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Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
12 settembre 2025
® articolo riservato agli abbonati
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STAMPA ESTERA
Voltaire Actualité Internationale, n. 142, 12 settembre 2025

LA NATO, A GUIDA TEDESCA, MINACCIA LA RUSSIA DA NORD 

La Grande Finlandia e i crimini razzisti in Carelia

L’8 settembre l’agenzia Tass ha pubblicato un lungo articolo, intitolato The New Finnish Doctrine: Stupidity, Lies, Ingratitude (La nuova dottrina finlandese: stupidità, bugie, ingratitudine), in cui Dmitri Medvedev, vicepresidente del Consiglio di sicurezza russo, presenta i risultati delle proprie ricerche negli archivi nazionali sull’occupazione della Carelia da parte della Finlandia durante la seconda guerra mondiale.

traduzione di Rachele Marmetti

Sebbene questo articolo non contenga riferimenti all’attualità immediata, potrebbe essere una risposta alla partecipazione del presidente finlandese, il convinto atlantista Alexander Stubb, alla delegazione alla Casa Bianca della Coalizione dei Volenterosi per l’Ucraina.
Da circa vent’anni molti finlandesi sperano nella restituzione della Carelia, diventata territorio sovietico dopo la fine della seconda guerra mondiale. Questo significa dimenticare:
1.
L’offerta della Finlandia alla Germania nazista di chiudere Leningrado (oggi San Pietroburgo), impedendo agli slavi l’accesso al Golfo di Finlandia; il conflitto diede origine alla Guerra d’Inverno (1939-1940);
2.
Il tentativo di creare la Grande Finlandia; il conflitto generò la Guerra di Continuazione (1941-1944).
Gli eventi descritti da Dmitri Medvedev si svolsero durante questo secondo conflitto. Essi sono generalmente ignorati dagli storici dell’Europa occidentale. La Finlandia condivideva le idee razziste dei nazisti, ma non considerava un problema la presenza di ebrei; quindi li incorporò nelle proprie forze armate per combattere gli slavi. Partecipò all’assedio di Leningrado mettendo i suoi aeroporti al servizio della Luftwaffe e tagliando i collegamenti ferroviari. I fascisti finlandesi organizzarono una vasta rete di campi di concentramento. Un decimo degli abitanti della Carelia vi furono internati e molti vi furono uccisi.
Il battaglione di volontari finlandesi delle SS fu incorporato nella divisione Viking. Combatté in Ucraina e nel Donbass.
Alla Liberazione, gli Alleati autorizzarono l’URSS ad annettere la Carelia; Mosca non perseguì i leader finlandesi, si limitò a deportarli. Il progetto della Grande Finlandia riemerse solo nel 2008, durante la guerra in Ossezia del Sud.
Nel 2019 una commissione di storici finlandesi svolse ricerche negli Archivi nazionali per stabilire il ruolo delle SS finlandesi. Il ministro della Difesa dell’epoca, lo storico militare Jussi Niiniste (estrema destra, Veri Finlandesi), prese posizione in difesa delle SS finlandesi e del progetto della Grande Finlandia.

 


11 settembre 2025

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FRANCIA: GLI SPARUTI SANCULOTTI CHE IERI VOLEVANO BLOCCARE TUTTO

Quelle petitesse!

Il contrario della grandeur che vogliono risuscitare i francesi altri e alti impegnati, per esempio, a riaffermare il colonialismo parigino in Medioriente; o a dotare l’Armée di panoplia iperperformante e contendere alle consorelle polacche e tedesche la guida militare dell’Europa. L’«Al lupo! Al lupo!» da settimane predicato dalle trombette dei marginali, ed echeggiato per opportunismo dai tromboni di regime ansiosi di dimostrare la pochezza della miseranda sinistra del XXI secolo, questo estremismo sperato quanto insensato si è rivelato un patetico «Al micio! Al micio!».
Parola ai numeri. La Francia ha 68,5 milioni di abitanti. Che da almeno un paio di mesi sono stati esortati a scendere in piazza a protestare contro il governo. A considerarlo colpevole dell’impoverimento delle classi subalterne e per questo a sfrattarlo. Che finalmente le masse alzino il culo! Non tanto quel 50% che andò a votare il politicume che le frega, ma l’altra metà, quella che ha disertato le urne in attesa di scendere in campo in carne e ossa e che ieri avrebbe dovuto incombere sui centri di potere affermando il primato della mobilitazione popolare su quella elettorale. E ne cacciasse i mandatari.
L’appuntamento era per ieri e la metaforica ghigliottina destinata a decapitare la democrazia dei ricchi era salutata dalla parola d’ordine: «Blocchiamo tutto!». Balbettio ridicolo e miserando, se salmodiato da appena 172 mila persone: lo 0,25% degli anzidetti 68 milioni e mezzo. Vuol dire che all’appello degli odierni Maximilien Robespierre hanno risposto in 25 francesi su 10 mila.
Donde vengono cifre tanto precise? Da questo percorso. Portavoce di organizzatori peraltro anonimi e invisibili hanno stimato i partecipanti in 250 mila; il ministero dell’Interno, per bocche con nome e cognome e visibilissime alle telecamere, hanno ridimensionato la mobilitazione a 175 mila. Togliamo i poliziotti in borghese, non distinguibili da ogni altro borghese del corteo: erano la metà degli 80 mila gendarmi complessivamente dispiegati dal governo. Facciamo la proporzione sugli abitanti ed ecco distillato il lillipuziano 0,25%.
Ma prescindiamo dai numeri e inoltriamoci nella cronaca e nella valutazione sociale dell’evento. Per quindi vaticinarne le conseguenze politiche, in parlamento e nel Paese: gli organizzatori del Bloquons tout, irresponsabili che hanno scambiato una massa azzombita o indifferente, clinicamente codediaca, per rivoluzionari potenziali hanno la responsabilità di far cadere su tutti quanti le conseguenze della loro leggerezza valutativa, giacché la Storia dimostra quanto la Reazione sia assai più feroce dell’Azione dissennata. Remember la Comune: i comunardi uccisero 250 borghesi; la borghesia rispose uccidendo 25 mila comunardi.
Già dalle prime ore mattutine di ieri, dunque…

[…]

 


10 settembre 2025

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DAL SOGNO ITALIANO AL RISVEGLIO SOVIETICO

«Italia addio, vado a lavorare in Russia»

Oggi, nell’orario di pausa-pranzo a Brescia, ho incontrato il Claudio detto Svergola, cosiddetto per come da adolescente schioccava la rete con traiettorie rasocampo. Sapendo che poi tanto il conto lo pago io, mi invita a mangiare un boccone in una trattoria che fu reputata e che oggi è associazione a delinquere che taglieggia avventori incauti con prezzi fuori di testa. Fa niente, Claudio si proclama abbacchiato, ha diritto a sfogo con nonno d’accatto. La racconta dall’inizio, cioè da due settimane fa:
«Arriva un nuovo capofficina, un fighetto che ha rimpiazzato il Paulì andato in pensione, mi chiama in ufficio, martella il foglio di produzione che ha davanti e mi fa:
‒ Caro il mio Claudio, qui andiamo mica bene!
Già il tono mi fa girare i coglioni. Voglio dire, zio ‒ se mi scala una generazione deve proprio abbisognare della mia attenzione! ‒ ho 35 anni, sono in azienda da 17 e sono specializzato provetto, al mio tornio a controllo numerico gli faccio fare tutto quello voglio, per cui questo sbarbatello non può trattarmi dall’alto in basso come uno scolaro delle elementari! Ma senti il seguito:
‒ No, non andiamo per niente bene, caro il mio Claudio! Con il tuo lento ritmo produttivo ci fai uscire di mercato!
E comincia un predicozzo sugli stranieri che sono molto più svelti di me, che nella filiale rumena fanno in un turno lungo quel che noi a Brescia facciamo in due turni corti… insomma, zio, mi ha umiliato. Ho capito subito dove voleva andare a parare, al ricatto che molti bresciani hanno subito in molti capannoni, Per cui non sono stato lì a discutere per non dargli soddisfazione. Però la soddisfazione me la sono presa io. Del resto, non avendo né moglie né figli da mantenere, posso permettermi di tutelare la mia dignità opponendo insulto a insulto, no?
‒ E che hai fatto?
‒ L’ho interrotto e gli ho urlato a sguardo fisso e torvo: «Caro mio, queste cagate valle a raccontare alla zoccole di tua mamma, di tua moglie e di tua figlia che fanno i pompini anche agli elefanti». Sono uscito e sono andato alla Cgil, che mi ha controllato la liquidazione.
‒ Stai cercando un altro lavoro, suppongo.
‒ L’ho già trovato. Vado a lavorare in Russia, parto la settimana prossima. Destinazione: una fabbrica che sta a un centinaio di chilometri dal confine con l’Ucraina, così mi hanno detto al consolato.
‒ Come hai scoperto questa opportunità?
‒ Semplice, zio, io leggo i giornali. So che Putin è nelle pettole come il resto d’Europa. Gli servono immigrati. Ma non di bassa pelle, scusa l’allusione etnica, ma specializzati come me. Quando sono andato al consolato per offrire i miei servigi di virtuoso del tornio numerico, qualcuno mi ha segnalato un’agenzia informale. E qui quasi mi fanno firmare il contratto senza farmi sedere! Senti un po’: mi pagano il 20% in più, mi danno la casa a fitto di Stato, che in Russia è il 10% del reddito, e a fine contratto, che mi vincola per cinque anni, alla liquidazione ci aggiungono 50 mila euro. E se scappo prima perdo tutto: furbo il Putin, eh?! Tu cosa ne pensi? Devo fidarmi? Non è che poi Putin mi chiede di dare una mano al fronte?
‒ Penso che la Russia ha urgenza di trovare non un Claudio, ma due milioni d’immigrati, ogni anno e per cinque anni, possibilmente di prima scelta, cioè specializzati.
‒ E che se ne fa di tanta gente?
‒ Lui ha fatto questi conti: nei prossimi cinque anni in Russia andranno in pensione oltre dieci (10,1 secondo i giornali russi) milioni di lavoratori. Aggiungi gli 800 mila che alle fabbriche belliche servono subito per fronteggiare la controffensiva europea in Ucraina, tenuto conto che Putin al fronte ha impegnato 750 mila uomini La Russia deve quindi reperire 10,9 milioni d’immigrati. Sono cifre che spiegano la sua generosità retributiva anche nei tuoi confronti. No, non hai motivo di temere t’impongano la divisa. Con i soldati sono a posto. Sono i droni e le munizioni e i buggy che gli mancano, e che probabilmente ti destineranno a produrre…
[…]

 


8 settembre 2025

STAMPA ESTERA
Le Monde odierno

INTERVISTA A MARION FONTAINE

«Il movimento Bloquons tout non è in continuità con la lunga storia dei movimenti sociali»

Secondo la storica, il movimento del 10 settembre è un’iniziativa confusionaria che il mito dello sciopero generale non consentirà di strutturare.

di Alain Beuve-Méry e Pascal Riché

traduzione di Rachele Marmetti

La probabile caduta, l’8 settembre, del governo di François Bayrou, che ha deciso di chiedere il voto di fiducia al parlamento, non ha scoraggiato gli organizzatori del movimento del 10 settembre che quel giorno vogliono «bloccare tutto». Come si inserisce questo movimento atipico nella storia sociale della Francia? Qual è il significato della minaccia di sciopero generale lanciata da Jean-Luc Mélenchon [1]? Intervista a Marion Fontaine, storica del socialismo e del movimento operaio, nonché docente al Centre d’histoire di Sciences Po.

Il movimento Bloquons tout [Blocchiamo tutto] può essere collegato a una tradizione di lotta sociale in Francia?

È bene essere cauti: questo movimento giace ancora nel limbo e ha forme confuse. Per il momento esiste solo nelle speculazioni dei politici e dei leader sindacali. Dal punto di vista storico, esso si inserisce in una cronologia estremamente breve, iniziata negli anni Duemila. Parlo del periodo dei movimenti di cittadini che si mobilitano sui social network: il movimento degli Indignados [Indignati] in Spagna, Nuit debout [Notte in piedi], Gilet Jaunes [Gilet Gialli] in Francia… Sullo sfondo la riforma delle pensioni e il fallimento delle grandi mobilitazioni sindacali del 2024, che non hanno costretto il presidente Macron a ritirarla.
È arduo fare parallelismi con avvenimenti della lunga storia dei movimenti sociali francesi. La mobilitazione del 10 settembre è piuttosto ascrivibile alla transizione incompiuta che i movimenti sociali stanno vivendo dagli anni Ottanta, segnati dal declino dei sindacati e dalla disgregazione delle categorie sociali tradizionali. Le vecchie forme di lotta sono quasi scomparse e per il momento è difficile capire cosa li sostituirà.

Una recente inchiesta, svolta sotto l’egida della Fondazione Jean Jaurès, sottolinea che il profilo degli animatori di Bloquons tout è molto diverso da quello dei Gilet Gialli. Sarebbero cittadini più politicizzati, più vicini alla sinistra radicale…

Se fosse vero non sarebbe necessariamente un buon segno per le prospettive di massificazione del movimento! Nella retorica degli animatori di Bloquons tout c’è tuttavia una certa continuità con i Gilet Gialli: rifiuto delle élite, profonda sfiducia nelle istituzioni, rifiuto dei rappresentanti, sia politici sia sindacali. Si tratta di indignarsi, di esasperarsi, di bloccare, senza necessariamente preparare le grand soir [espressione che dalla fine del XIX secolo indica il giorno dell’avvento della rivoluzione sociale, ndt]. Se si vuole fare la rivoluzione non ci si appella all’auto-contenimento!
Benché la visione anti-Macron e anti-istituzioni dei sostenitori del movimento del 10 settembre sia ampiamente condivisa, si tratta comunque di un collante fragile. Gli obiettivi del movimento sono infatti molto nebulosi: si vuole fare cadere il governo? Probabilmente sarà già stato rovesciato due giorni prima [l’8 settembre il governo quasi certamente non otterrà la fiducia del parlamento, ndt]; si vuole costringere il presidente Macron a dimettersi? Imporre un’altra politica? Sì, ma quale?

Non ci sono stati movimenti simili nel XX secolo?

Alcune mobilitazioni hanno spaventato la borghesia francese. Penso il particolare al 1° maggio 1906, un evento promosso dalla CGT [2] che all’epoca aveva pochissimi iscritti e sosteneva l’azione diretta [una forma di lotta d’ispirazione anarchica in cui i lavoratori agiscono senza intermediari]. La CGT cercò di organizzare uno sciopero generale chiedendo a tutti i lavoratori di astenersi dal lavoro. Alla fine non ci fu né sciopero generale né rivoluzione, cionondimeno l’iniziativa spaventò molto la borghesia.
La giornata di mobilitazione del 1° maggio 1906 si basava sull’esaltazione delle forze produttive, su una riflessione strutturata sullo sciopero generale, sulle organizzazioni operaie e su azioni specifiche. Niente a che vedere con quanto sta prendendo forma oggi: un movimento eterogeneo senza parole d’ordine chiare, un misto di resistenza passiva e di attivismo confuso. Alcuni invitano a non usare le carte di credito e a svuotare i propri conti; altri a tenere i figli a casa – conosco un solo precedente di appello al boicottaggio delle scuole, risale ai primi anni Trenta. Il tutto aureolato dalla chimera dello sciopero generale: una contraddizione, dal momento che è impossibile concepire uno sciopero generale prescindendo da un’organizzazione e da un progetto politico.

Sostenendo Bloquons tout, Jean-Luc Mélenchon ha esplicitamente invitato allo sciopero generale. Come interpreta questo fatto? È un tentativo di sovrapporre a questo movimento una cornice di riferimento?

Lo sciopero generale rinvia a un immaginario nato a cavallo tra il XIX e il XX secolo. All’interno del movimento operaio c’erano due modi di concepire la rivoluzione. Per i marxisti essa doveva venire dall’alto, attraverso la conquista del potere politico. Nella tradizione del sindacalismo rivoluzionario invece doveva venire dal basso, attraverso l’azione diretta.
Se tutti sciopereranno, le forze produttive, in particolare gli operai, dimostreranno che da loro, dai lavoratori, dipendono davvero le forze del capitale. Da qui il progetto di sciopero generale per far cadere il sistema capitalistico e rendere attuabile una società senza classi né Stato. L’idea fu concepita attorno alla nascente CGT, che all’inizio del XX secolo si proponeva come movimento sindacale rivoluzionario.
Durante il periodo della Belle Époque [3] ci furono intensi dibattiti sullo sciopero generale, sulla sua validità e sulle condizioni pratiche per la sua attuazione. Jean Jaurès [1859-1914] [4], ad esempio, era piuttosto scettico: dubitava dell’efficacia di un tale movimento e temeva che si sarebbe risolto in vacui proclami e infine avrebbe smobilitato i lavoratori.
Lo sciopero generale è più che altro un mito. Il pensatore del sindacalismo rivoluzionario Georges Sorel [1847-1922] [5] diceva che era soprattutto un «intreccio di immagini trainanti», uno strumento per orientare le menti alla rivoluzione, per galvanizzare la classe operaia.
È questo vecchio immaginario che Mélenchon rispolvera. Sa che è ancora presente in buona parte della sinistra radicale. Ma rischia di rendere molto evidente la discrepanza tra le sue fughe in avanti e la realtà delle aspettative e delle pratiche dei cittadini di Bloquons tout.

Lei sostiene che lo sciopero generale è un mito. Ma non ci siamo andati vicini nel giugno 1936 o nel maggio 1968?

Nel 1936 scioperò la grande maggioranza dei lavoratori, ma non tutti: non fu uno sciopero generale. Lo stesso vale per lo sciopero che accompagnò il movimento del Maggio ’68: senza dubbio non fu il conflitto sociale la migliore espressione dell’ideologia sessantottina. In entrambi i casi i sindacati inquadrarono, politicizzarono, strutturarono il movimento. Definirono le rivendicazioni. Furono accusati di aver fermato lo slancio rivoluzionario, soprattutto quando a maggio 1968 firmarono gli Accordi di Grenelle [6].

Perché la CGT sostiene la giornata di azione del 10 settembre?

Non si tratta affatto di un ritorno alle origini sindacaliste rivoluzionarie! È evidente che la CGT sostiene il movimento per soddisfare le proprie frange più radicali. È un modo anche per dare preavvisi di sciopero, quindi di tutelare gli aderenti che si asterranno dal lavoro. Infine la CGT non vuole perdere completamente il contatto con questo movimento di cittadini, nel caso prendesse piede. Non ha ancora superato il trauma dei Gilet Gialli.

L’emergere di collettivi di cittadini ostili a ogni forma di rappresentanza è una specificità francese?

Nient’affatto. Guardiamo ai movimenti sociali su scala globale: #MeToo, Black Lives Matter, il Movimento degli ombrelli a Hong Kong, le Primavere arabe… L’idea di lanciare movimenti dal basso è ormai molto diffusa, così come la sfiducia nelle istituzioni e nelle organizzazioni. È ormai molto facile mobilitare attraverso i social network, facendo girare parole d’ordine virali.
Il problema è che è molto più complicato far durare questi movimenti e dar loro sbocco politico. L’esempio più eclatante è quello dei Gilet Gialli: un movimento sociale importante, ma che ha lasciato un’eredità pari a zero. Non ha prodotto praticamente alcun risultato e non è emerso alcun leader.

Quindi quando Mélenchon invoca lo sciopero generale è consapevole di manipolare un mito?

Difficile dirlo. Ma sembra azzardato ritenere che la Francia sia oggi in una situazione prerivoluzionaria. La France Insoumise non è il Partito bolscevico e Mélenchon non è Lenin. Se si invoca la rivoluzione, o almeno l’insurrezione, bisogna essere credibili. Quando il Partito comunista sembrava in grado di lanciare scioperi di dimensione insurrezionale, per esempio nel 1947 o nel 1948, era una cosa molto più seria: aveva il 30% dell’elettorato, collegamenti sindacali e reali mezzi d’azione.
Come ricordava Jean Jaurès, è molto pericoloso spaventare senza avere i mezzi, perché si rischia di alimentare il conservatorismo e l’aspirazione all’ordine. Il Rassemblement National [il partito di estrema destra di Marine Le Pen, ndt] sta facendo proprio questo calcolo: non per niente si tiene lontano dal movimento del 10 settembre e ancor più dalle parole d’ordine che evocano lo spettro della rivoluzione e che tanto spaventano le élite conservatrici.

[1] Jean-Luc Mélenchon, leader di La France Insoumise (La Francia Indomita) uno dei principali gruppi politici della sinistra in Francia.

[2] Confédération Générale du Travail (Confederazione generale del lavoro), creata nel 1895. Storicamente di orientamento comunista e anarco-sindacalista, attualmente socialista.

[3] Periodo tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, che in Francia, e specialmente a Parigi, fu caratterizzato, per le classi elevate, da notevole prosperità economica e da una vita spensierata e gaia (da enciclopedia Treccani online).

[4] Cofondatore nel 1902 del Partito Socialista Francese, di cui fu presidente dalla sua istituzione al 1905. Fondatore nel 1904 del foglio socialista L’Humanité. Insieme a Émile Zola, fu uno dei più strenui difensori di Alfred Dreyfus. Pacifista convinto, venne assassinato il 31 luglio 1914 dall’ultranazionalista Raoul Villain.

[5] Pensatore francese. Ingegnere di professione, dopo la pensione si ritirò in una villetta di campagna alle porte di Parigi per dedicarsi alla «propria istruzione», alla critica della società del suo tempo e a quel rinnovamento delle teorie socialiste, che ha fatto di lui il maestro del sindacalismo (da Enciclopedia Treccani online).

[6] Accordi tra governo, sindacati e patronato francese: stabilirono un aumento del salario minimo del 35% e del 10% dei salari reali medi. Prendono il nome da Rue de Grenelle a Parigi, dove ha sede il ministero degli Affari sociali e dove si tennero i negoziati.

 


7 settembre 2025

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DI LETTO IN LOTTO

Il pentagamo regolare

È analogo al bigamo, ma invece di due mogli ne ha cinque. E il plurimarito che sta facendo notizia in paese ha nomea di timbrare cartellini a cadenza costante ed equilibrata: che ognuna abbia il giusto e soltanto quando viene il suo turno. Un adempiente regolarissimo, appunto. E nei decenni fedele a tutte quante.
Stamane però, durante messa prima, con i colori alle vetrate a est non ancora accesi dal sole, s’è insinuato tra le biasciche anziane questo vortice di refoli sapidi e riservatissimi, che la novità non vada oltre il pronao:
‒ Il Celeste ne ha messa incinta un’altra.
‒ Noooo! Ma sarebbe la sesta!
‒ E quella santa di Moglie Prima come ha reagito?
‒ Lei sarà l’ultima a saperlo, come al solito.
‒ Ma lui ha intenzione di mettersi in regola anche con questa?
‒ Il Celi è galantuomo, si è sempre assunto le sue responsabilità.
‒ E quest’ultima dove ha casa?
‒ A Platì, in Calabria.
‒ Santissima Madonna di Loreto! ma terra di’Ndrangheta è!
‒ Ma è di Platì o di Loreto?
‒ Ignoranta! La Madonna di Loreto è la patrona di Platì!
‒ Sempre ’Ndrangheta è!
‒ Ignorante tutte: a Platì non fioriscono soltanto mafiosi di lupara, ci è nato anche un generale con la Beretta d’ordinanza…
‒ Insomma, chi sa venga al dunque. Questa nuova è ricca come le altre?
‒ Dicono di più, molto di più. Il Celi è sempre abile a infilarsi nelle mutandine redditizie!
‒ Diciamo pure redditiere!
‒ Per me è un coglione! Arraffa da ben cinque palancate ma è sempre senza soldi…
‒ Mica colpa sua, poverino, se ha il vizio del lotto…

[…]

 


6 settembre 2025

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CRONACA DI PAGNOCCO

Vediamoci per un bicchiere all’Essecì

di Scot

La sindaca ha chiuso bar, ristoranti e ogni altra bibitoria e mangiatoia tradizionale. E ha imposto a negozi e supermercati di sospendere la vendita di bevande e cibi classificati dalla delibera municipale come estranei a diete salutiste. Ha così tratto le conseguenze dello studio diffuso due mesi or sono dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui la socializzazione imperante e tossica, basata sul ritrovarsi per bere e mangiare male e in eccesso, è la prima causa di morbilità: dall’obesità al diabete, dai vasi sanguigni foderati di colesterolo al cuore prostrato da muscoli negati nei loro bisogni di sano movimento, dal cervello rincretinito dall’alcol allo stomaco intossicato da eccessi ingollatori. E, dell’OMS, l’Achilla ‒ la capa del municipio, appunto ‒ ha applicato alla lettera le direttive, imponendo con le brutte a cittadini pigri, svogliati, incoscienti e riluttanti ad accettare consigli, di disssociare il bisogno di stare in compagnia alla fregola di abbuffarsi.
Inciso doveroso: l’Achilla è consapevole che a rincoglionire i concittadini è soprattutto la codedia, miscela venefica di depressione e codardia, ma è innegabile che l’alcol contribuisce non poco alla follia collettiva, se non altro perché propizia la resa alle droghe mediatiche: dalla pulsione messaggistica sul cellulare alla prostrazione dinanzi alla tivù. «Contro questo genere di svacchi vocazionali non posso far nulla ‒ ci ha motivato Achilla ‒ ma posso ridurre il progressivo suicidio alcolico». Per cui ha imposto astemia agli stessi membri del suo partito, notoriamente di pingue beva.
In poche ore il gonfalone del Comune si è ritrovato a sventolare sulle teste di centinaia di pagnocchesi, convenuti e sobillati da baristi, ristoratori, pizzaioli, focaccisti, piadenisti, rosticceri eccetera, che tengono gli avventori al triplice guinzaglio della gola, dell’abitudine e della sudditanza psicologica a bottegai e altri mercanti d’ogni risma.
‒ Ma se ci chiudi bar e osterie adesso dove andiamo a ciacolare, cara la nostra Achilla?
Risposta preparata e pertinente:
‒ Nelle Essecì, come sicuramente chiamerete le Sale Civiche di Conversazione. Ne abbiamo aperte cinque, già da oggi. Una per ogni borgo. Sono sempre aperte, 18 ore al giorno per sette giorni la settimana e per 52 settimane l’anno. Sono climatizzate. Includono spaccio di analcolici e cibi ligi al dietologo comunale, oltre che di prezzo consono, e rivelatorio dell’esosità dei locali privati che ho silurato. Sono sale pulitissime, di un lindore certificato dall’ufficio degli operatori ecologici del municipio. E rese sicurissime dall’occhiuto Corpo Volontari della Sicurezza (Civiesse), di fresco varo municipale. E subito aureolato della severità suggerita da suffisso evocativo di gendarmi crucchi e terribili.
Achilla mica è nata ieri. Dei propri amministrati conosce bene anche la propensione all’antinomia, cioè al dileggio di ogni norma o legge non presidiata dalla forza: neppure le vacche, a Pagnocco, pascolano dritto senza la tema di beccarsi un calcio in culo dal mandriano bengalese. Così ha sguinzagliato i suoi Volontari ai varchi strategici del paese: etilometro alla mano, ritirano la patente agli automobilisti che hanno bevuto oltre il limite; o multano i pedoni pure alticci. Ai Civiesse l’Achilla ha programmato di affiancare le Civine, Corpo delle Infermiere Volontarie, mansionate a pungere il dito a passanti scelti a caso, per analizzarne il sangue e scovarvi tracce di peccati di gola.
Ma il peggio, cioè il meglio, dell’offensiva salutista dell’Achilla sto per raccontarvelo, insieme all’attivismo del movimento di resistenza che subito è nato a Pagnocco per contrastare la sindaca, guidato dalla sua vittima più inviperita: il pasticcere Ettore. Una contrapposizione nominale che purtroppo, accidenti all’Iliade, mi ha già rovinato la sorpresa finale. O forse no, considerando l’illettrismo dei pagnocchesi.

[…]

 


5 settembre 2025

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NECROBIASIMO

Era il più noto dei 153 mila sarti italiani

Bassottello, si tintarellava il viso in latitudini assolate, o forse alle lampade nostrane, affinché sul marroncino del viso, di bussola cromatica Medaille d’or 1925 Saphir Paté de Luxe ‒ si perdoni il riferimento alla calzoleria ‒ si stagliassero occhi chiari, chioma fulgida e chiostra accurata da studi dentistici dove anche le assistenti alla poltrona hanno due lauree. E in prossimità del volto, magnetizzato e ringiovanito da conservatorie corporali dove anche le donne delle pulizie hanno tre lauree, il brevilineo esibiva, risaltati sul fondale buio da lame di luce sciabolate con sapienza, bicipiti ambigui, a non sapere se gonfi per rigore ginnico, per cortezza anatomica o per eccesso di ciccia. Nel complesso l’effige dell’omino riscuoteva da chi ne osservasse le gigantografie immense come i suoi negozi, un frullato di reazioni contrastanti: ammirazione, gradevolezza, delusione, invidia, voglia di acquistare gli abiti col suo marchio e tagliati e cuciti da sarti veri in laboratori globalizzati, e poi ansia di carpire i segreti del suo successo, mitizzato da un’imponente macchina promozionale che asserviva e intimidiva e irretiva ogni comunicatore, dall’imbonitore politico alle pennivendole frufrù.
Anni fa, in un’aula universitaria della città iraniana di Qom ‒ massima concentrazione mondiale di cultori della filosofia e della teologia ‒ una studentessa argomentò tesi lodatissima incentrata sull’Analisi del fenomeno mediatico e mercantile di … [il nostro sartino testé defunto]. Concluse con una sintesi al vetriolo: «Un Untermensch nel quale si specchiano masse di consumatori intossicati da vacuità». La laureanda, autorizzata a scorribandare nel tedesco perché reduce dall’aver comparato i sudditi decerebrati della moda a quelli di Hitler, lo era anche da accostamento acclarante. In una diapo di grande effetto, aveva affiancato l’immagine del sartino, inguainato nei suoi abiti antiplebei, ciascuno corredato del cartellino del prezzo, a quella del presidente iraniano dell’epoca, Mahmoud Ahmadinejad, noto per la sua frugalità anche vestimentare. Tirando le somme, l’abbigliamento del sartino totalizzava 12 mila euro, quello di Ahmadinejad 108 euro. Chiosò il rettore: «Ecco un’ulteriore conferma del tramonto dell’Occidente. E della sua decadenza morale».
[…]
Incrociai l’insulso sartino 17 anni fa. Nell’angusto corridoio di una stamperia imbottita «di scribacchine e scribacchini idioti, bempagati per produrre rotocalchi idioti destinati a lettrici idiote» (cito il me stesso dell’epoca).
L’estrema contiguità fisica e la sua istantaneità m’indussero alla battuta:
– Ma lei sembra proprio il famoso sarto!
– Impossibile, faccio un altro mestiere.
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IL MONDO SULL’ORLO DI UNA CAMERA DA LETTO

Un sonnifero per Trump

Tutto che riguarda Donald Trump, il capo della più potente armata che la storia abbia mai visto e letale almeno quanto tutte le altre messe insieme, eccita i gestori dell’ecumene. A impensierire sono soprattutto le esternazioni, sue o di stretti collaboratori, reiterate, dunque forse non pettegolezzi. Anche ieri il vice, James David Vance, si è detto pronto a sostituirlo, nel caso non fosse più in grado di fare il suo mestiere. E perché non dovrebbe?
Perché, risponde non Vance, ma un nugolo di diagnostici, in gran parte improvvisati o replicativi di apprensioni altrui, è doveroso vaticinare collassi imminenti del Potentissimo o quantomeno un calo intollerabile della sua resa cerebrale. Un Biden Due, insomma. Anche ieri, a corroborare di pertinenza la proclamata substitutio non petita di Vance, stampa disinvolta e reti sociali hanno effuso che Trump dorme meno di cinque ore al giorno. E i medici concordano sul pericolo di un sonno al di sotto delle sei ore, spartiacque tra un ritmo circadiano sano e il rincoglionimento permanente, propiziato dall’età: 79 anni e tre mesi. Vance ne ha 41.
Rassegna degli allarmi e delle speculazioni che l’insonnia del Sommo scatena anche nelle cancellerie delle colonie di remoto pondo, persino a Roma.
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UNIVERSIFÀ, TANTO PER TIRAR SERA AL BAR

Confetti di laurea mensile

di Scot

All’anagrafe il titolare della Confetteria di Valle fa Martino Prendiben. Ma digitando questi nomi non lo trovate neppure con l’ausilio dell’IA. Da tre generazioni il casato dei Prendiben è noto come I Tecia. Perché è con la tecia, pentola in gergo rovigotto, che l’Osvaldo fece i soldi.
Cuoceva un pastone che poi stiracchiava e spiraliava a larghezza di pollice, indi lasciava raffreddare sotto il portico, segmentava a lunghezza di palmo e andava a vendere ai bimbi nelle fiere. Astuto nel sottrarre a fanciulli ingolositi ogni spiccio ch'avessero in saccoccia, e ancor più abile nel trarre profitto estremo e illecito dai prestiti a usura, il Tecia capostipite lasciò all’unico figlio Gerardo detto manina (dal suo perenne palpare ogni deretano vivente) di che evolvere la tecia in laboratorio di dolciumi, che presto specializzò nella produzione di confetti; per comunioni, cresime, nozze, compleanni, pensionamenti. E feste di laurea. Comparto che andò dilatandosi fino a costituire, nel bilancio ereditario che toccò al Ciàpel, il Tecia odierno, cespite preponderante.
Visto che stiamo menando melassa narrativa, tiriamola fino al punto di decollo della notizia succosa che sto per ammannirvi.
Dunque Ciàpel è accorciativo di Ciapelnò. Tradotto in esteso: che non si può acchiappare. Ci provò una legione di gendarmi, a mettergli le manette dopo furti alla fine attribuiti a ignoti; ci provarono corrierate di finanzieri a coglierlo in flagrante commercio, manipolazione e vendita di materie prime e prodotti non autorizzati. Ma nessuno riuscì mai a coglierlo con le mani nel sacco. Imprendibile, appunto. Libero di spacciare robaccia a piede libero che riusciva a disastrare stomaci e intestini per due motivi: nei confetti di Ciàpel il veleno era imbozzolito da spessa corazza di zucchero, letale solo a lunga scadenza; secondo: i confetti si mangiano soltanto nelle grandi occasioni.
Il guaio è, per i clienti del Ciàpel e dei produttori come lui neri d’evasione fiscale e sanitaria, che l’occasione d’ingurgitar confetti, uno tira l’altro soprattutto se ci siringhi rosoli o esche gustative similari, ricorre sempre più spesso. Per esempio, prendiamo i confetti rituali in ogni festa di laurea. Inizialmente rossi, hanno dilagato sulla scala cromatica raddoppiando le dosi: ai rossi si sono aggiunti i blu, i gialli, i neri, i rosa e via elencando le divise di ogni facoltà (ingegneria, economia eccetera). Ma a propellere la domanda confettiera contribuisce soprattutto la rateizzazione dei corsi di laurea. Se prima per conquistarla ci volevano, poniamo, cinque anni di studi, adesso ne bastano tre per cingere il primo alloro (la maldetta e fasulla
laurea triennale). Altri due anni e ti aggiudichi la laurea quinquennale, pure corredata da alloro e vassoi di confetti, pure maldetta seconda laurea. Altri due anni di studi, obbligatoriamente alternativi al lavoro che cerchi invano o che fai di tutto per non trovare, e vieni aureolato dal primo master, in una marea di confetti. E via di replica in confettata ogni volta che termini un qualche corso di aggiornamento o di specializzazione che ti affianchi dalla taccia di mantenuto fancazzista.
Ed eccoci, era ora, alla pensata del Ciàpel: ha convinto il suo capomanipolo in Fratelli d’Italia a presentare al governo una riforma universitaria che contempli la laurea annuale. Prolungabile per almeno un decennio. Poi, inoltrandosi nel rosario dei master…
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4 settembre 2025

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LA VOCAZIONE SUICIDA DELLE ODIERNE DEMOCRAZIE

Dal popolo sovrano al popolo tossico...

...e dalla teologia della liberazione all’alchimia mediatica dei padroni dell’Occidente.

La storia della dominazione umana pullula di espedienti oppiacei per addormentare le coscienze dei sottomessi e disattivare la potenza trasformatrice dei popoli. Il capitalismo contemporaneo ha innovato le droghe e i mantra tradizionali sintetizzandone d’inediti nei propri laboratori semiotici: i fentanili ideologici (fentanilos ideológicos), come li definisce l’inchiesta di Fernando Buen Abad pubblicata sulla rete sudamericana Telesur [da Fentanyl, la cosiddetta droga degli zombi, farmaco abusato dai giovani di tasca piena e di testa vuota].
Sono droghe destinate a intensificare il letargo sociale, a inibire l’indignazione organizzata e ad abradere la lucidità critica. Il concetto di oppio del popolo, usato da Marx per descrivere la funzione manipolatrice della Chiesa, si va innovando semanticamente. Non si tratta più soltanto di narcotizzare con narrazioni omogenee, iniettate di dosi massive di menzogne, panico o falsa speranza, tutti ingredienti che configurano il metabolismo quotidiano della coscienza sotto la dittatura del consumismo deteriore. Si tratta di degenerare la vita, in ogni suo aspetto, a un processo governato dall’ansia della prossima dose.
Dosi di spettacolo mediatico, campagne virali, titoli cubitali e tele-non-notizie urlate, pettegolezzi infantili elevati a vangelo da stadio, telenovelas e scandali fumogeni che pompano nelle vene del simbolismo sociale e dell’immaginario collettivo una compulsione a consumare ulteriori narrazioni tossiche…

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3 settembre 2025

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FRANCIA: IN VISTA DELLO SCIOPERO SOCIALE ANNUNCIATO PER IL 10 SETTEMBRE

Sanculotti con brache firmate promettono l’assalto al fantasma della Bastiglia

Come già i Gilet Gialli, anche il neonato movimento Bloquons tout, surrogato meschino della politica, non spaventa una borghesia diffusa, determinata a ulteriormente affliggere le classi subalterne e troppo impegnata a calamitare e spremere il flusso turistico più folto del mondo.
Analisi di un flop scontato e penoso.

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20 MILIONI D’ITALIANI IN FUGA, QUANTOMENO DA SE STESSI

«Sei depresso e delinqui? Nessuna attenuante»

È l’orientamento che si va affermando in dottrina e in giurisprudenza. Mentre le malattie psichiche hanno sin qui condotto a una riduzione della pena se non a esimente totale, associando il pazzo al bimbo non in grado d’intendere e di volere, oggi la depressione è scientificamente declassata a parente stretta dell’ignavia. Comporta totale responsabilità di chi, soccombendovi, pretende farsene scudo penale. E dal momento che la pigrizia estrema, insieme all’indifferenza sociale e alla diserzione civile, non sono più considerate patologie, ma dolosi comportamenti lesivi del bene collettivo, ecco che si ribalta anche la percezione sociale di queste sindromi, vieppiù deprivate della tolleranza e della comprensione del contesto.
In un Paese dove la depressione, in ogni sua forma e a prescindere da rilevanza penale, tocca quasi un terzo della popolazione, coccolandosi nell’adagio «mal comune mezzo gaudio» e riscuotendo considerazione di «caratteristica psicologica» invece che di «arrendevolezza e cedimento alla droga dell’egotismo», il nuovo orientamento valutativo dei magistrati annuncia un terremoto etico che batosta lo stesso concetto di democrazia universale. E dissoda il terreno alla semina di quella democrazia selettiva che si preclude, in premessa, ai malsani di mente e d’azione, massime ai codardi.
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2 settembre 2025

STAMPA ESTERA
Le Monde 27 agosto 2025

INTERVISTA A MARCEL GAUCHET

«Il progressismo si è chiuso nella negazione delle realtà scomode»

Secondo lo storico e filosofo, dopo decenni di depoliticizzazione che hanno visto il trionfo dell’individualismo neoliberale e del societalismo libertario [1] siamo di fronte a un importante rovesciamento ideologico.

di Nicolas Truong

traduzione di Rachele Marmetti

Nato nel 1946 a Poilley (Manche), Marcel Gauchet è stato docente all’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) e caporedattore della rivista Le Débat (1980-2020), che fondò con lo storico Pierre Nora. Allievo del filosofo Claude Lefort e giovane lettore di Socialisme ou Barbarie [2], Marcel Gauchet ha collaborato con riviste come Textures e Libre ed è diventato specialista della democrazia, cui ha dedicato i quattro volumi de L’Avènement de la démocratie (2007-2017).
È autore di saggi sulla secolarizzazione e sull’«uscita dalla religione» in questa epoca di modernità liberale, come Le Désenchantement du monde. Une histoire politique de la réligion (Gallimard, 1985), e di analisi politiche (Macron, les leçons d’un échec. Comprendre le malheur français II, con Eric Conan e François Azouvi (Stock, 2021); recentemente ha pubblicato Le Nœud démocratique. Aux origines de la crise néolibérale (Gallimard, 2024).

Come ha vissuto il Maggio ’68? E cosa separa quel fermento intellettuale e politico dal periodo attuale?

Ho vissuto il Maggio ’68 schierato con l’ala “spontaneista” del movimento, come si diceva all’epoca per distinguerla dai leninisti d’ogni genere che giuravano obbedienza assoluta all’“organizzazione”. Questa corrente era minoritaria e frammentata tra sostenitori del movimento operaio, libertari e situazionisti [3], ma era unita da una solida convinzione comune: il rifiuto dello stile totalitario, comunista ortodosso, trotskista o maoista che fosse.
Sono ancora lì. Sono uscito dal ’68 ancora più radicalmente democratico di quando vi entrai. La differenza con il periodo attuale è evidente: la profonda depoliticizzazione delle nostre società. Ma non dimentichiamo che il Maggio ’68 fu una ventata improvvisa di ripoliticizzazione rispetto alla precedente ondata di depoliticizzazione, che molto preoccupava gli osservatori attenti. Un monito forse per il futuro.

Cosa intende per depoliticizzazione?

Il termine depoliticizzazione è fuorviante. Il suo significato sembra immediatamente evidente: disinteresse per la politica e assenteismo. È vero, ma nello stato in cui versano le democrazie l’espressione spiega solo una piccola parte del problema. Nel suo significato più fondamentale, la depoliticizzazione attuale corrisponde a un cambiamento della natura dell’essere cittadini.
Nella concezione classica il sentirsi parte di una collettività consisteva nell’abbracciare il punto di vista della società nel suo complesso e nello sviluppare una visione d’insieme degli orientamenti auspicabili. Questa visione d’insieme è svanita. Niente illustra meglio questo cambiamento dell’esplosione delle associazioni: ognuno ha la propria causa particolare e ai governi spetta gestire questa cacofonia di proposte specifiche.
Ci possono essere persone molto impegnate, ma che non ragionano politicamente, cioè in termini di un programma globale e coerente. Meglio ancora, questa depoliticizzazione è spesso accompagnata da una radicalizzazione di queste cause particolari, che non vogliono avere nulla a che fare con le altre e che vogliono imporsi, anche con la violenza.
La politica, cioè la gestione di un tutto, non è più capita e ispira ormai solo rare vocazioni, a ogni livello. Uno dei risultati più sorprendenti è la vulnerabilità delle istituzioni alla penetrazione dei militanti radicali. Costoro entrano come fosse burro in strutture che non hanno più una guida, per deviarle e asservirle alle loro cause.

Secondo lei quale altra differenza evidente distingue il ’68 dall’epoca attuale?

Dal mio punto di vista di vecchio militante per la causa del sapere, la differenza che più mi colpisce è la smobilitazione intellettuale che accompagna la depoliticizzazione. Nel ’68 era il contrario. La mobilitazione politica era inscindibile dalla mobilitazione intellettuale. Il movimento del Maggio ’68 coincise con un’ondata di avanguardismo letterario, artistico e filosofico che generava entusiasmo.
Fu allora che avvenne la svolta: il grande momento delle scienze umane. È difficile immaginare oggi l’interesse che sapevano suscitare libri [pubblicati nel 1966] come Écrit [Scritti] di Jacques Lacan, Les Mots et les Choses [Le parole e le cose] di Michel Foucault o Problèmes de linguistique générale [Problemi di linguistica generale] di Émile Benveniste. Un fervore che investiva tutti i settori della cultura.
Le discipline dominanti dell’epoca – la psicoanalisi, l’etnologia e la linguistica – ora non sono che stelle morte. Di lì è passata una vera e propria rivoluzione culturale che i rivoluzionari visionari del ’68 non seppero prevedere. Essa ha squalificato socialmente i saperi e, più in generale, la cultura umanistica, di cui questi rinnovamenti, che si credevano rotture, sarebbero stati in realtà il canto del cigno.

Stiamo vivendo una «rivoluzione conservatrice» guidata da un’«internazionale reazionaria», per usare le parole del presidente Emmanuel Macron in un discorso del 6 gennaio, condivise da media, think thank, politici e potenti imprenditori?

Stiamo vivendo un inizio di reazione contro ciò che per mezzo secolo è stato l’orientamento dominante della vita politica, sociale ed economica, mi sembra innegabile. Il neoliberalismo, ibridato di social-individualismo e di societalismo libertario, è sul banco degli imputati. Ma ora si tratta di definire questa reazione e di comprenderne la sostanza.
I termini da lei citati mi sembrano eccessivi, ma soprattutto fuori tema. Varrebbe la pena di smontare passo dopo passo le loro implicazioni. Per mancanza di spazio mi limiterò a dire che non c’è né «rivoluzione conservatrice» né «internazionale reazionaria», per non parlare del resto; c’è qualcos’altro che può lontanamente assomigliarvi, lo ammetto, ma le apparenze ingannano.

Ma allora che momento politico e ideologico stiamo attraversando oggi?

Ciò che è innegabile è che si sta annunciando un rovesciamento di ciclo ideologico di ampiezza paragonabile a quello che portò al potere il neoliberalismo tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. È il momento fortunato per i pamphlettisti che denunciano l’ipocrisia e le ridicolaggini dei benpensanti contemporanei, ma sono molto lontani dal proporre un corpus ideologico strutturato per la città futura.
Siamo nella fase negativa in cui si sta sviluppando una vigorosa sensibilità critica nei confronti delle tendenze che dominano il mondo occidentale, ma che non ha ancora trovato una vera trasposizione intellettuale. I temi sono facilmente individuabili: la protesta contro l’impotenza pubblica, gli appelli all’autorità, il ritorno al concetto di nazione, l’aspirazione a una democrazia più diretta. Tutto ciò mette in crisi una certa versione della democrazia liberale affermatasi negli ultimi cinquant’anni. A prima vista questa messa in discussione va nel senso che viene classicamente associato al conservatorismo, ma, se la si scruta da vicino, i suoi obiettivi sono molto diversi.
In ogni caso non si tratta di rivoluzione. I problemi posti da una pressione migratoria, che probabilmente è ancora agli inizi, stanno arrivando al cuore del dibattito politico di tutte le democrazie occidentali. Ci deve essere una spiegazione diversa da quella semplicistica della cospirazione di un manipolo di intellettuali. Questo tipo di sommovimento di fondo delle sensibilità e delle mentalità avviene nell’arco di decenni. Tutti i segnali indicano un ritorno della politica dopo i decenni dell’individualismo neoliberista. Questi cambiamenti di traiettoria sono il ritmo normale della vita democratica.

Qual è la responsabilità dei progressisti in questa crisi democratica?

Il progressismo ha certamente lavorato contro se stesso. Armato della convinzione di avere il monopolio dei veri valori, ha gradualmente voltato le spalle allo spirito della democrazia. Si è chiuso nella negazione di realtà scomode. È diventato settario, usando e abusando del disprezzo sociale e del discredito morale degli avversari. Si è rinchiuso in una ristretta base sociologica – fondamentalmente la piccola borghesia istruita delle metropoli – isolandosi dalla massa della popolazione. Ora si rifugia dietro i giudici.
Eppure la regola non scritta ma ineludibile della democrazia è l’accettazione leale del conflitto, che richiede innanzitutto il rispetto dell’avversario e la considerazione di ciò che esprime, soprattutto quando si tratta degli auspici della maggioranza su tutta una serie di questioni. Ignorando questa regola, il progressismo dominante si è messo da solo nella posizione dell’assediato, a fronte di una protesta crescente che esso ha rinunciato a capire.

Cosa pensa del momento Trump?

Distinguiamo lo stile Trump, che indubbiamente e comprensibilmente attira esagerata attenzione, dalla linea Trump. Quest’ultima corrisponde a un riallineamento strategico degli Stati Uniti conforme agli sviluppi della scena mondiale: non è iniziato con Trump, risale almeno alla presidenza Obama [2009-2017] e continuerà oltre Trump, chiunque ne sarà il successore. Il suo punto di partenza si può riassumere in una constatazione: il mondo non sarà americano. Eppure questo è stato il presupposto implicito che ha ispirato la politica americana dal 1945 e la scelta fondamentale d’intervenire negli affari mondiali.
È stato questo presupposto a guidare la condotta della guerra fredda, con la volontà di salvare il pianeta dal comunismo. Si è rafforzato con il crollo dell’Unione Sovietica.  Ha avuto il suo trionfo negli anni Novanta, con le elegiache illusioni della “globalizzazione felice”. Esso giustificava l’opzione di un multilateralismo attentamente controllato ma aperto, disegnando la via verso un mondo unificato sotto la benevola guida degli Stati Uniti. È su questo slancio che negli anni Duemila si è arrivati a parlare di “Cinamerica” o addirittura di “Euramerica”.
Poi il quadro si è capovolto con la graduale scoperta che l’obiettivo del partner più di peso, la Cina, è acquisire le capacità di una potenza in grado di confrontarsi con quella americana. Sta accadendo che il pianeta sfugge al controllo americano.

Da cosa è ispirata la politica brutale e caotica di Trump?

E se l’America si rivelasse alla fine il perdente del multilateralismo? Come uscire da questa trappola e, in questo nuovo contesto, rilanciare la leadership americana su basi diverse? Questa è la domanda che mi sembra ispiri la politica di Trump. Forse il mondo non sarà americano, ma l’America resterà la prima potenza mondiale.
La brutalità dell’approccio ne maschera la continuità con i predecessori. L’Inflation Reduction Act [2022], il principale piano di investimenti di Joe Biden, è nato dalla stessa matrice. La differenza è che Trump fa collimare l’agenda interna con l’agenda esterna. All’interno, l’autoritarismo contro un progressismo woke, supposto responsabile dell’indebolimento dell’America, è complementare alla riaffermazione di potenza verso il mondo esterno.

Lei critica il “progressismo autoritario”, portato di quel che numerosi pamphlettisti e saggisti chiamano «totalitarismo woke». La questione del wokismo non è forse un’illusione ideologica?

Ho dedicato tempo sufficiente all’analisi dei totalitarismi per rifiutare il totalitarismo woke. Il mio concetto di progressismo autoritario non ha nulla a che fare con il wokismo. Consiste in una deviazione antimaggioritaria della democrazia, in nome di principi di diritto ritenuti superiori al suffragio popolare.
Gli adepti del wokismo non mi disturbano, purché lascino spazio agli anti-wokisti, ai quali rivolgo la stessa esortazione. Purtroppo la strumentalizzazione politica è sempre esistita, ma il vero nocciolo è il rispetto della piena libertà di espressione. Ne siamo molto lontani. Il vecchio sessantottino in me si stupisce ogni giorno delle schiere di aspiranti procuratori e censori che pullulano ovunque.

[1] Movimento di cittadini, politico, economico e socialmente egualitario fondato sui diritti dell’uomo e il rispetto dell’ambiente.

[2] Rivista pubblicata da marzo 1949 ad agosto 1965 dall’omonima organizzazione francese, entrambe fondate nel 1949 a Parigi da un gruppo di militanti guidati da Cornelius Castoriadis e Claude Lefort.

[3] Situazionismo: movimento politico e artistico di sinistra, sorto in Francia verso la fine degli anni Cinquanta, che, richiamandosi al surrealismo e sulla base di una critica radicale della società dello spettacolo, concepisce l’intervento politico come costruzione di situazioni, cioè di momenti di vita collettiva in cui, attraverso l’uso creativo di tutti i mezzi di espressione (musica, pittura, poesia, architettura, mezzi di comunicazione di massa e così via), possa realizzarsi un’autentica e libera comunicazione tra le persone. Si è sciolto nel 1972. (Vocabolario Treccani online).

 


 

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Gian Carlo Scotuzzi Mosca detto Scot www.giornaledibordo.org contatto

Anno XXVI