità impongono, legare loro le mani così strettamente da non poter venire in soccorso» di alcuni dei loro figli?
Contestazione del diritto di primogenitura
Morto alla vigilia di questo dibattito, Mirabeau, in un discorso letto da Talleyrand, ribatte che l’uguaglianza, «uno dei principi della nostra eccellente Costituzione», deve vigere sia nella famiglia sia nella nazione. «Non ci sono più figli maggiori, non ci sono più privilegiati nella grande famiglia che è la nazione» proclama Mirabeau «non ce ne devono più essere nelle piccole famiglie che la compongono». Anche Robespierre combatte con convinzione il diritto di primogenitura: a suo parere, il principio di uguaglianza nella suddivisione della proprietà permetterà di mettere fine all’autoritarismo paterno, un legato che paragona al dominio dei padroni sugli schiavi.
Dopo due testi abortiti – il primo nel 1793 e il secondo nel 1794 – la legge 4 Germinal, anno VIII, pone fine nel 1800 alla libertà testamentaria del capofamiglia. Quattro anni dopo, il principio di uguaglianza tra fratelli e sorelle viene sancito dal Codice civile di Napoleone: tutti i figli «indipendentemente dal sesso e dalla primogenitura» sono eredi. «Questo testo assoggetta l’eredità a un diritto unico ed egualitario ispirato alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Fissa le linee generali della legislazione dei successivi due secoli» sottolinea la sociologa Gotman.
I regimi politici che si succedono tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX impongono una divisione egualitaria dell’eredità tra i figli, ma al tempo stesso rafforzano la legittimità dell’eredità. «Avallando il principio dell’eredità, sancendo il carattere assoluto della proprietà, la legge del 1800 e poi il Codice civile del 1804 confermano e addirittura consolidano l’istituto dell’eredità» continua Gotman. Tanto che, nella Francia del XIX secolo, l’eredità ha svolto un ruolo «strutturante», per usare il termine di Piketty, come dimostra la rilevanza delle dispute ereditarie negli scritti di Maupassant, Zola e, soprattutto, di Balzac.
Papà Goriot è senza dubbio, secondo Piketty, «l’espressione letteraria più compiuta» del ruolo centrale svolto dalla trasmissione ereditaria nel XIX secolo, ma anche altri romanzi della Commedia umana sono dedicati alla captazione dell’eredità. In Ursule Mirouet (1841), alcuni eredi rubano i titoli di rendita che un medico aveva destinato alla sua pupilla e ne Il cugino Pons (1847), avidi parenti cercano di appropriarsi della collezione di quadri di un vecchio musicista. Da attento osservatore del suo tempo, Balzac esplora minuziosamente le conseguenze della gerarchia patrimoniale su speranze e disgrazie dei contemporanei.
Onnipresente nella letteratura, nel XIX secolo l’eredità è anche al centro di accese controversie filosofiche. «Nel corso dell’intero secolo la questione della libertà testamentaria si ripresenta come un leit motiv tra i difensori dell’autorità paterna, che desiderano ammorbidire, se non abolire, l’obbligo di divisione imposto dal Codice civile del 1804» analizza Gotman. «Anche i fautori dell’uguaglianza si mobilitano, ma la loro riflessione si sposta rispetto al periodo rivoluzionario: non si interrogano più sull’uguaglianza tra i figli della stessa famiglia, ma sull’uguaglianza tra tutti i cittadini.»
Nonostante nel Codice napoleonico sia solennemente inscritto il principio dell’uguaglianza, i sostenitori dell’autorità paterna continuano a chiedere per tutto il XIX secolo il ripristino della libertà testamentaria. In un mondo dove il capitale economico transita essenzialmente all’interno delle famiglie, costoro antepongono a ogni altro principio quello di proprietà, che deve consentire al padre di godere pienamente dell’uso dei propri beni, anche dopo la propria morte, nonché della difesa della famiglia che, secondo loro, non può trovare migliore interprete della figura onnipotente del padre.
Il più attivo oppositore della «divisione forzata» tra i figli imposta dal Codice civile è senza dubbio Frédéric Le Play (1806-1882). Nel 1864, in La Réforme sociale en France, questo ingegnere, antropologo, economista e consigliere di Stato afferma che i disordini sociali di cui soffre la Francia sono frutto di quattro mali: l’ateismo, la teoria della bontà originaria di Rousseau, la perdita del rispetto per la donna e… la divisione egualitaria dell’eredità. Poiché la famiglia è il fulcro dell’ordine sociale, conclude, «il governo di quest’ultimo risiede nell’autorità paterna, la sua durata dipende dal modo di trasmissione dei beni».
Ispirati da questa tradizione familista, nel XIX secolo sono stati formulati diversi progetti per ripristinare la libertà testamentaria. Tuttavia, come ha osservato nel 1973 lo storico Philippe Ariès, essi si scontrano con un’«insormontabile ripugnanza dell’opinione pubblica». Se l’unicità della discendenza e il diritto di primogenitura sono ritenuti retaggio del passato, è perché rimandano alla famiglia aristocratica dell’Ancien régime, dove il padre è, secondo Tocqueville, l’«organo della tradizione, l’interprete dele consuetudini e l’arbitro dei costumi». La famiglia «democratica» del XIX secolo, fondata su legami affettivi, è estranea, ritiene Ariès, a questa «preoccupazione per l’onore della stirpe, l’integrità del patrimonio e la perpetuazione del nome».
Nel XIX secolo si registra quindi un progressivo consenso sulla divisione egualitaria del patrimonio tra i figli, ma anche il principio su cui si fonda l’eredità è oggetto di aspri dibattiti. Da Karl Marx a Mikhail Bakunin, dagli eredi di Saint-Simon a John Stuart Mill, i pensatori dell’epoca criticano questa istituzione che è riuscita a sopravvivere al 1789. «La Rivoluzione ha abolito la trasmissione ereditaria del potere politico, ma non quella del potere economico, sottolinea Mélanie Plouviez. I risvegli insurrezionali del 1830 e del 1848 possono del resto essere interpretati come reazioni al mantenimento delle disuguaglianze nella ripartizione della ricchezza.»
Per questi filosofi del XIX secolo, la trasformazione dell’eredità non è un dettaglio tecnico o una questione incidentale, bensì, continua Plouviez, una «potente leva di trasformazione sociale. Secondo questi pensatori, riformare o addirittura abolire l’istituto dell’eredità dovrebbe consentire di mettere in discussione non soltanto la ripartizione della ricchezza tra le famiglie, ma anche, più in profondità, le strutture della società. Il teorico sociale Eugenio Rignano vi vede anche un’opportunità d’inventare forme ibride di proprietà, né private né collettive; e il sociologo Emile Durkheim un modo per attribuire nuovi diritti economici e sociali all’insieme dei lavoratori».
«Patente dell’ozio»
In questo clima di effervescenza intellettuale, molti pensatori sostengono la necessità di abolire l’eredità. Gli eredi di Saint-Simon vogliono abolire del tutto questa «patente dell’ozio». Nel 1829-1830 Prosper Infantin e Saint-Amand Bazar scrivono: «Basterebbe stabilire per legge che l’uso di un’officina o di uno strumento industriale passi sempre, dopo la morte o il pensionamento di chi lo usava, nelle mani dell’uomo più capace di sostituirlo. Sarebbe per le società civilizzate altrettanto razionale quanto lo era la successione per diritto di nascita per le società barbare.»
Bakunin (1814-1876), che si oppone a Marx al Congresso della I Internazionale del 1869, condivide la stessa aspirazione abolizionista. Questa l’analisi dell’economista André Masson, pubblicata nel 2018 sulla rivista l’Observatoire français des conjonctures économiques (OFCE): «Per Bakunin il diritto all’eredità è la causa principale della disuguaglianza sociale, della perpetuazione delle disuguaglianze e delle differenze di classe. Bakunin raccomandava quindi l’abolizione dell’eredità “ad eccezione dei beni personali di scarso valore”. Per Marx invece il diritto all’eredità era un semplice effetto della proprietà privata, un sintomo della sua distribuzione ineguale, che sarebbe stato risolto dalla collettivizzazione dei mezzi di produzione.»
Alcuni decenni dopo, anche Emile Durkheim (1858-1917) teorizza l’abolizione dell’«arcaismo» della successione. «Oggi è inammissibile si possano lasciare in eredità per testamento titoli e dignità conquistate o le funzioni occupate durante la vita, scrive. Perché la proprietà dovrebbe essere invece trasmissibile?» Il fondatore della sociologia moderna propone che alla morte di un individuo i suoi beni siano trasmessi al «gruppo professionale» cui apparteneva – una corporazione che riunisce coloro che esercitano lo stesso mestiere, sia datori di lavoro sia dipendenti.
Più modestamente, John Stuart Mill (1806-1873) propone, in nome dei principi meritocratici, di limitare il valore dei beni che un cittadino può ricevere in eredità nel corso della sua vita. «Ognuno deve avere il diritto di disporre di tutte le sue proprietà, ma non di elargire e arricchire l’individuo oltre il massimo necessario per una comoda indipendenza» scrive nel 1848 in Principles of Political Economy. Secondo il filosofo inglese, questo tetto permetterebbe di combattere la povertà e di evitare la proliferazione di rendite, nonché la perpetuazione delle grandi ricchezze.
La svolta della tassazione progressiva
Queste febbrili controversie intellettuali cessano improvvisamente all’inizio del XX secolo. È stato grazie all’introduzione nel 1901 di un’imposta progressiva di successione in sostituzione di quella semplicemente proporzionale? L’economista Nicolas Frémeaux, autore di Nouveaux Héritiers (Seuil, 2018), risponde: «Questa nuova legge ha svolto effettivamente un ruolo importante. All’inizio del secolo i sostenitori di un’elevata tassa di successione, che avevano fatto sentire la loro voce nel XIX secolo senza successo, alla fine prevalgono. Questa riforma fiscale cambia la situazione: per tutto il XX secolo il dibattito sull’eredità passa in secondo o addirittura terzo piano.»
La questione sembra ancor meno rilevante se si considera che nel XX secolo, flagellato dalle guerre mondiali e dall’inflazione, l’ammontare e il flusso delle eredità si riducono notevolmente. «I grandi pensatori si disinteressano della questione dell’eredità, prosegue Frémeaux. Continuano ovviamente a discutere di questioni tecniche sull’imposta di successione, ma le grandi controversie di principio spariscono. John Meynard Keynes si dedica più alla crescita e all’occupazione, meno alle disuguaglianze e all’eredità. E fino alla fine degli anni Ottanta il rapporto tra pubblicazioni accademiche sulla disuguaglianza di reddito e sulle disuguaglianze di patrimonio è di 20 a uno!»
Nella seconda metà del XX secolo anche la sociologia trascura il dibattito sulla successione. Mélanie Plouviez osserva: «Seguendo le orme di Pierre Bourdieu, la sociologia si è concentrata sul ruolo dell’eredità culturale nei meccanismi di trasmissione dello status sociale. Pone l’accento sul ruolo della famiglia e della scuola nella perpetuazione delle disuguaglianze, ma distoglie lo sguardo dalle trasmissioni economiche». A tal punto, afferma la filosofa, che il XX secolo finisce per «essenzializzare», persino «naturalizzare» l’eredità, come se fosse un fatto immodificabile e ineluttabile di tutte le società umane, «un’evidenza che non si mette più in discussione».
Un dibattito che si rinnova
Solo all’inizio del XXI secolo le cose cominciano a cambiare. «La questione dell’eredità è entrata nel dibattito pubblico con la pubblicazione nel 2013 del libro di Piketty e con il lavoro accademico che ne è seguito» osserva Frémeaux. Dimostrando che il flusso delle successioni, dopo aver raggiunto un picco nel XIX secolo, è diminuito nel XX secolo, per poi risalire dagli anni Settanta, Piketty dimostra agli scettici che l’eredità sta tornando in auge, il che non è una buona notizia in una democrazia fondata su principi meritocratici.
Dopo un’eclissi di oltre un secolo, il dibattito sulla fondatezza del principio della trasmissione ereditaria sta gradualmente risorgendo dalle sue ceneri. Il fervore e il radicalismo delle polemiche ottocentesche non sono più consuetudine – nessuno propone più l’abolizione totale di questo privilegio di nascita – ma l’eredità è di nuovo messa in discussione, soprattutto dagli economisti. Alcuni propongono di istituire un’«eredità per tutti» – una dote di alcune decine di migliaia di euro per tutti i giovani adulti –, mentre altri propongono un forte aumento della tassazione, altri ancora di fissare un tetto al numero di eredità che si possono ricevere nel corso della vita.
Sebbene il dibattito contemporaneo sull’eredità sia quasi sempre di natura tecnica, esso si basa anche, come nel XIX secolo, su convinzioni filosofiche. «I sostenitori dell’eredità attingono a una serie di fonti morali per sostenere la loro posizione, sottolinea il filosofo Patrick Savidan. Secondo costoro, l’eredità è un atto virtuoso perché costruisce una continuità tra generazioni e mira a garantire il futuro dei propri cari. E nella tassazione vedono un pregiudizio alla libertà di scelta del donatore: rendendo l’eredità più costosa del consumo, si contravviene, secondo i liberali più radicali come Milton Friedman, a un ideale morale».
Anche i loro avversari collocano il proprio pensiero in una prospettiva filosofica. «Poiché, in una società fondata dalla fine del XVIII secolo sul merito, il reddito da eredità è meno legittimo del reddito da lavoro, dovrebbe essere tassato più pesantemente, continua Savidan. L’eredità per tutti nasce anche da una convinzione morale: socializzando i diritti di successione, il meccanismo indicizzerebbe l’eredità non sulla base della solidarietà famigliare (i miei figli), ma sulla base di una solidarietà impersonale e universale (i miei concittadini).»
Per Mélanie Pluviez, tuttavia, il dibattito contemporaneo è carente di creatività. «La nostra epoca è segnata da un confinamento dell’eredità nella sfera economica e dall’abbandono della riflessione nella sfera intellettuale» afferma. Con l’eccezione di alcuni libertari di destra o di sinistra, questa istituzione è oggi rarissimamente messa in discussione in filosofia, anche nell’ambito delle riflessioni teoriche sulla giustizia, quella parte della filosofia sociale e politica che, sulla scia di John Rawls, si occupa della linea di demarcazione tra disuguaglianze sociali giuste e ingiuste.» Per contribuire a colmare questa lacuna, Plouviez ha lanciato un progetto di ricerca interdisciplinare per esplorare gli scritti del XIX secolo, nella speranza, dice di «fecondare il nostro immaginario».
RITRATTI
Confetta
di Scot
C’era una volta, migliaia e migliaia di giorni fa a Pagnocco, una bambina che all’inizio di questa storia aveva 11 anni. Battezzata Concetta Valeria, presto soprannominata Confetta, tanto si convenne congruo associarla alla bellezza concentrata, che rende un piccolo diamante infinitamente più prezioso di un blocco di marmo.
Confetta era minuta di fattezze che annunciavano provocanti il corpo maturo in cui sarebbero evolute. Dal suo faccino era arduo staccare gli occhi, mai paghi di scoprirne il fascino e di appagarsene. Molte donne, già invidiandone la proiezione comparativa con le figlie proprie, la disdegnavano e molti più uomini simulavano di non guardarla. Così ogni pagnocchese che dirottasse lo sguardo dalla bimba finiva col ritrovarselo incagliato su altri dissimulatori come lui. E tutti, donne e uomini, condividevano l’ansia di mostrarsi indifferenti verso «una streghetta – come vaticinò l’abate Pistillo – destinata a rovinare molte famiglie». O, com’ebbe a dire un sabato mattina il barbiere Fasito, librando nota azzeccata sul suo quotidiano pentagramma greve di stonature – donde lo scotom Fa-sito, stai zitto, appunto:
– Vedrete che quella lì, appena salta fuori, ne farà correre molti!
In gergo di barberia saltar fuori vuol dire raggiungere lo sviluppo sessuale pieno, o anche ben promettente, in un borgo dove sfoghi di beva rivelavano turpitudini pedofile non sempre contenute allo stadio di mero desiderio.
L’abate aveva lunga vista d’inquisitore. Godeva nomea di scovare i peccati prima che venissero commessi. Purché pertinenti il sesso. Dietro gli 83 bottoni comandati a serrare la sua tonaca svolazzante, era cieco alle nefandezze dei padroncini che negavano giusto salario alle camiciaie nei laboratori o dei proprietari terrieri che vessavano fittavoli e mezzadri o dei bottegai che rubavano sulla spesa dei poveri o degli usurai che riducevano sotto il lastrico quanti già ci penavano sopra. Tutti questi crimini sociali l’abate Pistillo non poteva coglierli perché tali non li considerava. L’intero suo fiuto era impegnato ad aspirare il lezzo di amplessi illeciti. Cioè di ogni manifestazione fisica di affetto, o di piacere, che non fosse inevitabile a coniugi procreanti, e soltanto quando figliavano o quantomeno in confessionale si proclamavano stantuffanti a fin di prole.
Eppure, abate e barbiere fallavano entrambi su Confetta. Che in questo 1959, l’avessero saputa tutta, l’avrebbero a maggior ragione rubricata nel novero delle maledonne in servizio permanente effettivo.
Proprio ai primi di questo mese di giugno, dove l’eccezionale calura sembra affrancare i pagnocchesi da vincoli di decenza vestimentare e quando maschi sudati in canottiera siedono fuori dai bar a cadenzare il cucchiaio della granita al su e giù delle cosce sollevate dalle fanciulle nella pedalata – a sellino minimo, pretesto a massima elevazione del ginocchio e conseguente, estrema risalita della gonna – sotto la sferza di quest’afa, dico, il maestro cosiddetto Cirano (scotom da lunga proboscide, e chiudiamola qui) ha regalato a Confetta un’enorme scatola di latta, stipata da una sfilza di matite colorate che hanno placato la di lei mamma, che il giorno innanzi aveva imboscato Cirano a dito minaccioso:
– Si può sapere, caro il mio maestro, perché continua a prendere in braccio la mia bambina?
– Ma la faccio giocare! Le piace tanto! Si è lamentata di qualcosa?
– Be’, se mi torna ancora a casa con le sue ditate lerce sulle mutandine o da quelle parti lì mando mio marito.
E anche questa chiudiamola qui. Una mamma vede più dell’abate e del barbiere messi insieme e sa, soprattutto quando si ha corpo e propensioni da mamma di Confetta, che certe privatezze è saggio soffocarle subito, sennò montano a pettegolezzo che t’inchioda a croce di puttanella anche a undici’anni.
Così come la fine del temporale dilegua dissensi sulle previsioni di pioggia, alla fine della terza media Confetta diventa la splendida figliola ch’era attesa, conclude tutte le esperienze proprie dell’adolescenza, affina le astuzie che consentono di farsi apprezzare al meglio ben oltre i confini di Pagnocco. E si afferma come il massimo sogno erotico del circondario. Così irridendo i vaticini e i sospetti dell’inquisitore Pistillo, giacché persino a Pagnocco è normale che «la più strafighetta del paese» sia additata quale potenziale preda da tutti coloro che ambiscono catturarla. Per dirla con le parole di Fasito, se sapesse esprimersi come me, «se sembri una puttanella e tutti pensano che tu lo sia, è irrilevante che tu lo sia davvero».
Ma che ha di tanto speciale Confetta? I tratti salienti del suo fascino sugli uomini sono il viso angelico, assai espressivo e valorizzato da sorriso asimmetrico che le apre fossetta intrigante; poi dentatura impeccabilmente irregolare, impreziosita da discreto canino sovrannumerario; un nasino birichino come ci è stato tramandato quello di Cleopatra; l’anzidetto corpo perfetto, consolidato da magrezza che comincia a stagliarsi in una popolazione adiposata da pigrizie e bulimie che salsicciano l’addome galleggiandolo verso l’obesità; e una taglia complessiva più che minuta: quasi infantile, del genere che stimola quando non arrapa molti maschi. Insomma Confetta «fa tipo», nel senso allusivo delle valutazioni trancianti.
Un tipo tormentato dalle tentazioni. A tre anni dalle prime palpatine in classe, Confetta riceve gioielli, abiti, mangiadischi, macchine fotografiche. Inviti a trascorrere finesettimana nelle ville di amiche in città, che le malelingue di Pagnocco dichiarano pretesti peccaminosi «perché noi le amiche di cui ciancia non le abbiamo mai viste». E soldi, Confetta ne riceve? A sospetto del padre, la madre risponde: «Io non ne ho mai visti. E sì che borsette e altre sue cose le ispeziono; e le tasche dei suoi abiti, prima di lavarli, le svuoto io!». E il marito s’arrende alla saggia rassegnazione pagnocchese per cui l’invisibile è tale perché non c’è.
Congedando Confetta dalla terza media, la preside dice alla madre:
– Sua figlia affronta la vita con tutto ciò che la maggior parte delle donne desidera: bellezza, personalità intrigante che sprizza simpatia e furbizia. E una discreta abilità manuale. Purtroppo, non è molto intelligente.
La madre l’ascolta annoiata, giacché il quadro le è noto. Nello sguardo benevolo della preside ha l’impressione di cogliere l’eco dello sfogo che il marito ormai da anni e soltanto nei momenti d’ira estrema, le sputa addosso:
– Non so da quali nostri antenati possa aver preso. Ma è un fatto che ci ritroviamo una figlia con poca testa e tanta voglia di uccello. Chissà a chi somiglia!
Consapevole di non poter proseguire gli studi, Confetta cerca lavoro nelle fabbrichette della zona. Non deve bussare a molte porte. Va subito a quella giusta e viene ammessa a cospetto del dottor Alduccio, figlio trentenne del titolare. Se l’è già mangiata con gli occhi una settimana fa alla piscina del capoluogo, abbagliato da corpo tanto anomalo malcoperto da «bikini di bambina», come ronzò una chiosa femminile nel silenzio dell’ammirazione maschile. Alduccio esalò a Confetta, a ridosso di presentazioni affrettate e accogliendo una richiesta che lei non aveva avuto il tempo di avanzare:
– Passi a trovarmi, signorina, vedrà che un bel posticino per lei lo troviamo.
Ed ecco i disegni di Confetta sparpagliati sulla scrivania di Alduccio. Li scorre in un’unica occhiata:
– Bene, bene – sentenzia, a non capire se per apprezzamento dei disegni o della vestaglietta lieve giallo-blu di Confetta – Vedo che si diletta a disegnare abiti! Bene, bene – reitera dondolando d’assenso ispettivo – abbiamo trovato la nostra stilista!
Le Confezioni Smeralda sono in piena espansione. Abbisognano di sempre nuovi modelli. Confetta deve fermarsi spesso dopo la chiusura dello stabilimento. La creatività è refolo che soffia quando vuole, non sprizza a comando, e sempre richiede, per enfiare forme ardite, contesto tranquillo, preferibilmente solitario, a eccezione di Alduccio, ovvio, che esige condivisione della genesi e dell’appieno artistico.
Come stilista, Confetta non è molto appagata: è raro che i modelli da lei disegnati evolvano in abiti. Ma
è ben retribuita. E Alduccio sa come gratificarla:
– Col tempo raggiungerai la piena espressività artistica. Ma devi uscir di casa, poter prendere la rincorsa creativa in un appartamentino tranquillo.
E glielo reperisce grazioso, affitto a carico dell’azienda ovvio. Da qui Confetta riverbera il proprio benessere su genitori e sorella. Il suo successo professionale alimenta invidie, che lo motivano e riducono alla sua bellezza. «Se una è bella e furba non ha bisogno di essere anche brava!» Allusione condivisa e pesante, ma che non va oltre, le malelingue non sono meno furbe di Confetta e badano a non metter piede e becco nelle tagliole di Alduccio e della sua famiglia. Se sparli di Confetta non trovi più legna nei boschi della Smeralda né in quelli viciniori.
Ma non siamo più nel Medioevo. La timoneria di Pagnocco si va affollando e la famiglia di Alduccio deve condividerla con altri capitani, compreso l’abate. Che un occhio sull’esibizione del successo – chiamiamolo così – di Confetta lo chiude ma l’altro no. Urge contenere uno scandalo morboso che minaccia di contagiarsi alla reputazione stessa dell’abate.
Ci pensa la sorte, nei panni della consorte di Alduccio nel discreto ruolo di pronuba. Confetta si sposa. Con Giuseppe, bravo ragazzo del paese, buondiavolo che soltanto la cattiveria di Fasito soprannomina Mòcol, cioè moccolo, insinuativo di superfluità coniugale. Se Confetta è sua moglie legittima, se è nello stesso letto che dormono, quando ci dormono come stiamo per vedere, perché Fasito attribuisce a Mòcol ruolo di comparsa? E in tal caso chi sarebbe l’attore?
Non c’è. Ma vai a farlo capire ai pagnocchesi, sempre a far legna per il rogo. S’appigliano, per esempio, alla casuale assunzione di Giuseppe alla Smeralda, dove è subito promosso rappresentante per il Suditalia. Stipendio pingue, allineato a quello della moglie. Ma sudato: di giorno sempre in giro per grossisti, negozi, boutique, magazzini del Meridione, con la bella BMW della ditta zeppa di campioni di abiti. E di notte sempre a dormire in alberghi, di lusso e d’alta cucina d’accordo, ma sempre a centinaia e centinaia di chilometri da dove dorme la moglie, sola nell’appartamento aziendale di Pagnocco. Lo stesso messole a disposizione quand’era signorina. È spazioso, lussuoso: perché mai Confetta avrebbe dovuto lasciarlo a motivo di coniugio così poco alterativo di consolidate abitudini?
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(1 - continua - Testo integrale nella raccola Prima di spegnere la luce, vol. II, 2025)
DIARIO DI BRODO
Evviva l’Opera Nazionale Protezione dei Non-scrittori
di Scot
Benché io non sia scrittore e dunque non abbia mai proposto manoscritti ad alcun editore e dunquebis non abbia mai pubblicato un libro e dunqueter non abbia titolo per essere incluso in un’ipotetica lista di Autori in Cerca di Editore, ho trovato nella cassetta della posta (quella di legno, tassellata di fronte all’ascensore) una lettera. Proprio per me: coi miei nome e cognome, ancorché premessi da implicazione di laurea che non ho. Ve la propongo traslata nella sua essenzialità, purtroppo non patrimonio del mittente:
«Egregio dottore,
sono titolare di casa editrice di matrice inedita e talmente originale da innovare radicalmente il settore e da calamitare energie e investimenti da start-up. Ecco come funziona.
«Poniamo che Lei, che so dedito da sempre a scrittura creativa e che, dagl’incipit che a suo tempo espose nel suo sito, suppongo abbia nel cassetto un bel po’ di manoscritti, accetti l’invito a editarne almeno uno presso la mia Casa. Gli oneri di stampa, di inserimento nel catalogo e di esposizione nella mia vetrina sono a mio carico. Non prendo in considerazione le spese di revisione del testo né la correzione delle bozze né l’impaginazione perché mi è noto come Lei abitualmente sbrighi da sé queste fasi del ciclo produttivo e consegni al Suo cassetto manoscritti impeccabili, in pennette che basterebbe inserire in una macchina di print-on-demand per cavarne prodotti finiti per la libreria. A Suo carico resta quest’unico esborso: per ogni manoscritto che le stampiamo deve acquistare due copie di ogni volume che i nostri autori hanno stampato, presso di noi, prima di Lei. Esempio: se lei edita oggi un suo manoscritto, deve comprare 40 volumi, perché 20 sono gli autori che annoveriamo a tutt’oggi. Considerando un prezzo medio di 15 euro, diventare il nostro 21° autore Le costerebbe 600 euro. Cifra risibile, a cospetto di quelle usualmente pretese dai cosiddetti APS, autori a proprie spese. Senza contare che Lei si aggiudicherebbe la platea di potenziali lettori costituita da tutti gli autori che editassero dopo di Lei.
«Ovviamente questa rendita di lettorato non durerà a lungo. Innanzitutto perché, dilatandosi il numero degli autori, l’onere per gli ultimi arrivati diverrebbe eccessivo, per cui dovremo via via sminuirlo a frazione di catalogo, per esempio contenendo l’obbligo d’acquisto a una copia per titolo, poi a una ogni due e così via. E, da un certo punto in poi, la nomea della Casa basterà da sola a propellere i nostri autori.
«Ho accennato alla print-on-demand perché è questo il nostro sistema produttivo, che consente di calibrare la tiratura di un libro ai suoi ordinativi. Questo annulla gli sprechi produttivi diretti, cioè la stampa di volumi che non vengono venduti, e quelli di magazzino.
«Precisiamo che la nostra start-up si alimenta di azionariato diffuso. Un investimento particolarmente interessante per gli autori, che si ritroverebbero dunque anche nei panni di editori diretti delle proprie opere...»
A questo punto l’ho gettata nel cestino, negandone il prosieguo pure a voi. E sarebbe stata tritata dalla mia consumata ars oblivionalis se l’episodio che sto per raccontarvi non l’avesse recuperata.
È successo stamane, nell’interrato di un grattacielo lombardo. Vi sono stato convocato con l’imperio di una grida ducesca degli anni Trenta, che istituì l’Ordine dei Giornalisti. Esservi iscritto e subirvi l’occhiuta vigilanza dell’Ovra, divenne condizione di sopravvivenza per tutti i professionisti, come la Tessera del Pane lo sarebbe diventata per i mangiatori in tempi di razionamento. Per ragioni che ignoro, ma che ritengo estranee alla costituzione repubblicana, quest’obbligo di adesione all’Ordine è sopravvissuto ai fasci e ancora non marcesce nell’anno di disgrazia 2025, rafforzato da un secondo: quello di frequentare «corsi di aggiornamento» (sic!) organizzati dall’Ordine. Come il corso cui mi tocca presenziare stamane, talmente idiota e insulso che nessuno dei partecipanti ci fa caso. Preferiamo leggere i giornali sui nostri mec o ciaccolare tra noi. Apprendo così, da un collega amico che esibisce all’ingiro la copertina di un libro con sopra il suo nome e cognome, che l’ha editato con l’editore che giorni fa gettai nel cestino. Che rara coincidenza, vero? No, per niente: durante l’ora e mezza del corso è stato tutt’un sollevarsi e volteggiare di tomi partoriti dal medesimo torchio-on-demand.
Mi gela l’incubo: che questa folla di neo-autori si levi all’unisono, la sinistra garrendo al vento il trofeo torchiale, il dito destro puntato su di me, e cadenzi in coro: «Si cacci dal Sacro Ordine l’analfabeta che non ha mai scritto un libro».
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Teatro all’aperto
Il 17 maggio le dirette su cellulari e tivù hanno effuso, con l’autenticità del video canta (aggiornamento tecnologico del già probante carta canta), due spettacoli. Il primo a Gallarate. Qui uno stuolo di 007 ha simulato di proteggere un raduno di fratelli di lega e di sangue che i guerriglieri rossi e rosé mai si sarebbero sognati di minacciare se gli organizzatori non ve li avessero intrigati in una sorta di caccia al tesoro intitolata Scopri in anticipo dove s’infratteranno i congiurati. E, sempre i callidi organizzatori di nascondini, non avessero connotato il raduno di attentato contro la repubblica, questa povera bestia che si someggia di tutto tranne che del dissenso sul salvataggio coatto d’immigrati.
Il secondo spettacolo è andato in onda su un palcoscenico del centro. In uno slargo ben delimitato da caschi blu e manganelli di Stato, coreutici come nugoli di comparse all’Arena. E oltre i caschi altre comparse, in costume da sbrindellati guerriglieri.
E gli attori? Ma siete voi, protesici di cellulari o teledipendenti in salotto o turisti o perdigiorno passeggiatori di una città dalla quale auspicate sempre opportunità di spendita e di sollazzo; e anche voi, artisti di strada o bellezze arrapanti. I finti scontri di piazza vi solluccherano. Così brividosi, con i loro sommovimenti di aiuole camaleontiche, i guerriglieri che corrono di qua, folti di chiome fumogene variopinte, mascherati per negarsi, gl’illusi!, all’identificazione dell’occhiuta gendarmeria borbonica, inneggianti slogan pregni di Storia, pugno verticale come quello del vigile in attesa di distenderlo a segnalare Avanti tocca a voi.
E le cautelose collusioni, che goduria! Così marzialmente stamburanti! Il guerrigliero dà una bastonata allo scudo di plastica o sul casco blu, un manganello d’ordinanza reagisce con una botta sul medesimo proprio scudo – anche i decibel sono pirotecnici – oppure sul casco dirimpettaio, cromatico al caos della guerriglia. Bum-tac-bum! Petardate gioiose e rullii di bastoni e manganelli, se cadessero su tamburi invece che sulla plastica di scudi e caschi sarebbero prodezza da percussionisti alla Scala. E tra il pesticcìo delle corsette sul palco e gli eccessi della pugna da strada sempre affiorano le solite esortazioni dei capo-comparse blu, ritenute, per qualità di bardatura e per addestramento militare, le più foriere di perigli spettacolari:
– Piano, piano! Attenti a non fargli male!
Ché siamo in scena, siamo tutti marionette della medesima sceneggiata. Ben allestita da eccellente scampolo di guerra civile d’accordo, ma cristo santo, stiamo recitando!
La platea, ch’è mobile come in ogni teatro deambulante, pur di poche decine di metri, il gioco è bello fin che è corto e non dilaga dove si fanno altri giochi, come le gare di podismo differenziato a bordo vetrina, lungo le piste della spendita, la platea di spettatori dicevo è una selva di cellulari con gli obiettivi a grappolo, «Ecco, guarda, guarda mamma, come se le danno!», oppure retroversi nel selfie, «Mami! Alle mie spalle vedi il cuore degli scontri, sono a pochi metri dai rivoltosi più violenti, rischio davvero una loro mazzata o una manganellata della polizia!».
Coadiutori e catalizzatori essenziali dello spettacolo sono gli ascari dei media. Si sfilacciano ai bordi del palcoscenico, quasi tutti e quasi sempre alle spalle dei poliziotti, e questa è la ragione per cui, alla tivù come ovunque in internet, di questo genere di rappresentazioni simulatrici di violenza il popolo vede quasi esclusivamente il posteriore del casco o il culo delle comparse in divisa di Stato.
Nella foga di una recita che si vuole verace accade che l’asta di una bandiera, magari solida come palo di cuccagna, sbagli la mira dello scudo e impatti il braccio che lo regge.
– Scusi, non volevo!
– Non preoccuparti, ho il copri-avambraccio rigido.
Viceversa, nella scena del truppone regolare che insegue, manganello sguainato e scudo in avanti, i guerriglieri in fuga tattica, può accadere che un giovinotto aperitivato troppo e con troppo anticipo inciampi o resti indietro e venga travolto, si fa per esagerare, da uno scudo o dall’intero poliziotto lento a frenare.
– Ahi! Cazzo!
– E bada dove metti i piedi, no!? Ti sei fatto male?
– No, cazzo però vada cauto anche lei!
Ore 20. Palazzo anonimo ma statalissimo del centro cittadino, nel salone al primo piano, affacciato sul cortile interno ristà, occhi riflessivi a mezz’asta e vaghi sulla flora sottostante, un doppiopetto. Alle sue spalle, in postura rigida, da at-ten-ti negato del ri-po-so, un subordinato conclude la relazione della giornata, alimentata da appunti in foglio:
– ...in conclusione, eccellenza, può dirsi che la rappresentazione si è svolta come da copione e che le aspettative popolari sono state soddisfatte, come i media hanno unanimemente...
– I miei coglioni!
È come se gli attributi del luogotenente avessero fatto un botto da mina antiuomo.
– Prego, eccellenza?!
– Erano quattro gatti, erano! Se ordino la provocazione di torbidi, me li aspetto come ragion di Stato esige! Decenti, credibili, se non proprio vasti e inquietanti! E invece le vostre telecamere mi hanno mostrato una provocazioncella della mutua, una miseria partecipativa che non ha agitato alcuno! Perché non avete dispiegato la nostra brigata?
– Proprio perché i manifestanti autentici erano pochi ci è sembrato rischioso infoltirli dei nostri... Il nostro innesto si sarebbe notato... Del resto, eccellenza, tale ipotetico dispiegamento era stato esplicitamente escluso dal comandante militare...
La fioritura del parco, che pare messa a fuoco soltanto ora, induce al buono gli occhi del luogotenente, che si dischiudono mentre si volge verso il subordinato, con pacatezza concessiva verso se stesso:
– Beh! Se non altro si sono divertiti tutti almeno.
– Indubbiamente sì, eccellenza... Del resto, se mi consente, non ci aspettavamo nulla di inquietante dalla messin... dalla manifestazione odierna.
Il subordinato dilata il sorriso quando il luogotenente esibisce il proprio e inclina il capo in un quesito:
– Mi aggiorni: a quanto ammonta l’organico dei nostri teatranti?
– Oltre tremila, eccellenza. Bastevoli a condizionare qualsiasi piazza!
Il luogotente raggela con improvvisa smorfia:
– Ma tra poco saremo i soli, in piazza. Urge infoltire la nostra brigata. Riunisca il comitato riservato per dopodomani.
Congeda l’impalato con l’arrovescio della mano e riprende la contemplazione del giardino, che l’inquietudine ha appassito.
(gcs) |
CRONACA DI ORDINARIO DEGRADO FAMIGLIARE
L’eredità di Vittorino
di Scot
La parabola odierna muove da Vittorino. In rotta verso gli ottanta, con davvero gran parte del corpo scalcagnata dentro e fuori, potrebbe rassegnarsi a tramonto tuttosommato accettabile, dorato com’è da pensione d’alto dirigente ministeriale. In oltre mezzo secolo ha accumulato, tra mercedi dirette della Repubblica e arrembaggi di percorso, cospicuo denaro, ripartito in tre mucchietti di valsente quasi identico: qui un prudente fondo d’investimento mobiliare, là un deposito aureo in Svizzera, lallà una flottarella di container nelle briglie di solidi gestori londinesi.
Perché tutti i liquidi all’estero? «Perché i nostri governi tra poco saranno alle corde della svalutazione e i nostri quattrini saranno piscio nel campo».
Nelle imprecazioni come negli sfoghi Vittorino tradisce genesi familiare nell’alta Valgorla, grassa di pascoli e vacche, insieme a concretezza da economia primaria. È da lassù che discese le palanche per mettersi a catasto tre appartementi: a Nizza, in Val d’Aosta e a Milano. Ed ecco la ragione della trinità ricorrente: Vittorino ha tre figlie, tutte sposate o conviventi. E sono loro la causa del suo sopra implicato viver male. È assillato dallo squilibrio valoriale fra i tre immobili che prima o poi dovrà ereditare alla figliolanza. Quello di Milano, imbottitura di alto condominio, vale poco a cospetto delle altre due superbe dimore vacanziere.
– Perché non maggiori il lascito meneghino con liquidi sottratti ai mucchietti destinati alle altre due figlie?
Sbatte una mano al vento, si ringrugnisce e sbotta:
– Ormai su quel fronte lì le divisioni sono fatte. Non voglio dissipare altri soldi in avvocati.
Non confida però cosa sta combinando per non condannarsi alla maledizione dell’erede che si ritrovasse sminuita nelle proprie aspettative d’arricchimento. Ma la sua furbizia è palese e ulteriormente inducibile dall’osservazione della sua quotidianità.
Vittorino sta destinando la parte della pensione che non consuma a incrementare la quota di denaro destinato alla figlia immobiliarmente discriminata. Cioè sottrae al consumo la quasi totalità del reddito mensile. Detratte le spese condominiali, su cui non può incidere se non opponendosi in assemblea a ogni esborso, e detratta spesa miserrima per il cibo, il grosso della sua pensione finisce in banca.
Lui esce di casa il tempo e la spendita indispensabili a ficcare qualcosa nella dispensa quando è vuota. Non si concede il minimo superfluo. Mai una pizza con amici, mai neppure un bicchiere. In tre lustri che gli abito accanto non l’ho mai visto in un bar. Veste sempre i medesimi abiti, che raramente lava e mai stira. Risparmia anche sugli oneri igienici e il suo lezzo si annuncia a svariati metri. Dalla fessura sotto la sua porta di casa, sempre chiusa, mai varcata da estraneo e sbarrata anche al portiere che chiede il recapito di pacco o raccomandata urgenti, filtra uno sbuffo correntizio fetido, che la vetrata del pianerottolo, da altri condomini tenuta rigorosamente sempre spalancata, non riesce a smaltire del tutto. È diventato assai ipoacusico, Vittorino, e quando accende la tivù è sempre al massimo, e siccome la guarda anche nel cuore della notte, nega il sonno ai vicini. Che in un certo modo gli sono grati perché lui offre loro di corroborarsi moralmente. Loro ancora non sanno quanto vi ho appena raccontato. Ignorano quanto sia benestante. Lo pensano anzi talmente povero da non potersi permettere di soddisfare bisogni tanto primari come il cibo e la pulizia personale e della casa.
Un giorno la vicina del piano sotto di lui gli suona alla porta, rossa d’imbarazzo, di rabbia rattenuta a lungo, e immagonita, e gli sciorina tutto d’un fiato per tanto che si è tenuta dentro lo sfogo ed è agitata:
– Signore, la prego, è già venuto a parlarle anche mio marito e sono venuti a turno anche gli altri inquilini che abitano attorno a lei. Succede che di notte la sua tivù ci tiene svegli, i mie bambini vanno alle elementari assonnati, io in ufficio m’appisolo sulla scrivania...
La donna arretra e tiene il fiato, stordita dal lezzo cui peraltro s’era preparata. Comunque aspira con un smorfia la minima boccata indispensabile e riprende:
– Se lei non sa come comperare una cuffia per la tivù gliela procura mia marito, e poi viene a montargliela anche, se non è capace...
Vittorino avvia la chiusura dello spiraglio e con l’altra mano saluta e congeda la donna: – No, no, non mi serve, mi dà fastidio alle orecchie.
Delegato dagl’inquilini negati di sonno, il portiere intercetta un giorno una figlia di Vittorino, che urla dentro il citofono esterno, rallentando e scandendo e megafonando:
– Cazzo, papà, datti una calmata, tranquillo non ho alcuna intenzione di salire in quel cesso del tuo appartamento, ma ho bisogno di sapere se hai pagato le spese della casa al mare, perché l’ultima volta quelli dell’agenzia sono venuti a sollecitarci... Cazzo, abbiamo capito che risparmi per il nostro bene, ma sui conti non pagati fioriscono gli interessi di mora e così finisce che fai il nostro male, perché ci ritroveremo una casa gravata di debiti...
La signora che abbiamo conosciuto con il magone, seduta sul water, alza di colpo lo sguardo al soffitto quando si sente sgocciolare sulla schiena scoperta. Orrore: piove acqua, da una chiazza umida e pregna che sarà almeno un metro.
Si chiama il portiere, che subito allerta l’amministratore, che a sua volta attira l’idraulico d’emergenza, che chiude il rubinetto centrale e diagnostica: la perdita è nel muro, urge riparazione radicale e urgente.
Ai manutentori e agli inquilini calamitati dal passaparola «la casa del sordo sembra la Bosnia bombardata, è a rischio la salubrità dell’immobile».
Vittorino, gravato di sguardi di riprovazione, e non più soltanto di pietà, ora che la sua casa al mare è di dominio pubblico – chissà come esorterebbero all’estremo rispetto della salubre connivenza condominiale se sapessero davvero quant’è ricco! – Vittorino dicevo, non fa che balbettare giustificazioni che anzi indurrebbero ipotetici giudici ad aggravare la pena:
– Se stai a spendere per la casa per ogni inezia finisce che ti dissangua e io purtroppo devo risparmiare, devo preoccuparmi dell’eredità delle figlie! Assolutamente no, mai dico mai!, sono disposto a commettere un’ingiustizia nei loro confronti.
Noi condomini tra i meno indifferenti al bene comune, che poi si riduce all’incolumità dei nostri soffitti oltre che dei nostri timpani, ci riuniamo al bar d’angolo. Ponza, ripensa e ri-cauta, si telefona all’unica figlia di Vittorino della quale il custode – non il padre, che rifiuta – ci ha passato il recapito.
– Signora, induca suo padre a fare il suo dovere manutentivo sino in fondo e in fretta, nonché a rispettare il nostro diritto al sonno.
S’incavola a volume alto, come fossimo sordi pure noi:
– Fatemi la santa cortesia di non disturbarmi più! Io, di mio padre, non voglio più occuparmi perché è rincoglionito, non capisce una minchia! Idem le mie sorelle, vi garantisco! Che marcisca nel suo brodo, basta che alla fine lasci a ciascuna di noi la sua sacrosanta quota di eredità.
Clic, nient’altro.
– Facciamo intervenire l’ufficio igiene.
– L’Asl fatica a muovere il culo anche se hai in casa un moribondo.
– Quotiamoci un tot a testa e paghiamo un albanese perché lo tiri sotto con l’auto.
Neppure il vino è buono.
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Animali in stazione
Mettiamo che tu, sessantenne cuorcontenta asociale, stai per rientrare in Italia da Parigi, al termine d’una settimana di vacanza, insieme alla tua bambina trentenne e alla gatta. Alla Gare de Lyon, mentre salite sul diretto per Milano, la gatta evade dal trasportino e s’infila sotto i binari. La chiami, non ti risponde, neppure la vedi. Chissà dove s’è infilata. Tu e la tua bambina urlate come forsennate, invocando la mobilitazione generale: di ogni ferroviere nei paraggi, di ogni gendarme, di ogni utente asociale come te, nel senso che considera l’animale alla stregua di un proprio familiare.
Decine e decine di sub-umani identici a voi due si aggregano ai vostri miagolii di richiamo. Più d’uno estrae il telefonino, volume al massimo, e diffonde la colonna sonora del video di AnimalPedia, studiato apposta per attirare felini dispersi replicandone i versi. Macché, la gatta non si fa sentire né vedere. Voi due correte lungo il marciapiede sino a intercettare il capotreno. Che vi replica:
‒ Sbrigatevi a trovarlo, si parte tra dieci minuti.
‒ Partirà quando avrete ritrovato la mia gatta! Noi ‒ sguardo lacrimoso a coinvolgere la figlia ‒ non ci muoviamo senza Susanna! (nome della bestia, appunto, ndr)
‒ Signora, a bordo ci sono quasi 900 passeggeri che hanno diritto di partire in orario…
Si avvicina un uomo di palese autorità istituzionale, che sussurra al capotreno:
‒ La recente direttiva governativa ci fa obbligo di cercare l’animale, e se necessario di ritardare la partenza.
‒ E di quanto?
‒ Di 20 minuti, massimo. In ogni caso attenda il nostro via libera.
Di minuti ne trascorrono 32, prima che il semaforo verdeggi. Della gatta manco l’ombra. Le sue due parenti sono rimaste sul marciapiede e continueranno a richiamarla per chissà quanto.
Ma che cosa ha spinto il governo francese a emettere una grida che impone alla SNCF (le ferrovie statali) d’inceppare il flusso ferroviario allo scopo di ritrovare un animale domestico smarrito? Preciso: di ogni specie. Il TGV (convoglio ad alta velocità) è comandato a bloccarsi anche se un passeggero si è lasciato scappare il pappagallino o il criceto, che magari sono diventati pasto per un falco (ce ne sono al sommo di molte stazioni parigine), il cui diritto a sopravvivere e nutrirsi vale almeno quello dei quadrupedi di giocare per almeno 20 muniti a nascondino sotto le carrozze.
Il blocco ferroviario pro-bestie nasce dalla sopravvivenza dei politicanti: se non appagano i bisogni primari degli elettori ne perdono i voti. Gli animalisti radicali sono quota ineludibile del popolo. Se negligi i vecchi e i malati poveri negando assistenza e cure mediche, non paghi pedaggio nelle urne: i marginali non votano né protestano, ma se irriti i congiunti umani di una bestia domestica rischi la fine della tua carriera politica. Di qui l’abiura, da parte del governo francese, della scala valoriale che antepone i diritti degli esseri superiori a scapito degl’inferiori.
È l’ennesima apostasia etica, scatenata a gennaio di due anni fa. Alla Gare de l’Est, dove il diretto per Bordeaux, con a bordo 800 passeggeri, è a meno di cinque minuti dalla partenza. Una coppia di donne, del medesimo stampo asociale di quelle sopra, si lascia sfuggire il micio Neko. La scena iniziale anticipa quella di ieri alla Gare de Lyon: urla strazianti delle familiari del felino, la ricerca non dà esito. Cambia l'epilogo: il treno s’avvia puntuale, lasciando il felino maciullato sui binari. Scoppia uno scandalo nazionale che colpevolizza il governo ‒ sul serio! ‒ al punto che il ministro dell’Interno Gérald Darmanin si dichiara, alla stampa, «profondamente scioccato». Le parenti di Neko fanno comunque causa alla SNCF, ritenuta responsabile della morte del congiunto, riscuotendo dalla sentenza di primo grado un risarcimento di mille euro per danni morali; verdetto per fortuna del buonsenso annullato in appello da magistrati meno emozionoidi.
Per affrancarsi dal biasimo dei molti, troppi elettori patologicamente intrinseci delle bestie, non resta al suo governo che trovare lo stratagemma legale per contentarli.
Speriamo che l’obbligo, impartito a ferrovieri e contermini, di accucciarsi una ventina di minuti a recuperare le bestie sperdute induca gli umanisti a rimettere al loro posto animali e animaloidi.
(gcs) |
José “Pepe” Mujica
di Denis Merklen *
traduzione di Rachele Marmetti
Il 13 maggio l’ex presidente dell’Uruguay, José “Pepe” Mujica, 89 anni, è morto per un cancro all’esofago. Lo ha annunciato il presidente attuale, Yamandu Orsi. Ex guerrigliero, Mujica fu uno dei leader più ascoltati, più rispettati, nonché più popolari dell’America Latina. Le riforme che ha contribuito a realizzare negli anni della sua presidenza (2010-2015) hanno segnato l’ingresso dell’Uruguay nel XXI secolo.
José Mujica Cordano nasce il 20 maggio 1935 in una zona semi-rurale della parte occidentale di Montevideo. Figlio unico di una famiglia di contadini, a otto anni perde il padre. Trascorre buona parte dell’infanzia e della giovinezza dedicandosi al ciclismo e alla coltivazione di fiori nel piccolo appezzamento di terra che lavora insieme alla madre, fiori che vengono venduti nei mercati della capitale. Ma José prosegue gli studi fino al diploma, poi si iscrive a un corso preparatorio in diritto dell’Istituto Alfredo Vazquez Acevedo, liceo pubblico situato dietro l’Università della Repubblica, dove frequenta la giovane intellighenzia uruguaiana degli anni Cinquanta.
Il Paese ha già un sistema di istruzione pubblica esemplare, vi insegnano i migliori intellettuali del Paese, tra cui molti spagnoli fuggiti dalla Guerra civile. Il giovane Mujica milita nell’ala più progressista del Partito Nazionale (centro-destra), che lascia nel 1962 per fondare l’Unione Popolare, in alleanza con il Partito socialista. Un anno dopo partecipa alla fondazione di una delle guerriglie più famose dell’America Latina, il Movimento di liberazione Nazionale Tupamaros, di cui diventerà uno dei principali esponenti.
Con una popolazione di 2,7 milioni di abitanti, all’epoca l’Uruguay rappresenta nella regione un’eccezione, grazie alle riforme del presidente José Batlle (1903-1907 e 1911-1915). La pena di morte è abolita nel 1907, il divorzio legalizzato nel 1913, la Chiesa viene separata dallo Stato nel 1917, il diritto di voto alle donne riconosciutonel 1917. Grazie alla considerevole rilevanza della protezione della forza lavoro, rappresentata da oltre tre quarti della popolazione attiva, e a un tasso di urbanizzazione superiore all’80%, già dagli anni Trenta l’Uruguay ha un modello sociale che farà dire al sociologo Alain Touraine che questo Paese ha inventato la social-democrazia ben prima dell’Austria o della Germania.
Tuttavia, a partire dal 1950, l’Uruguay scivola verso una congiuntura sempre più difficile. L’economia ristagna, l’inflazione e la disoccupazione sono incontrollabili. I due partiti al governo (Nacional e Colorado) si dimostrano incapaci di imprimere una nuova direzione alla piccola repubblica. I giovani hanno la sensazione di vivere in un Paese senza futuro, piagato dalla corruzione, dove povertà e disuguaglianze sono ormai insopportabili.
Mujica e i suoi compagni giungono alla conclusione che la “Svizzera dell’America Latina” sta inevitabilmente dirigendosi verso una dittatura. Si organizzano per resistere all’autoritarismo e per eliminare le ingiustizie. Una recente ricerca negli archivi diplomatici rivela che questa diagnosi è condivisa dagli ambasciatori francesi che si succedono a Montevideo: diversi settori dell’esercito cospirano dal 1962, sostenuti dalle amministrazioni nordamericane. I giovani abbandonano le organizzazioni partitiche della sinistra socialista, comunista e cristiana e prendono le armi: assumeranno il nome di Tupamaros, in riferimento ai gauchos ribelli dichiarati fuorilegge dal governo coloniale spagnolo. Pongono come urgente necessità la «rivoluzione».
Fidel Castro e i suoi compagni cubani hanno dimostrato che la volontà politica può vincere dittatori, imperi e inerzia conservatrice. Altri esempi sono il Vietnam e l’Algeria. Ma questa gioventù istruita dell’Uruguay, che si sente capace di prendere in mano il proprio destino, non seguirà alcuna ricetta, né quella del foco (i nuclei di guerriglia rurale di Che Guevara), né quella maoista dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne: la loro lotta sarà urbana.
Il ritorno della socialdemocrazia
Grazie alla creatività, i Tupamaros diventano un esempio per decine di gruppi armati nelle capitali di tutto il mondo. Nel 1971, 111 guerriglieri, tra cui Mujica, evadono attraverso un tunnel dal carcere maschile di Punta Carretas, dove erano detenuti. Alcune settimane prima decine di donne Tupamaros erano fuggite dal carcere femminile di Cabildo. Nello stesso anno i Tupamaros smascherano l’agente della Cia Dan Mitrione, esperto in tecniche di tortura e contro-insurrezione, e lo giustiziano. A questo fatto storico si ispira il film di Costa Gavras État de siège [uscito in Italia con il titolo di L’Amerikano], con Yves Montand nel ruolo della spia. I Tupamaros rapiscono e in seguito liberano ministri, ambasciatori e diplomatici.
In un testo intitolato Apprendre d’eux [Imparare da loro], lo scrittore Régis Debray scrive nel 1971: «In questo momento (…) è in corso una lotta violenta che potrebbe agitare le avanguardie rivoluzionarie di tutto il mondo. La potenza esplosiva della lotta che i Tupamaros conducono contro l’oligarchia del proprio Paese supera di gran lunga, per la portata, i confini dell’Uruguay. Non per le azioni sensazionali – rapimenti, espropri, attacchi militari, evasioni di massa – che fanno (…) i titoloni dei giornali. Ma per una ragione meno spettacolare e al tempo stesso più decisiva: semplicemente perché hanno inaugurato con successo un nuovo modo di intraprendere la rivoluzione socialista».
Il timore di un contagio tra i giovani delle capitali occidentali è tale che venerdì 16 giugno 1972 il Consiglio della Nato si riunisce a Bruxelles per studiare il caso dei Tupamaros, avvalendosi di un’analisi commissionata a Geoffrey Jackson, ambasciatore del Regno Unito in Uruguay, detenuto per otto mesi nella Prigione del Popolo.
Alla fine del 1972 la guerriglia è definitivamente sconfitta dall’esercito. I suoi leader e molti suoi quadri sono messi in prigione, gli altri vanno in esilio. La dittatura militare, che prende il potere con il colpo di Stato del 1973, dichiara «ostaggi» nove leader dei Tupamaros, tra cui Mujica, e li tiene prigionieri in condizioni terribili di isolamento totale e di tortura per quasi 13 anni, in segrete spesso allestite in pozzi clandestini di caserme. Con il ritorno della democrazia, nel marzo 1985, i Tupamaros sono liberati, grazie a un’amnistia generale di tutti i prigionieri politici.
Quattro anni dopo, nel 1989, Mujica e i Tupamaros fondano il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), che entra nell’alleanza di sinistra Frente Amplio. A tutt’oggi l’MPP detiene il più nutrito gruppo di parlamentari del Paese e dalle sue fila proviene l’attuale presidente Yamandu Orsi, eletto il 24 novembre 2024. Mujica si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1995 e viene eletto deputato. Nel 2000 è senatore, nel 2005 ministro dell’Agricoltura, nel 2010 presidente della repubblica e nuovamente senatore nel 2015 e nel 2019. Durante i tre governi del Frente Ampio, tra il 2005 e il 2020, il piccolo Paese dell’America Latina recupera il proprio passato socialdemocratico, o battlista. Approfittando di una congiuntura favorevole all’esportazione di prodotti agricoli, l’Uruguay rianima l’economia e spezza la dipendenza energetica investendo massicciamente in fonti rinnovabili: oggi produce il 98% dell’elettricità senza emissioni di carbonio.
Il lavoro dipendente è tornato la norma, grazie a una riduzione del lavoro in nero e al ripristino dei “consigli paritari” abrogati dalla dittatura. La povertà è dimezzata e quella estrema è ridotta all’1% della popolazione; il sistema sanitario è riformato e garantisce un accesso equo all’assistenza sanitaria attraverso un mix pubblico-privato.
Sotto la presidenza di Mujica, l’Uruguay legalizza l’aborto (2012), il matrimonio omosessuale (2013) e regolamenta la produzione e il consumo della cannabis nel 2014. In questo stesso anno sono approvate una legge che modernizza la procedura penale e una legge per limitare gli effetti monopolistici nella stampa. Tuttavia, le conseguenze della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008 si fanno sentire. L’economia frena, l’inflazione riparte e i posti di lavoro diminuiscono. L’invecchiamento dei quadri politici di sinistra, tra cui Mujica, che al momento delle elezioni presidenziali del 2019 ha 84, anni fa il resto. Con un margine ristretto di 30 mila voti, la sinistra perde le elezioni. Il vecchio dirigente è criticato per le sue frasi mordaci, che sembrano lanciate senza riflettere e spesso feriscono parti dell’elettorato. I governi del Frente Amplio sono criticati soprattutto per le carenze in tema di sicurezza.
Resta comunque il fatto che, ancor prima di diventare presidente della repubblica, l’ex guerrigliero ha conquistato un’immensa autorità all’interno della sinistra latino-americana. Una reputazione che poggia sull’immagine dell’Uruguay come società democratica ed egalitaria, su quella del Frente Amplio, ammirato per la capacità di preservare dal 1971 l’unità della sinistra, e su quella dei Tupamaros, guerriglieri che non sono mai stati ossessionati dalla violenza e hanno saputo sottrarsi a radicalismi e settarismi.
La BBC e gran parte della stampa internazionale non mancheranno di lodare l’integrità morale con cui l’uomo descritto come «il presidente più povero del mondo» ha esercitato il potere. Un’etica che ha segnato un’intera vita costantemente vissuta con frugalità, viaggiando con la compagna, Lucia Topolansky, sul Maggiolino Volkswagen ungo le strade sterrate che portano al palazzo presidenziale dalla sua piccola fattoria, la chacra, dove, dopo una giornata di esercizio del potere, lo si può vedere curare le piantagioni di margherite e la sua cagna a tre zampe, Manuela, e intrattenere autorità, giornalisti e celebrità di tutto il mondo sulle sedie di plastica del giardino.
Regalava il 90% dello stipendio
Il 6 dicembre 2024 il presidente del Brasile, Lula, e della Colombia, Gustavo Pedro, si sono recati alla chacra per consegnare a Mujica, già molto malato, il Cruzeiro do Sud e la Cruz de Boyaca, le massime onorificenze dei rispettivi Paesi. Per l’intera durata del mandato presidenziale, Mujica ha donato il 90% della sua retribuzione ad associazioni.
Forte della propria immagine, Mujica ha tenuto due discorsi che hanno avuto risonanza planetaria. L’uomo che non ha un account Twitter, né Facebook, nemmeno uno smartphone, parla nel 2012 a Rio de Janeiro al vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, poi nel 2013 alla 68^ Assemblea delle Nazioni Unite a New York. Suscita in entrambe le occasioni un’immensa ondata virale sulle reti sociali.
Le sue numerose interviste e i suoi video hanno contabilizzato decine di milioni di visualizzazioni e a lui sono stati dedicati innumerevoli articoli, reportage e documentari, tra cui El Pepe. Una vita suprema (2018), di Emir Kusturica, e fiction come Compañeros (2019), di Alvaro Brechner. Su di lui sono stati scritte decine di libri; il primo risale al 1971: Les Tupamaros. Guérillaurbaine en Uruguay, di Alain Labrousse, Seuil [I Tupamaros. La guerriglia urbana in Uruguay, 1971, Feltrinelli].
Il vecchio militante attribuisce poca importanza allo stare al potere perché, per lui, «è solo una circostanza», vuole lasciare «una barra» (una banda) di giovani attivisti, capaci di portare avanti nuove energie di trasformazione sociale. Come un fedele discepolo di Hannah Arendt, Mujica associa la libertà alla politica e ripete ai giovani: «Non sei una formica o uno scarabeo: hai una coscienza. Invece di adagiarti su un destino preordinato, su una tradizione, o di condurre una vita priva di senso, puoi fare qualcosa insieme al mondo in cui vivi. Prendi in mano la vita e costruisci un progetto collettivo».
Poi, come seguisse i Manoscritti del 1844 del giovane Karl Marx, mette in guardia dai pericoli dell’alienazione sociale. «Non sprecare il tuo tempo a lavorare per guadagnare denaro, avrai solo sprecato la la tua vita, che vale la pena condurre soltanto se condivisa con altri… Devi vivere come pensi, o finirai per pensare come vivi!» E a chi lo definisce povero ribatte: «Non sono povero, non mi sottometto all’obbligo di sprecare il mio tempo per guadagnare denaro. Conservo la libertà di stare con gli altri».
Nel 2020 Mujica lascia la carica di senatore e rinuncia a ogni responsabilità per fare posto ai giovani. Nel suo ultimo libro di interviste con gli scrittori Carlos Martell e Mario Mazzeo, Semillas al viento [Semi nel vento, non tradotto] dice: «A cosa serve un albero se non lascia filtrare la luce affinché nuovi semi possano crescere grazie al suo fogliame?».
Quest’uomo ordinario e i suoi compagni potrebbero forse averci mostrato come sventare i trabocchetti della storia.
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Denis Merklen
Sociologo, direttore dell’Istituto di Alti Studi per l’America Latina.
LA PARABOLA DI UN MONACO CORROTTO, DALL’HIMALAYA ALLA SVIZZERA
Sul Tetto del Mondo, dove i cinesi si sono liberati da santoni schiavisti e da secessionisti made in Usa
di Scot e Rac
Il 6 luglio prossimo il signor Tenzin Gyatso, cinese nato discosto dal Tibet ma che ha fatto fortuna spacciandosi come tibetano, compirà 90 anni. Chiaritevi bene questo dettaglio, sennò non potrete seguirmi fin dove vi sto portando: Tibet, regione della Cina. Come la Lombardia lo è dell’Italia. Con la grande differenza che la Lombardia è da sempre la più ricca del nostro Paese, mentre il Tibet è stata a lungo la più povera della Cina. Piagata da miseria endemica duplice. Per cominciare, l’incombenza delle cime più alte del mondo, con la loro penuria di risorse naturali: oltre una certa altitudine non si coltiva né si alleva alcunché. Poi una popolazione per secoli prona a una teocrazia che la voleva schiava, condannata ad affamarsi per il benessere dei monaci, talmente esigenti da sottrarre ai sudditi i figli minori. Letteralmente: i rampolli più promettenti, per robustezza e attitudine servile, venivano sequestrati dai monaci e cooptati nel monastero, vasto come cittadella e ricco come reggia di faraone.
Negli anni Cinquanta, quando Mao Zedong prese il potere in Cina e v’insediò il comunismo che tutt’oggi perdura, spazzò dalla regione tibetana sia il servaggio di matrice monastica sia i teocrati che ne godevano. E rimpiazzò il medioevo con la modernità, il sottosviluppo con il progresso. Presto si rese conto che anche in Tibet, come storicamente in gran parte del resto del pianeta, gli schiavi molto abbrutiti erano i primi a opporsi alla fine della schiavitù, che per loro era sinonimo di stabilità e di quella rassegnata tranquillità che dispensa dalla libertà, così gravida di riflessioni, di decisioni, di scelte. E di rischi e di errori, giacché sbagliare è proprio di chi fa. Per cui il governo cinese, oltre a mettere mano all’ammodernamento tecnologico e all’acculturamento della regione più arretrata del Paese, si risolse a popolarla d’immigrati evoluti, stimolati a traslocare in Tibet. Si rivelò un metodo efficace per evolvere un territorio altrimenti condannato a perseverarsi nell’età del nomadismo, della caccia e delle guerricciole perenni fra tribù, ad arco e freccia.
All’inizio di questo programma governativo mirante a redimere il Tibet medievale e sottosviluppato, il cinese della nostra storia – Tenzin Gyatso – abitava a Lhasa, aveva 23 anni, nutriva mire carrieristiche nella casta monastica e ambizioni di percorrerla in fretta. Come? Collaborando con un governo che, all’epoca, era infinitamente più ricco e potente e invadente, persino in Tibet, di quello cinese: il governo degli Stati Uniti. Che aveva dichiarato guerra alla rivoluzione anticapitalista di Mao, ben prima che questi vincesse e liberasse la Cina, nell’interezza del proprio territorio, dunque anche della regione tibetana.
Per farla corta, quando Tenzin Gyatso divenne capo dei monaci, bardandosi, non diversamente dal nostro monarca vaticano, coi panni cerimoniali del predestinato, e assumendo lo pseudonimo di Dalai Lama, gli Stati Uniti ne fecero il loro agente politico in Tibet. La sua missione: convertire i tibetani alla santa causa della secessione dalla Cina. Vi si dedicò con le infinite risorse fornitegli dagli Usa. Ordì contro il governo cinese centinaia di congiure e provocazioni. Non ne imbroccò mai una che una. Tante inconcludenza e pasticcioneria alimentarono il sospetto, che noi non condividiamo, di doppiogiochismo. E che evidentemente non ha intaccato il governo Usa, visto che continua a mantenere sontuosamente il proprio agente, sia direttamente, sia sostenento i di lui arricchimenti in proprio.
La secessione comandata a Gyatso fu un fiasco. Sin dall’inizio. Il governo regionale tibetano, repubblicano e ostile alla secessione da Pechino almeno quanto avverso alla teocrazia, quando seppe delle mire di Gyatso non lo arrestò, come pure la gravità dei reati avrebbe più che giustificato: arruolarsi nell’organizzazione clandestina di un Paese nemico teso a sbrindellare il proprio conduceva dritto alla pena di morte, ovunque sul globo. Ma si limitò ad ammonirlo. Più che sufficiente per un pavido. Che fuggì in India. Così, a 23 anni, Gyatso continuò a lavorare per i servizi segreti Usa al di qua del confine cinese. Sempre fallendo nella sua santa campagna di conversione dei tibetani alla rivolta.
A distanza di 67 anni Gyatso è sempre allo stesso punto, ch’è quello di partenza. Il Tibet continua a essere una regione della repubblica popolare cinese. I tibetani, ormai in gran parte costituiti da immigrati dalle altre regioni del Paese o dai loro discendenti, si godono i frutti della vertiginosa crescita economica e culturale della repubblica. Che tiene il Tibet in sommo conto. Ha costruito persino una ferrovia elettrificata che sfida il massiccio montagnoso più alto del mondo per trasportare cinesi e turisti da Pechino a Lhasa, il capoluogo regionale. E siccome lo sviluppo della Cina è anche militare, gli Stati Uniti hanno rinunciato da un pezzo alle loro mire di scatenarvi una secessione. Ma non di usare anche il sogno di un Tibet amerikano a scopi propagandistici.
L’affaristica mondiale è esito di competizione nella quale è prassi ricorrere alle rodomontate propagandistiche, che quantomeno alimentano il consenso interno. Ecco perché, in vista del 90° compleanno dell’agente Cia Tenzin Gyatso, si preparano a enfatizzarne «l’eroica resistenza alla colonizzazione del Tibet da parte del governo di Pechino». Per il quale Gyatso altro non è che «un esule politico impegnato in attività separatiste anti-cinesi ammantate di religiosità».
Anzi: era. Dal 2018 Gyatso ha definitivamente abbandonato il proprio quartier generale con vista sull’Himalaya, in territorio indiano, e si è trasferito in una delle sue sontuose residente, in Svizzera. Attualmente è in cura ospedaliera per un cancro alla prostata. Ma non per questo l’ologramma del Dalai Lama, proiettato dai suoi mandanti, ha inceppato la sua «attività separatista», che ogni organo di stampa atlantista diffonde in ogni angolo del mondo.
Per cui, cari lettori, preparatevi alla prossima, rinnovata ondata di beatificazione del Dalai Lama. La contrastiamo proponendovi il profilo a suo tempo redatto dal compianto filosofo e storico Domenico Losurdo. Conservatelo, e confrontatelo con i coccodrilli, cioè con gli encomi che ogni giornale atlantista si prepara a pubblicare, nel timore che il beato perda in anticipo sul 6 luglio la sua ultima battaglia, contro la prostata.
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CORRELATO, DA LA SMONDA, CONTROGIORNALE ETICO AZIENDALE DELL'ARNOLDO MONDADORI EDITORE
DIRETTO DA GIAN CARLO SCOTUZZI. 1° NOVEMBRE 2003
GUERRE MEDIATICHE
La Cina, il Tibet e il Dalai Lama
di Domenico Losurdo
Cinefili e vacuofili
Scopro che anche a Milano c’è un Circolo Nautico dei Caphornisti. Cioè di velisti che hanno doppiato Capo Horn, riuscendo dove nel 1788 fallì il comandante del Bounty. Massì che ve lo ricordate: l’avete visto in due film, uno con Marlon Brando e il successivo con Mel Gibson, Gli ammutinati del Bounty, appunto.
Consapevole che la follia sgrana rosario infinito, ho mestato nel medesimo sacco, cavando il Club di Coloro Che Hanno Stretto la Mano a Silvio Berlusconi. Che sembra una scemata non implicante privilegio alcuno, giacché abbordava manine e manone di chiunque reputasse suo elettore potenziale, e invece è adagio universale che italianizza e dilata quello lanciato da Elliott Gould in uno dei suoi tre Ocean, là ove si allude all’insieme di quanti hanno stretto la mano a Frank Sinatra.
Poi sono incappato nel Circolo degli Ascensionisti dell’Himalaya, scoprendo che, soltanto nel Milanese, i membri sono svariate centinaia. Tra di loro una 78enne, che conquistò la vetta l’anno scorso, e uno sciapode, che alla domanda su come sia riuscito a superare gli ottomila metri con una gamba sola, mi ha replicato: «Sono rimasto ben attaccato al seggiolino-zaino che una coppia di sherpa si someggiava a turno, cinquemila dollari tutto compreso».
Non sto a farvi l’elenco dei sodalizi bislacchi che ho scovato in 40 minuti di ricerca in internet e con due telefonate a pettegoli della Whiskeria Sorelle Della Giovanna e della Spritzeria Paradise, templi primari del chiacchiericcio meneghino. Ma vale la pena segnalarvi, viatico di speranza anche per smarriti poverelli, la confraternita delle Adottive Morali dei Falchi Giò e Giulia, che da due lustri hanno nido istituzionale, allestito e manutenuto dalla Regione, sul tetto del Pirellone. La loro quotidianità, inclusiva di cove ed emancipazione dei pulli, è trasmessa in diretta perenne da due webcam, per la delizia delle 24 mila Adottive che, ai ceppi di cellulari e pc, non perdono un frullo né uno schizzo.
Curiosità: il circolo più a buon mercato è quello delle falcofile, ad accesso libero e gratuito; il più caro quello degli stringitori di manosanta, che da quando è mano morta ha condannato il circolo a consunzione anagrafica.
(gcs) |
ALGORETICA E DINTORNI
Socialismo o barbarie, ultima chiamata
di Scot e Rac
Da sempre e ovunque l’intelligenza, la conoscenza e la ricchezza sono barriere che separano il popolo comune, fortemente maggioritario, dalla minoranza privilegiata. Che ovviamente detiene il potere. L’avvento della cosiddetta IA (intelligenza artificiale), insieme all’innesto nel corpo umano di dispositivi meccanici ed elettronici che strapotenziano muscoli e cervello hanno elevato talmente queste barriere che il popolo minuto non ne scorge neppure il sommo. Nel senso che, se un tempo la superiorità di una persona super-intelligente, super-colta e straricca era palese, oggi le super-persone non sempre si distinguono dalla massa inerte. Con la quale anzi tendono a confondersi, vuoi per convenienza a mimetizzarsi, vuoi perché – viceversa – un ignorantone ben vestito e ben pasciuto e spendaccione può essere scambiato, fin che non apre bocca, per un godereccio membro della casta superdotata.
Abbiamo aggettivato l’IA di cosiddetta perché d’intelligente ha poco o punto: non è che vivaio di logaritmi condannati a replicare, con le infinite varianti da caleidoscopio ciclopico, le istruzioni (algoritmi) che un umano vi semina. L’IA può semmai definirsi una di queste due cose o le due insieme: da un lato, un automatismo di calcolo-archivio-replica; dall’altro, un surrogato di quelle capacità logiche e creative standardizzate che difettano a molti cervelli umani. Esempio: un semianalfabeta aspirante giornalista riesce, inserendo nel computer tutt’i dati relativi a un incidente stradale (luogo, ora, veicoli coinvolti, feriti eccetera), a demandarne lo sviluppo cronachistico all’IA, programmata per incastrare tutti i dati in una narrazione rispettosa della grammatica, della sintassi e della successione temporale degli eventi (esempio: il tassello il conducente ha riportato gravi ferite va inserito prima del tassello il conducente è morto poco dopo all’ospedale). Ma l’IA non può redigere un articolo di qualità superiore, generato da riflessioni che la macchina non può produrre. L’IA non può competere con la prosa di un Dino Buzzati o di un Giorgio Bocca o di un Italo Calvino, né palesarsi visionaria come un George Orwell, sennò non di IA staremmo parlando, bensì di un robot-umano, cioè di un neo-umano meccanico o, se in carne e ossa, di un neo-umano generato da un robot capace di selezionare i migliori gameti, di abbinarli al meglio e di sviluppare embrioni e feti in uteri e placente artificiali, estraendone esseri umani talmente superdotati ed evolventi da escludere anche quella penosa caricatura dell’uguaglianza tra esseri umani che chiamiamo democrazia universale egalitaria.
Siamo ancora lontani da questo futuro possibile, dove un’umanità che persistesse a orientarsi con la bussola del profitto e del dominio della forza condurrebbe alla barbarie. Ma è questa la rotta lungo la qualela sedicente IA, pur nei suoi balbettii d’abbrivio, associata ad altre prodezze tecnologiche (come i chip di memoria incistati nel cervello o gli esoscheletri di stampo androide) ci stanno avviando.
Come imporre sviluppo etico a questo maremoto scientifico e tecnico? Come affermare la civiltà, ch’è saldezza di valori morali vivificata da visionarietà umanistica, sul tornaconto individuale, sull’egotismo familista, sulla novella legge della giungla regressista? In estrema sintesi: come sottrarre l’algoretica ai ladri di neologismi, che pretendono negarci persino razionalità lessicale e dunque sviluppo e condivisione di pensieri all’altezza dell’emergenza e dei tempi?
La risposta può essere la replica aggiornata di quella fornita da Cornelius Castoriadis (filosofo greco naturalizzato francese) mezzo secolo fa, quale ricetta per contrastare le derive del capitalismo tecnologico dell’epoca. Disse in sostanza: Visto che il Partito del Profitto Individuale, comunque camuffato, ha preso il potere in ogni latitudine e visto che pretende pilotare in esclusiva la scienza e deciderne le declinazioni pratiche (bombe atomiche invece di laser atomici che debellano il cancro, per esempio), premesso tutto questo dunque, a noi anticapitalisti non residua che una scelta obbligata: il socialismo. E Castoriadis fondò la rivista e il movimento Socialisme ou barbarie. Continuiamo ad alimentarlo.
Siamo alla vigilia di una Nuova Èra dove il pio mantra Tutti gli uomini sono uguali, palpitante sogno natalizio su ogni albero di natale costituzionale, sarà irriso anche fisicamente, platealmente, da uomini dal fisico e dalla mente potenziati, tendenzialmente sostituiti da IA che, fuor d’ossimoro, saranno terminali delle scelte, operative e programmatiche, decise nelle più alte e smilze torri elevate sopra la cittadella oggi riservata ai naturalmente superdotati, ancorché già corroborati da innesti e protesi avveniristici.
Delle due l’una: o noi umanisti ci appropriamo della gestione della comunità e imponiamo una riserva di Stato sullo sviluppo e sull’uso delle scoperte scientifiche, massime di quelle che già hanno iniziato a gerarchizzare irreversibilmente l’umanità, oppure ci rassegniamo a smorire al di qua d’ogni mura, dove i nuovi signori della Terra mirano a relegarci, Untermenschen e servi perenni, salva l’opzione di una più conveniente Soluzione Finale.
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A Brescia la cinquantesima replica del Vedovo Inconsolabile
La tragedia e la fortuna hanno bussato insieme alla sua porta il 28 maggio 1974, quando una bomba ha ucciso sua moglie e altre sette persone radunate da una manifestazione sindacale sotto la pioggia in Piazza Loggia a Brescia. Parliamo di Manlio Milani, all’epoca impiegato del municipio nonché sindacalista della Cgil e successivamente presidente a vitalizio dell’Associazione parenti delle vittime. Da quel giorno di 51 anni fa ha virtualmente cambiato mestiere per dedicarsi all’elaborazione del lutto e alla proclamata «ricerca dei colpevoli della strage».
E per 51 anni nessuno che abbia mai avuto l’ardire di richiamarlo a due decenze: primo, è l’unico, tra i 700 mila italiani orbati della moglie, ad aver pretestato la vedovanza per proclamarsi supercassintegrato a vita. Secondo rimarco: con un diploma di terza media preso alle serali non aveva titolo né scienza per affiancare lo stuolo d’investigatori assai più competenti e legittimati di lui, dalla polizia giudiziaria ai magistrati ai giornalisti d’inchiesta, che all’epoca c’erano. Macché, lui ha continuato a issarsi su qualche palco, a esibire se stesso e il suo personale «eterno dolore» dinanzi a scribacchini e auditori vocati alla replica perenne di un cordoglio mediatico sempre più estraneo alla maggioranza dei suoi concittadini. Che, alla luce dell’oggi, nel 1974 forse non erano neppure nati, visto che nel 2025 l’età media dei bresciani è 46 anni.
Eppoi sarebbe ora che il Primo Vedovo d’Italia recuperasse, a 87 anni suonati, un minimo di senso delle proporzioni e di rispetto per le maggiori stragi odierne: soltanto in Palestina e nell’ultimo anno e mezzo i sionisti hanno macellato oltre 50 mila residenti, di cui 18 mila bambini. Che sono, a cospetto, gli otto (8!) morti bresciani di 51 anni fa? Certo, Milani continua a spacciarsi come un eletto stimolatore di una giustizia che, oltre a non avere ancora finito di punire tutti gli esecutori della strage, non ne ha mai indagato i mandanti. Che sono risaputi a quanti hanno acclarato, nonostante e contro il regime, la genesi di questo e di altri più sanguinosi macelli perpetrati su ordine dalla NATO, ancorché a volte appaltati a fascistelli. Un regime, sia rimarcato per inciso, di cui Milani è peraltro intrinseco e beneficiario, con le sue incette di encomi e benemerenze culturali: siamo nel Paese dove una laurea onorifica si concede a chiunque sia abbastanza noto da rifletterla su chi gliela regala. Se n’è presa una persino un giovinotto soltanto perché correva forte in moto.
Il bilancio del processo della strage di Piazza Loggia è fallimentare. Persino Milani riconosce che «non si è adeguatamente indagato sui mandanti». Ma allora in cosa è consistito il suo millantato stimolo alla ricerca della verità? Come si può tollerare lo scandalo di processi penali che si trascinano oltre il mezzo secolo?
Tra 16 giorni i bresciani dovranno sorbirsi, sugli schermi e sugli stampati d’ogni risma servile, la cinquantesima replica della rituale sceneggiata, starring il Supervedovo e i politicanti col turibolo: Oh! che dolore, «Voi non potete immaginare lo strazio di perdere l’amata moglie» (registrata a Milano, durante uno show in Via Della Signora), Sia lode alla Verità di Stato, Sia lode alla Giustizia di Stato che prima o poi riuscirà a mettere dietro le sbarre non già i burattinai delle stragi, sia mai!, bensì altri
burattini. O le loro ceneri, visto il bradiposo incedere dei sedicenti cacciatori di stragisti.
(SeR) |
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da Le Monde 11-12 maggio 2025 |
SCHIAVITÙ ANTICA E MODERNA
«La Francia deve 30 miliardi di euro ad Haiti e dovrebbe cominciare a discutere delle modalità di restituzione»
di Thomas Piketty *
traduzione di Rachele Marmetti
Nel 1825 lo Stato francese impose ad Haiti un tributo per risarcire i proprietari di schiavi per la perdita delle loro proprietà. Questo debito, che il fragile Stato haitiano dovette faticosamente pagare fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, ha pesantemente ostacolato lo sviluppo del Paese, oggi uno dei più poveri del mondo.
Tutti i regimi francesi che si sono succeduti in questi duecento anni (monarchie, impero, repubbliche) hanno continuato a riscuotere queste somme, scrupolosamente versate alla Cassa Depositi. Sono fatti ben documentati e non contestati.
Sgombriamo il campo da malintesi: la Francia deve circa 30 miliardi di euro ad Haiti e dovrebbe immediatamente avviare una discussione sulle modalità di restituzione. L’argomentazione che la Francia non ha i mezzi finanziari per farlo non regge. L’importo è notevole, ma è inferiore all’1% del debito pubblico francese (3.300 miliardi di euro) e solo lo 0,2% del patrimonio privato (15.000 miliardi): rappresenta lo spessore di una linea.
Se si teme che il denaro possa venire utilizzato in modo improprio, si può ipotizzare di collocarlo in fondi destinati a infrastrutture essenziali per l’istruzione e la salute dell’Isola, come propongono in modo esplicito i Paesi della Comunità dei Caraibi (CARICOM) sin dal 2014.
Questa proposta è stata approfondita in un importante rapporto pubblicato nel 2023 dal Centre for Reparation Research dell’università di Kingston (Giamaica) e dall’American Association of International Law (Associazione americana di diritto internazionale). Coordinato da Patrick Robinson, ex presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nonché giudice giamaicano presso la Corte internazionale di giustizia, questo rapporto va oltre il caso di Haiti ed è senza dubbio il documento più importante fino a oggi pubblicato sulla questione dei risarcimenti post-schiavitù.
Correggere le ingiustizie del passato
Le conclusioni in cifre di questo rapporto sono state ufficialmente approvate dalla Comunità dei Caraibi e dell’Unione Africana. Il fatto stesso che siano state così poco discusse nei Paesi occidentali è testimonianza del preoccupante scollamento tra Paesi del Nord e del Sud, caratteristico dell’epoca attuale.
In questi tempi difficili, in cui il trumpismo cerca di resuscitare la più brutale ideologia coloniale estrattivista [1], la Francia avrebbe tutto l’interesse ad adottare l’approccio opposto, mostrandosi capace di assumersi la responsabilità delle ingiustizie commesse nel passato e di correggerle, cominciando dal caso specifico, ma altamente simbolico, di Haiti.
Nel XVIII secolo Santo Domingo è la perla delle colonie francesi, la più redditizia, grazie alla produzione di zucchero, caffè e cotone. Gli schiavi trasportati dall’Africa rappresentano il 90% della popolazione dell’isola e alla vigilia del 1789 raggiungono il mezzo milione. All’epoca è la più alta concentrazione di schiavi dell’area atlantica. Nel 1791-92 gli schiavi si ribellano e prendono il controllo dell’isola. Sotto la loro pressione, nel 1794 la Francia abolisce la schiavitù.
I proprietari di schiavi si mobilitano e nel 1802 riescono a far ripristinare la schiavitù in tutte le altre isole schiaviste francesi (Martinica, Guadalupa, Riunione, dove la schiavitù si protrarrà fino al 1848). Nonostante ripetuti tentativi, la Francia però non riesce a riprendere il controllo di Santo Domingo, che nel 1804 proclama la propria indipendenza, con il nome di Haiti.
La palla al piede del debito
Lo Stato francese riconoscerà Haiti nel 1825, imponendo però un tributo di 125 milioni di franchi-oro. All’epoca l’importo è pari a circa il 300% del reddito nazionale di Haiti, ovvero tre anni di produzione. È impossibile pagare in un’unica soluzione. Un consorzio di banchieri francesi anticipa la somma, da restituire con gli interessi. Haiti si trascinerà la palla al piede di questo debito fino al 1950.
Nel 1904 le autorità della III Repubblica si rifiutano di partecipare alle cerimonie del centenario dell’indipendenza per protesta contro i ritardi nei pagamenti. Nel 2004, in un contesto molto diverso, Jacques Chirac rinuncia a partecipare al bicentenario, temendo richieste di restituzione. Cosa si farà nel 2104?
Per volturare il tributo del 1825 nell’equivalente importo del 2025, il modo più trasparente è applicare la stessa proporzione rispetto al reddito nazionale di Haiti: ne risulta una somma minimale dell’ordine di 30 miliardi di euro, tenuto conto delle remissioni del debito. Se indicizzassimo la somma iniziale non sulla crescita nominale dell’economia ma sul rendimento medio del capitale, otterremmo un importo cinque o dieci volte superiore! L’indicizzazione minimalista qui proposta si avvicina a quella adottata nel Rapporto Robinson del 2023.
Tuttavia quest’ultimo sfocia in somme complessive di gran lunga superiori (diverse migliaia di miliardi di dollari di risarcimenti post-schiavitù nel caso della Francia, e circa 100 mila miliardi su scala globale), perché comprendono non solo il tributo del 1825 ma anche, e soprattutto, una stima dei salari non pagati agli schiavi durante la schiavitù, nonché [il danno biologico] una valutazione dei maltrattamenti da loro subiti (un importo paragonabile ai salari). L’approccio regge e viene spiegato con molta chiarezza nel rapporto.
Si può anche ritenere che il mero calcolo matematico dei risarcimenti non sia risolutivo e che la discussione dovrebbe entrare in un dibattito più generale sulla riforma del sistema economico e finanziario internazionale e sulle sfide sociali e climatiche del XXI secolo. Questo è anche lo spirito del Rapporto Robinson.
A mio avviso, il caso di Haiti merita subito una restituzione diretta, in quanto ci sono versamenti interstatali ben documentati, sebbene su un piano più generale sia indubbiamente meglio privilegiare un approccio in termini di giustizia universalistica e di prospettiva, che di fatto si concretizzerà in somme almeno pari a quelle calcolate nell’ottica della giustizia riparativa. Quel che è certo è che i Paesi occidentali non potranno evitare all’infinito di limitarsi a dibatterne, pena il definitivo isolamento dal resto del mondo.
[1] Che riguarda o che pratica lo sfruttamento delle risorse naturali di un Paese o di una località o che mira alla massimizzazione del profitto attraverso l’appropriazione di risorse anche immateriali (Treccani, neologismi) [ndt]
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Thomas Piketty è direttore degli studi presso l’Ècole des hautes études en sciences sociales di Parigi.
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da Le Monde 12 aprile 2025 |
Pierre Rosanvallon: «Al pari dei parlamentari, anche i giudici incarnano la sovranità del popolo»
Contrariamente a quanto afferma Marine Le Pen, la legittimità dei magistrati è forte quanto quella dei responsabili politici. La prima si fonda sull’adesione ai valori condivisi sanciti nel diritto. La seconda sull’attuazione di una procedura maggioritaria: le elezioni.
Intervista di Anne Chemin
traduzione di Rachele Marmetti
All’indomani della condanna di Marine Le Pen a cinque anni di ineleggibilità con esecuzione immediata per la vicenda degli assistenti parlamentari del Front National (FN) al parlamento europeo, il Rassemblement National si è scagliato contro la «tirannia» dei giudici. «Il Paese sta vacillando sui suoi principi, sui suoi valori. Tutti coloro che parlano solo di Stato di diritto sono generalmente i primi a tentare di violarlo» ha affermato il 1° aprile la leader del partito di estrema destra.
I magistrati si sono «abusivamente intromessi nel modo in cui gli eletti esercitano il loro mandato» come sostiene Marine Le Pen? La pena d’ineleggibilità immediatamente esecutiva è di per sé «uno scandalo democratico»? Come definire, in una democrazia, i rispettivi confini di legittimità degli eletti e dei magistrati?
Professore emerito al Collège de France, lo storico e sociologo Pierre Rosanvallon da molti anni studia la storia intellettuale della democrazia francese, alla quale ha dedicato una trilogia pubblicata da Gallimard: Le Sacre du citoynen. Histoire du suffrafe universel en France (1992) (La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi 1994); Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France (1998) (Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Il Mulino 2005); La Démocratie inachevée. Historire de la souveraineté du peuple en France (2000) (La democrazia incompiuta. Storia della sovranità popolare in Francia, non tradotto).
Il fondatore del circolo di riflessione La République des idées e della rivista digitale La Vie del idées ha pubblicato, dal 2006 al 2011, una seconda trilogia, dedicata, questa volta, ai mutamenti della democrazia contemporanea, poi, nel 2020, un’opera su storia, teoria e critica del populismo: Le siècle dupopulisme (Seuil) (Il secolo del populismo, non tradotto). Il suo ultimo libro, Les Institutions invisibles (Seuil, 2024) (Le istituzioni invisibili, non tradotto), analizza le tre «istituzioni invisibili» che sono l’autorità, la fiducia e la legittimità.
Anne Chemin:
Cosa ne pensa del dibattito sulla sentenza del tribunale di Parigi sul caso degli assistenti parlamentari del Front Nazional al parlamento europeo?
Pierre Rosanvallon:
La prima cosa che mi colpisce è la rapidità con cui la gravità dei fatti (milioni di euro di appropriazione indebita di fondi pubblici a danno del parlamento europeo) e la severità della sentenza (argomentata in 150 pagine di motivazioni dettagliate e rigorose) sono state eclissate dalla denuncia di quella che Jordan Bardella [il presidente del RN] chiama un’«esecuzione politica».
Il dibattito sulle conseguenze della sentenza ha sostituito l’analisi delle motivazioni. Questo spostamento ha una spiegazione “tattica” – si è trattato di un’operazione diversiva –, ma si pasce di una visione della democrazia che va discussa nel merito. In questa occasione, Marine Le Pen ha coniato un concetto, lo «Stato di democrazia», che contrappone al concetto di Stato di diritto: è una formula che merita la nostra attenzione.
La seconda cosa che mi colpisce è la difficoltà che sembrano incontrare molti difensori dell’indipendenza della giustizia nel formulare quei concetti che permetterebbero d’interpretare correttamente questa vicenda. Costoro affermano giustamente che lo Stato di diritto è un bene «liberale» fondamentale, ma non si preoccupano di spiegare perché esso sia al centro dell’ideale democratico. Poiché non comprendono appieno la loro stessa indignazione e preoccupazione, la loro contestazione delle tesi populiste si rivela essenzialmente negativa: dunque è poco probabile che possa invertire il corso degli eventi.
L’RN oppone in continuazione ai giudici la legittimità democratica degli eletti, come se i responsabili politici fossero gli unici a incarnare il principio della sovranità del popolo. Cosa risponde?
Il problema di fondo è effettivamente l’analisi delle rispettive legittimità del giudice e dell’eletto. Esiste ovviamente una differenza di ordine procedurale: le persone che occupano cariche politiche sono scelte al termine di un processo elettorale competitivo, mentre i giudici sono oggetto di una nomina: la legittimità degli eletti può essere quindi definita sostanziale, quella dei giudici funzionale. Alcuni ne traggono la conclusione che la prima deve prevalere sulla seconda: a loro avviso, in caso di conflitto tra politica e diritto, è il popolo, quindi l’eletto, che deve avere l’ultima parola.
Per difendere la legittimità dei giudici, la maggior parte dei difensori dello Stato di diritto invoca i principi del liberalismo politico: il giudice, dicono, è il garante dei diritti dell’individuo. Questo è evidentemente vero, ma a mio avviso occorre andare oltre: certamente il giudice non è eletto, egli difende, è vero, i diritti dei cittadini, ma assicura anche, e questo per me è fondamentale, una funzione strutturalmente democratica. Per capirlo occorre tornare alla definizione del principio generatore delle democrazie: la sovranità del popolo.
In una democrazia il popolo è il supremo sovrano, ma in origine questo concetto si basava sul principio dell’unanimità: si pensava che il suffragio universale avrebbe un giorno permesso di esprimere la comunione e l’unità del popolo. Poiché queste speranze sono andate deluse, è stato necessario trovare un sostituto all’unanimità: la regola della maggioranza. Il principio aritmetico su cui si basa ha il vantaggio della semplicità: è difficile mettersi d’accordo sulle qualità morali o sulle capacità di un candidato, ma è molto facile essere d’accordo che 51 è superiore a 49. Nel corso della Storia la sovranità del popolo si è ridotta a una procedura elettorale fondata sul principio di maggioranza.
Quali problemi vede in questo concetto di sovranità popolare?
Questa regola ha costruito nelle urne il “popolo aritmetico”, ma ha anche reso evidenti i propri limiti. Una società non è composta semplicemente di elettori (non solo perché ci sono gli astensionisti), né è pienamente espressa da una maggioranza. È quindi emerso un secondo modo di concepire la sovranità del popolo e la volontà generale. Fondato sulla nozione di “popolo-comunità”, questo concetto ritiene che una comunità politica si definisca anche attraverso i valori e i principi che la organizzano.
In Francia questo mondo comune si esprime nel motto repubblicano «Liberté, égalité, fraternité», ma anche in un sistema giuridico basato sul riconoscimento dell’unicità degli individui, sul riconoscimento dei loro diritti e sull’affermazione della loro dignità. Lo strumento di questa sovranità del “popolo-comunità” è la giustizia: è la giustizia che assicura il rispetto dei nostri principi collettivi. Quando si dice che i magistrati dispensano la giustizia in nome del popolo francese, non è semplicemente perché lo rappresentano, ma perché sono i custodi della sovranità popolare definita dai valori fondanti del contratto sociale. I giudici incarnano, esattamente come i rappresentanti eletti, il principio democratico della sovranità del popolo.
La legittimità del diritto risiede nel fatto che è una sorta di memoria della volontà generale: rappresenta il periodo lungo del contratto sociale, mentre i ritmi elettorali rappresentano il periodo breve delle democrazie.
Lei afferma che nella sentenza contro Marine Le Pen, come in ogni altra sentenza della magistratura, il giudice trae la propria legittimità dal principio della sovranità del “popolo-comunità”. Questa legittimità ha pari valore di quella dei rappresentanti eletti?
Sì, certo. Gli eletti rappresentano il “popolo aritmetico”, i magistrati il “popolo-comunità”. È su questa definizione più ampia di sovranità che poggia la democrazia, perché il popolo è un sovrano al tempo stesso ineludibile e inafferrabile: non può essere confinato in un’unica e definitiva formulazione. Nell’elezione c’è sì un principio da cui non si può prescindere, ma nell’esercizio del diritto è all’opera una funzione costitutiva.
Invocando avventatamente “il” popolo, i difensori di Marine Le Pen seguono le orme dei populisti: esaltano la figura di un “popolo-uno” oppresso dalle élite del quale pretendono essere gli autentici rappresentanti. Uno dei grandi pensatori del populismo sudamericano degli anni Trenta e Quaranta, il colombiano Jorge Eliecer Gaitan, si definiva infatti un «uomo-popolo», mentre Hugo Chavez [1954-2013], che fu presidente del Venezuela, diceva di «non essere più l’individuo» Chavez, perché come presidente era diventato «la personificazione stessa del popolo». In una democrazia, invece, nessuno potrà mai proclamare “Il popolo sono io”.
Come risponde a quanti considerano la decisione del tribunale di Parigi una «sentenza politica»?
È una sentenza che ha certamente ripercussioni politiche, ma non è stata presa per ragioni politiche, come dimostrano tre elementi essenziali su cui i difensori di Marine Le Pen sorvolano. Il primo è che la sentenza è stata emessa dopo un’istruttoria e un processo durante i quali gli avvocati dell’RN hanno potuto esporre le loro argomentazioni a favore dell’assoluzione; il secondo è che la sentenza non è stata emessa da un unico giudice, ma da una corte composta da tre giudici; in terzo luogo la sentenza espone con estrema chiarezza il meccanismo di appropriazione indebita di fondi pubblici, ma anche le ragioni che hanno portato i giudici a comminare una pena detentiva di quattro anni, di cui due sospesi, e una pena di ineleggibilità di cinque anni, immediatamente esecutiva.
Secondo lei, a quale concetto di democrazia si riferisce l’espressione «governo dei giudici», utilizzata dai parlamentari dell’RN dopo la condanna di Marine Le Pen?
Questa espressione proviene da un libro pubblicato nel 1921 da un docente di diritto, Édouard Lambert, intitolato Le Gouvernement des juges et la lutte contre la législation sociale aux États-Unis [Il governo dei giudici e la lotta contro la legislazione sociale negli Stati Uniti], che non criticava il potere dei giudici in sé: denunciava il sistema americano di controllo della costituzionalità delle leggi in quanto lesivo dei diritti del parlamento. L’espressione è stata successivamente utilizzata come slogan da tutti coloro che ritenevano che l’unico arbitro legittimo del comportamento dei politici fosse l’elettorato.
Oggi è il punto di vista di Marine Le Pen, ma anche di Jean-Luc Mélenchon, che ha dichiarato che «la decisione di destituire un eletto dovrebbe spettare al popolo». Il leader di La France Insoumise (LFI), si riferisce senza dubbio alla procedura americana del recall [revoca]: in alcuni Stati, se uno sceriffo, un procuratore o un governatore si è comportato male o non ha mantenuto le promesse, gli elettori scontenti possono presentare una petizione per chiederne la revoca. Tuttavia, questa procedura non esclude le azioni legali: se un funzionario eletto si è appropriato di fondi pubblici, i giudici devono ovviamente occuparsi del caso.
Il primo ministro François Bayrou si è detto «turbato» dalla condanna di Marine Le Pen e alcuni deputati chiedono una legge che vieti ai giudici di pronunciare sentenze di ineleggibilità immediatamente esecutive per i rappresentanti eletti. La vede come una rivendicazione di una forma di privilegio?
I rappresentanti eletti devono naturalmente essere protetti dalle intimidazioni e dagli attacchi diretti alla loro libertà di azione e di espressione, perché esercitano una funzione pubblica, ma questo non li pone al di sopra della legge come individui. In una democrazia i politici non devono essere intoccabili.
Pensa che questo discredito dei giudici e della legge sia un punto che hanno in comune Marine Le Pen e Donald Trump?
Sì, con ogni evidenza. Tra le tante persone che Donald Trump copre di sarcasmo e minacce, i giudici sono al primo posto. Ogni magistrato implicato nei numerosi procedimenti giudiziari intentati contro di lui viene accusato di essere corrotto. La denigrazione della giustizia indipendente è al centro della visione politica del presidente americano, come in quella di Vladimir Putin in Russia o di Viktor Orban in Ungheria. Questi regimi ovviamente non si trovano nella stessa fase di decostruzione democratica, ma condividono lo stesso spirito.
La Francia non è risparmiata da questa ondata dilagante, silenziosa e sommersa che poco a poco sta riducendo il campo della democrazia in tutto il mondo. Le polemiche sulla condanna di Marine Le Pen, in ultima analisi non sono che la manifestazione in Francia di questa crescente diffidenza verso il diritto. La troviamo, in misura diversa, nel Rassemblement National e nella France Insoumise, ma anche in figure politiche che si pensava fossero immuni da questa tentazione, come il primo ministro François Bayrou.
Come spiega l’emergere di movimenti populisti che hanno preso il potere negli Stati Uniti, in Argentina e anche in alcuni Paesi europei?
Il primo fattore è di ordine intellettuale: a mio avviso, risiede in un’inadeguata comprensione del principio della sovranità del popolo. Questo deriva probabilmente dall’ignoranza della lunga storia della democrazia, fatta di tentativi ed errori, di esperimenti sfortunati o non riusciti, che non dobbiamo dimenticare se vogliamo essere buoni democratici! Penso, ad esempio, al dibattito sulla questione della legittimità democratica dei giudici, che durante il periodo rivoluzionario si credette di poter risolvere eleggendoli. L’idea fu ripresa nel XIX secolo dai repubblicani. Faremmo bene a ricordare questa lezione della storia quando discutiamo, come facciamo oggi, della legittimità del potere giudiziario.
Il secondo fattore è la sorprendente abilità dei padroni di queste democrazie atrofizzate di farsi portavoce di un mondo sociale svantaggiato e disprezzato. Il vicepresidente americano J.D. Vance, autore di Hillbilly Elegy, 2017 [Elegia dei cafoni, pubblicato in Italia con il titolo di Elegia americana] ha presentato se stesso, in compagnia di una cricca di miliardari, come il rappresentante politico dei dimenticati. Questo discorso è tassello di una spudorata impresa demagogica, ma tutti i democratici dovrebbero esserne pungolati, in particolare i partiti di sinistra, che sono stati a lungo i portavoce delle classi lavoratrici. Il successo dei populisti deriva infatti da un sentimento d’abbandono di cui essi sono in buona parte responsabili.
Come si combattono questi movimenti politici che oggi hanno il vento in poppa?
Demonizzare il populismo non porta ad alcun risultato. Non si può combattere un pericolo se non si ha qualcosa di più attraente da offrire: i democratici devono quindi condurre una battaglia su tre fronti.
La prima e decisiva battaglia va combattuta sul piano intellettuale. Bisogna sottolineare incessantemente l’inconsistenza democratica dei movimenti populisti che salvaguardano i processi elettorali ma squalificano i giudici, il diritto e le autorità indipendenti. Questi regimi esaltano la sovranità del “popolo aritmetico” ma cancellano la sovranità del “popolo-comunità. Il [rivoluzionario] Camille Desmoulins [1760-1794] diceva che l’essenza della democrazia consiste nel mettere le giuste parole sulle idee e sulle cose: dobbiamo quindi instaurare una vigilanza sul linguaggio e perseguire indefettibilmente i ladri di parole e i trafficanti di idee.
La seconda battaglia è quella della vicinanza sociale a tutti coloro che vivono ma sono invisibili. La rappresentanza non si concretizza semplicemente nelle elezioni: è attenzione alle esistenze concrete delle persone. Questo imperativo di portare il vissuto della società nel dibattito pubblico ha una dimensione che potremmo definire “narrativa”. Si concretizza attraverso reportage giornalistici, inchieste sociologiche, romanzi, film, spettacoli che si ispirano alla vita reale, o iniziative individuali, come l’impegno di François Ruffin [deputato ex-La France Insoumise per la Somme] per far conoscere meglio la vita quotidiana delle donne delle pulizie.
Questo modo di raccontare il mondo sociale può provenire anche da protatonisti sociali come i sindacati o le associazioni. Quando Cimade, organizzazione che da anni aiuta i migranti, parla pubblicamente della vita delle persone che accoglie e consiglia, svolge un ruolo di rappresentazione. Purtroppo, questa attenzione alla società reale non è al centro dei discorsi e delle pratiche dei partiti politici e dei rappresentanti eletti. Questo è ovviamente un immenso problema di democrazia.
Infine la terza battaglia è politica. La vitalità elettorale non è sufficiente a garantire la vitalità democratica, tanto più che è in costante declino: dagli anni Ottanta, con l’aumento dell’astensionismo e la frammentazione del campo politico, il processo di legittimazione attraverso le urne si è molto indebolito. Occorre quindi andare oltre le votazioni che permettono di scegliere chi governa, reinventare processi democratici che siano ampiamente diffusi nel corpo sociale e che coinvolgano i cittadini sugli aspetti il più possibile vicini alla loro vita quotidiana.
Nel 2018-2019 i Gilet Gialli proposero di introdurre un referendum di iniziativa popolare. Cosa pensa di questa modalità di consultazione?
I referendum di iniziativa popolare sono ovviamente utili dal punto di vista democratico, ma possono portare a delusioni se diventano l’alfa e omega di ogni progresso democratico. Perché siano significativi, i termini del quesito devono contenere le condizioni normative per l’applicazione: un referendum permette di votare a favore o contro l’aborto, a favore o contro il matrimonio omosessuale, ma non permette di decidere su questioni complesse come le pensioni o l’immigrazione. Come possiamo legiferare, per esempio, a partire da un referendum sul “controllo dell’immigrazione”?
Per rimediare al deficit democratico, dobbiamo superare l’illusione dello strumento del referendum e far vivere concretamente le grandi “funzionalità” democratiche.
Quali sono le “funzionalità” che secondo lei ci permetterebbero di resistere all’offensiva populista?
La prima è, a mio avviso, la funzione della deliberazione. Occorre che la vita pubblica riconsideri e restituisca la complessità delle mediazioni che le grandi scelte collettive comportano, in modo che gli individui possano assimilarle. L’abbiamo visto nel 2023 con la mobilitazione contro la legge sulle pensioni: il testo avrebbe dovuto tener conto del principio di giustizia tra le generazioni, determinare solidarietà vitali, gerarchizzare l’usura dei diversi lavori e le variabili legate alle condizioni di ingresso nel mercato del lavoro. La gestione di questa complessità avrebbe dovuto essere oggetto di un dibattito pubblico ampio, informato e democratico, mentre è stata ridotta a questioni tecnocratiche, declinate sulla base di indicatori statistici macro-economici, senza una vera consultazione del parlamento.
La seconda funzionalità democratica che dovrebbe essere sviluppata è il controllo: una funzione che nella democrazia greca era importante quanto la funzione esecutiva. Il filosofo politico e morale britannico Jeremy Bentham (1748-1832) diceva che la democrazia non è solo la «voce» intermittente del popolo, ma anche il suo «occhio» sempre aperto. La voce è la scheda elettorale, l’intervento orale o la manifestazione; l’occhio sono le istituzioni che permettono il controllo dell’esercizio del potere: la Corte dei conti o l’Alta Autorità per la Trasparenza nella Vita Pubblica, per esempio.
In origine, queste funzioni di controllo erano svolte dai parlamenti, che inventarono gli strumenti per inquadrare il potere esecutivo. Nel Regno Unito del XIV secolo la procedura parlamentare fondatrice fu l’impeachment (la destituzione) che permetteva di mettere sotto accusa gli agenti del re. Nel XIX secolo le grandi inchieste economiche e sociali del parlamento britannico, molto ammirate dal [tedesco] Karl Marx (1818-1883), associarono indirettamente il Paese alla deliberazione pubblica. Anche le procedure di rendicontazione e l’obbligo per il potere di giustificare le proprie decisioni svolsero un ruolo fondamentale. Nel tempo, tuttavia, queste funzioni scomparirono progressivamente: è perciò urgente reinventarle affinché la società civile possa appropriarsene.
Ritiene che le democrazie di alcuni Paesi abbiano raggiunto un punto di svolta? Pensa che queste oscillazioni antidemocratiche siano reversibili?
Si possono invertire, come dimostra il ritorno della Polonia alla democrazia. Tuttavia, al di là della messa sotto tutela dello Stato di diritto, dobbiamo prestare molta attenzione a due meccanismi-chiave che possono generare forme di irreversibilità.
Il primo è la riorganizzazione dei tempi politici. Tutti i leader populisti tentano di modificare, per via costituzionale, la scadenza delle elezioni presidenziali. È quanto accadde in Venezuela: Hugo Chavez è rimasto al potere per quattordici anni dapprima facendo votare un’estensione del mandato presidenziale, poi la possibilità di una rielezione a tempo indeterminato. È quanto accadde anche in Russia nel 2020: Putin ha fatto passare il principio del mandato presidenziale illimitato, che gli permetterà di rimanere al potere fino al 2036.
Ecco perché dobbiamo stare in guardia quando Donald Trump parla di candidarsi per un terzo mandato, anche se la Costituzione statunitense lo vieta. Quando al tempo politico viene dato un orizzonte smisuratamente lungo, la sfera del diritto si riduce meccanicamente: il potere del tempo è cambiato di mano.
Il secondo meccanismo produttore d’irreversibilità è la trasformazione degli avversari in nemici. Quando le contrapposizioni di progetti diventano battaglie tra amici e nemici del popolo, la democrazia si allontana. E quando chi è al potere pretende di governare le menti, di mettere a tacere gli oppositori e di trasformarli in delinquenti, il regime imbocca la strada di un totalitarismo che può essere senza ritorno.
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