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Rachele Marmetti
26 ottobre 2025
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MERCATO GLOBALE E NUOVI SCHIAVI

Così la familcrazia propizia il colonialismo del XXI secolo

articolo a richiesta

 

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STAMPA INTERNAZIONALE
Le Monde, 25 ottobre 2025

Qui si tesse la rabbia

Nello Stato indiano del Bengala Occidentale sale la tensione nelle fabbriche che producono juta, utilizzata per confezionare sacchi: i lavoratori chiedono il lenimento di condizioni di lavoro coloniali e di paghe da fame.

di Sophie Landrin
inviata a Calcutta

traduzione di Rachele Marmetti

Juta

Nella fabbrica tessile Reliance Jute Mill a Bhatpara, in India. Scatto del 28 agosto 2025, Arko Datto per Le Monde.

Nella terra sommersa, i lunghi fusti di juta sono stati assemblati in forme evocanti capanne. È il periodo della macerazione che serve a facilitare la separazione della corteccia filamentosa dallo stelo. Sotto la pioggia monsonica, con l’acqua che arriva alla vita, le donne separano le parti fibrose, che vengono poi portate a riva, a seccare lungo i bordi delle strade e dei villaggi. A fine agosto, nel delta del Bengala, nel nordest dell’India, la stagione della juta è al culmine. Grazie al clima tropicale, la regione è ideale per la coltivazione di questa fibra naturale, robusta, biodegradabile, usata soprattutto per confezionare sacchi. Caratteristiche che la rendono un’alternativa provvida alla plastica. Tanto più che questa coltura non richiede praticamente fertilizzanti e ricicla il carbonio.
Con i tre quarti della produzione nazionale di juta, lo Stato del Bengala Occidentale è il polmone del settore, in cui l’India è il primo produttore mondiale, davanti al Bangladesh. Ma nelle filande di quest’area i lavoratori, da 250 a 300 mila, ribollono di collera. Il settore traversa da molti decenni una crisi sociale ininterrotta, che spinge regolarmente i sindacati a scendere in piazza a Calcutta, la capitale, per chiedere migliori condizioni di lavoro e di retribuzione.
L’ultima manifestazione risale al 29 agosto. «I lavoratori patiscono condizioni di estrema precarietà. La loro vita è minacciata dalla negligenza dei padroni e dalle politiche antioperaie della classe politica» afferma Gargi Chatterjee, una dei leader del sindacato Bengal Chatkal Mazdoor Union, nonché rara donna in un contesto dominato dagli uomini. «I governi, centrale e regionale, continuano a essere indifferenti ai problemi dei lavoratori» aggiunge la sindacalista.
Alle porte di Calcutta, il distretto North 24 Parganasci pulsa di decine di filande dove lavorano circa 60 mila operai. È il cuore storico di questa industria, nata ai tempi della britannica Compagnia delle Indie. I coloni europei se ne sono andati da un pezzo, ma negli ultimi centocinquant’anni le officine sono cambiate di poco, soprattutto per mancanza di investimenti in macchinari moderni. Il mestiere è stato tramandato di generazione in generazione senza un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.
Visitiamo la filanda Reliance, fondata nel 1906, a Bhâtpâra, vicino al fiume Hooghly, in un’epoca in cui le merci venivano trasportate in battello. La fabbrica, molto buia e poco ventilata, somiglia a un gigantesco e mostruoso formicaio, con macchine a perdita d’occhio sulle quali si agitano oltre 300 capisquadra e quattromila operai, in sandali e perizoma. Non calzano alcuna protezione: né maschere né guanti né caschi, a una temperatura di 40 gradi e un tasso di umidità estremo. I lavoratori meglio pagati guadagnano 650 rupie (6,10 euro) al giorno, quelli al livello più basso 300 rupie.
«L’ambiente di lavoro è molto insalubre e favorisce incidenti e malattie» sintetizza Gargi Chatterjee. Prima di raggiungere i telai, la juta passa infatti attraverso una dozzina di macchine assordanti che la trasformano in filo, rilasciando una montagna di polvere nociva per la salute. Secondo uno studio scientifico, condotto nel 2009 nei filatoi di juta del Bengala Occidentale, su 203 lavoratori tra i 18 e i 60 anni il 50,65% degli addetti alla gramolatura, nonché il 26,09 degli addetti alla filatura e il 20,34% degli addetti alla tessitura soffrivano di bissinosi, malattia polmonare che causa il restringimento delle vie respiratorie. [Si cronicizza e può condurre alla morte, ndt].
Come la maggior parte dei concorrenti, la fabbrica Reliance produce sacchi per lo stoccaggio dei cereali, e spago. Anche questa azienda beneficia della spinta del governo indiano all’industria della juta: nel 1987 è stato reso obbligatorio l’utilizzo della fibra naturale per l’imballaggio di cereali, grano, riso e zucchero. Gli ordinativi del settore pubblico oscillano tra i 10 e 12 milioni di tonnellate di sacchi in juta, ma sono in costante calo, forse a causa del prezzo. Un sacco di juta costa infatti tra le 65 e 75 rupie, tre volte più di un sacco in plastica (21 rupie).
A poca distanza da Reliance, nella filanda Auckland, a Jagatdal, a giugno è esplosa la rivolta. Il direttore dello stabilimento è stato picchiato da operai esasperati, che lo accusavano di trattenere indebitamente i contributi pensionistici prelevati ogni mese dai loro salari, invece di versarli all’istituto di previdenza regionale. L’incidente ha fatto scattare uno sciopero generale. Da anni i proprietari delle fabbriche si rifiutano di versare la quota di contributi a loro carico ai programmi di assicurazione sanitaria, che consentono ai lavoratori l’accesso gratuito ai sevizi sanitari, nonché ai fondi di previdenza, che garantiscono ai dipendenti una modesta entrata al momento della pensione.
La ricorrente esasperazione violenta dei lavoratori è la punta dell’iceberg della tensione che cova nelle filande. Dieci anni fa, l’amministratore delegato della fabbrica Northbrook, a Bhadreswar, fu picchiato a morte; nel 2001 il direttore e il responsabile del personale della fabbrica di Baranagar furono bruciati vivi.
A due mesi dagli incidenti, nello stabilimento Aucklandnon non si arresta il lento declino delle condizioni di lavoro degli operai. In risposta al malcontento del personale, la direzione ha ridotto drasticamente il numero dei dipendenti a tempo indeterminato aumentando quello dei giornalieri. «Un anno fa la maggior parte dei 3.500 lavoratori dello stabilimento erano dipendenti a tempo indeterminato e i giornalieri una minoranza. Ora non ci sono più lavoratori a tempo indeterminato. Ci sono soltanto lavoratori a contratto o a giornata, pagati meno e privi delle tutele del lavoro dipendente: senza ferie retribuite, né contributi né pensione. Si può perdere il lavoro in ogni momento» spiega un operaio di 45 anni, che preferisce non dire il proprio nome.
Viene da Benares, nello Stato dell’Uttar Pradesh, e lavora per Auckland dal 1997. Guadagna 500 rupie, ma deve pagarne 150, elettricità esclusa, per l’alloggio nell’area della fabbrica: una minuscola baracca condivisa con altri sei operai, con servizi igienici comuni e in cattivo stato. «La direzione, ci racconta l’operaio, ci addossa sempre più mansioni da eseguire in sempre meno tempo e ci costringe a prendere due giorni di riposo la settimana, ovviamente non retribuiti». Unico conforto e barlume di speranza per quest’uomo esausto è la figlia, che è riuscito a far studiare all’università di Calcutta.
Il padrone ha imposto un sistema di tre turni giornalieri di otto ore, in sostituzione di un sistema orario frazionato che offriva ai lavoratori maggiore flessibilità. Ora i lavoratori sono costretti ad affrontare turni di lavoro massacranti, interrotti da una breve pausa. La maggior parte torna a casa stordita e per affrontare il giorno successivo si abbrutisce nell’alcol.
Ahmed Edlakh, 45 anni, lavora nella fabbrica da trent’anni, a giornata. Vive con moglie e tre figli in questa baraccopoli. «Le condizioni di lavoro stanno peggiorando e chi fa sciopero viene buttato fuori. Io sono costretto a subire perché non ho alcun altro posto dove andare e non ho altre competenze».
Altro esempio della condizione precaria dei lavoratori a giornata: i lavoratori di Kamarhatty, azienda fondata nel 1887, a fine agosto hanno trovato i cancelli della filanda chiusi per diversi giorni a causa di ordinativi pubblici insufficienti. I lavoratori sono stati avvertiti da un cartello affisso all’ingresso.
«Siamo giornalieri, quindi non veniamo pagati quando la fabbrica ferma. Niente lavoro, niente paga, è così che funziona» spiega Firoz Akhtar, che lavora qui da diciotto anni. Gli operai elencano una serie di soprusi: ritmi produttivi infernali, insicurezza del posto di lavoro, trucchi dell’azienda per non versare i contributi per assistenza e pensione invocando ostacoli amministrativi. A Shafique, 57 anni, manca un anno alla pensione. Ha dieci giorni di ferie all’anno e lavora sei giorni la settimana per un salario che gli permette a malapena di sfamare la famiglia.
Abbiamo interpellato i datori di lavoro, che però non si sono mostrati molto loquaci. Il direttore della filanda Empire ha invece accettato di incontrarci. Anil Singh, 67 anni, da due mesi dirige una fabbrica di mille dipendenti che produce tappeti, sacchi e spago. Viene da Dubai, dove, fino al pensionamento, ha svolto un incarico ben remunerato. Gli attuali proprietari, la quarta generazione dalla fondazione dell’azienda, lo hanno chiamato per imprimere una svolta alla fabbrica. «I margini qui sono molto risicati» ci spiega nel suo minuscolo ufficio in un edificio coloniale, «e l’automazione è ancora molto carente. Per trovare nuovi sbocchi dovremmo migliorare la qualità della produzione e diversificarla con altre fibre, per esempio il bambù. Il problema è che l’industria della juta è molto conservatrice.» Le uniche linee che sono state modernizzate e completamente automatizzate sono quelle della bobinatura, dove lavora una squadra di donne, ossia il 25% della forza lavoro.
Alcuni proprietari hanno iniziato a delocalizzare la produzione nell’India meridionale, ritenuta più favorevole all’industria, soprattutto nell’Andhra Pradesh. Sebbene l’India sia il primo produttore di juta, deve misurarsi con la concorrenza del vicino Bangladesh, che sovvenziona fortemente il settore. Il Bangladesh lavora fibre di migliore qualità e ha sviluppato una produzione più diversificata e a più alto valore aggiunto: prodotti per la casa, una gamma di borse per la spesa e sacchi che si esportano meglio. Di conseguenza è diventato il primo esportatore mondiale di prodotti in juta di qualità; l’India invece si limita a una produzione massiccia ma a basso valore aggiunto, destinata principalmente al mercato interno. Per proteggere l’industria nazionale, a giugno il governo indiano ha deciso di vietare le importazioni via terra dal Bangladesh di juta, tessuti e filati.
Alcuni stilisti indiani lavorano ormai con questa fibra e anche case di alta moda; l’hanno adottata anche marchi occidentali di prêt-à-porter. Per questo settore si schiudono nuove prospettive. Purché si osi fare il balzo necessario per entrare nel XXI secolo.

 


20 ottobre 2025

VENTI DI GUERRA

Babbo Natale col moschetto

di Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti

Secondo l’Istituto di ricerca sulla pace, di Oslo, mentre scrivo sono in corso nel mondo 61 conflitti. Soltanto su due s’appigliano speranze di una pace a breve, peraltro precaria: su Gaza e sull’Ucraina. Come farà mai la più potente lobby industrial-politico-finanziaria del mondo, quella delle armi, a sopravvivere lucrando su appena 59 campi di battaglia? Non potrà: per questo si prepara ad aprire un nuovo e più esteso fronte, più che compensativo dei due piccini minacciati di requie. L’offensiva partirà dalla Finlandia, sotto ferula Nato, all’assalto della Russia. Con uno squarcio alla frontiera con la Carelia, per poi allungarlo, a nord, ai mari baltici e alle frange del Polo, silurandovi la flotta di rompighiaccio che schiude ai container rossi la Via della Seta più proficua, quella che dai porti dell’Estremo Oriente fornisce Nordeuropa e Nordamerica di materie prime e prodotti finiti russi e cinesi; poi la Nato allungherà lo squarcio a Sud, sino alla Germania e agli Stati centrali che daranno il cambio all’Ucraina.
Fantapolitica? Le vicende degli ultimi mesi, confermate dalle cronache delle ultime settimane, dicono di no. Bastino poche carotature:
In Finlandia rullano tamburi di guerra ovunque. Nelle forze armate, che il 3 ottobre hanno inaugurato a Mikkeli un nuovo comando regionale Nato, a 250 chilometri da San Pietroburgo e allungando avamposti ad appena 40 chilometri dal confine russo; che stamburano sulla stampa atlantica l’esercitazione aerea in corso (13-24 ottobre), finalizzata a testare la risposta atomica di Finlandia e soci al paventato attacco russo, come la prova generale di un’offensiva imminente. Il primo quotidiano del Paese, l’Helsingin Sanomat, classe 1904, a suo tempo araldo delle prodezze dei finnici in divisa nazista (si veda sotto l’articolo correlato), insuffla spirito patriottico, con articolesse reiterate ed enfatizzate. In mancanza di meglio sbatte in prima pagina la réclame di uno dei due Hornet F-16 cooptati nella flotta interforze: velivoli obsoleti, ancorché caricati a ordigni nucleari, ma rimpiazzanti dai modernissimi F-35. Che a disdoro della pecetta finnica sulla fusoliera, sono preclusi ai finlandesi, come a ogni altro pilota non a stelle e strisce: sono virtualmente pilotati dagli Usa, senza i quali non sparano, non sganciano e neppure si alzano da terra. Puri terminali dell’arbitrio del Pentagono: precisazione tecnologica doverosa, perché acclara la sudditanza operativa degli europei tutti agli Stati Uniti. Di queste macchine volanti per conto altrui, i finlandesi ne hanno comprate o prenotate  64, e siccome costano da 71 a 95 milioni di dollari l’una, il bilancio dello Stato dovrà tagliare all’umbertina le spese sanitarie, sociali, dell’istruzione e via elencando le cinghie che gl’incauti 5,6 milioni di finlandesi dovranno tirare per ingrassare gli azionisti della Lockheed Martin, la fabbrica degli F-35 appunto. Unica consolazione dei finlandesi: gli italiani, contabilmente messi molto peggio di loro, di questi balocchi ne stanno comprando 115.
Altro sintomo di malessere bellico, stavolta piccino. Succede che i finlandesi hanno smesso di portare i loro bambini allo zoo di Ahtari, meta tradizionale del Paese, 270 chilometri a nord di Helsinki. Il 15 ottobre scorso ha annunciato di chiudere a fine mese. Fallito per mancanza di clienti. Idem gli annessi hotel Mesikammen, ristorante eccetera. I giornali inchiestano e scoprono che i finlandesi non hanno più i soldi per pagare il biglietto d’ingresso (21 euro l’intero, 11 il ridotto) né la camera d’albergo né i pasti. Perché? Risposta: Con la guerra alle viste, non è il caso di scialare nel superfluo.
200 animali e altrettanti lavoratori, indotti compresi, a spasso o al macello. Cassa integrazione? Per carità, con le cambiali firmate per gli F-35 non se ne parla! Però ottime prospettive di conversione nelle forze armate, se la Russia non si decide a invaderci ve la provochiamo noi. Ci siamo giusto acquattati ad appena 40 chilometri da casa loro. Non a caso il ministro della Difesa, Antti Häkkänen ha ordinato l’allestimento di strutture sanitarie di emergenza per le forze armate.
A Sud. Il governo tedesco scimmiotta il predecessore cha lanciò la parola d’ordine Nach Osten, verso Oriente. All’assalto degli slavi, oggi come ieri rubricati Untermenschen. Se non mangiamo Putin, prima o poi ci mangia lui. Camionate di soldi pubblici trasferiti dai servizi sociali all’acquisto di armi. Il cancelliere Friederick Merz ha fatto il pitocco con gli F-35: solo 35 esemplari, poco più della Polonia, ma si sta rifacendo alla grande con nuove basi militari, carrarmati, droni e ovviamente aerei meno Usa-terminali. Ha ordinato agli ospedali di allestire adeguati posti letto per ospitarvi i molti feriti che il conflitto prevede. Idem stanno facendo i governi britannico e francese e gli altri natisti minori, giù giù sino all’Italia. Dove però di guerra alla Russia si parla poco e si continua a intrattenere il popolo con la cronaca rosa, con quella nera ma di bassa scostumanza, con quella comica di un dibattito politico appiattito a chiacchiere della serva. I registi della Nato hanno suggerito ai luogotenenti romani di non inquietare un elettorato da sempre pacioso, ancorché per metà non votante, con preoccupazioni anzitempo. Al momento opportuno, si taglieranno con la roncola pensioni, salari, sanità, istruzione e quant’altro senza che il grosso degl’italiani osi ridire. C’inventeremo favole per tenerli allegri e in riga. I rari riluttanti si piegheranno come i greci.
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STAMPA INTERNAZIONALE
Tass, Russia

La nuova dottrina finlandese: stupidità, bugie, ingratitudine

Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia mette in parallelo i comportamenti degli attuali leader di Helsinki con quelli di almeno un secolo fa. E ricorda le conseguenze degli attacchi alla Russia, ammonendo a non replicarli.

di Dmitri Medvedev

traduzione di Rachele Marmetti

 

Soldati nazisti finlandesi, inquadrati dalla Germania durante la seconda guerra mondiale.

 

La scorsa settimana ho fatto un viaggio di ricognizione lungo i confini tra Russia e Finlandia, nella regione di Leningrado, e ho parlato con i funzionari locali e le nostre guardie di frontiera. Il traffico transfrontaliero è congelato; fino a poco tempo fa i posti di controllo brulicavano invece di attività. Per volontà di Helsinki, le normali e reciprocamente vantaggiose relazioni decennali sono al tracollo. La popolazione finlandese ne paga le conseguenze. In passato, grazie alle fiorenti relazioni commerciali ed economiche bilaterali, i finlandesi godevano di notevoli vantaggi. Oggi molti di loro manifestano rabbia per le stupide politiche che il governo persegue a danno dei loro interessi.
Vorrei spendere alcune parole sulle cause profonde di questa situazione. Purtroppo non è casuale. I vortici dei turbolenti processi geopolitici in atto mettono a nudo problemi di antica data e ne rivelano l’essenza. È appunto il caso della Finlandia.
All’inizio della stagione autunnale ogni viaggio nelle regioni nord-occidentali è sempre occasione per ricordare la data più tragica nella storia della grande città russa sul fiume Neva: il blocco nazista durante la seconda guerra mondiale, iniziato l’8 settembre 1941. Ma oggi sembra siamo i soli a coltivare il vivido ricordo di quei giorni bui. I diretti responsabili di quegli eventi hanno cercato di cancellare meticolosamente dalla memoria storica le tracce del loro agire. O almeno cercano d’impedire spiacevoli parallelismi con le loro attuali politiche. Non mi riferisco solo alla Germania, che anche a livello ufficiale rifiuta spudoratamente di riconoscere il blocco di Leningrado un crimine contro l’umanità.
Non si deve dimenticare che, senza il coinvolgimento delle forze armate finlandesi, il blocco di Leningrado, che causò la morte di centinaia di migliaia di civili, non avrebbe potuto esserci. Ossessionata dalla sete di rivincita e determinata a rovesciare l’esito del conflitto sovietico-finlandese del 1939-40, nell’estate del 1941 la classe dirigente finlandese si gettò incautamente nel marasma della guerra, a fianco della Germania nazista. All’epoca, nella società finlandese imperava la narrazione della propaganda ultranazionalista e, con l’approvazione dei protettori nazisti, i poteri forti di Helsinki consideravano seriamente l’idea del Finnlands Lebensraum, ovvero di un [più vasto] spazio vitale per la Finlandia. Le autorità politiche e militari del Paese intendevano non solo rimettere le mani sui territori ceduti all’URSS con il trattato di pace di Mosca del marzo 1940, ma anche estendersi fino a quelli che definivano i «confini naturali della Grande Finlandia»: dal Golfo di Finlandia al Mare di Barents, compresi la Carelia orientale, Leningrado e dintorni, nonché la penisola di Kola. E cacciare da queste terre i tanto odiati russi. Nelle loro fantasie più audaci, alcuni finlandesi speravano di avanzare oltre gli Urali fino al fiume Ob. Una bramosia territoriale che, in termini percentuali rispetto alla superficie del Paese, a quel tempo era la più rilevante in Europa. Queste ambizioni superavano persino le rivendicazioni sui territori dei Paesi confinanti avanzate dai membri del blocco guidato dai nazisti: Italia, Romania e Ungheria.
I piani aggressivi di Helsinki erano sostenuti dalla Germania nazista, che appunto fomentava attivamente l’espansione territoriale finlandese. Un telegramma spedito il 25 giugno 1941 dall’inviato finlandese a Berlino, Toivo Kivimäki, riportava in termini molto chiari il contenuto della conversazione con Hermann Göring: la Finlandia avrebbe ottenuto «dalla Russia, in termini territoriali, tutto ciò che desiderava e persino un surplus». Gli stati-maggiori dell’esercito finlandese e della Wehrmacht stesero i piani per un’invasione congiunta dell’Unione Sovietica, con azioni militari coordinate durante l’offensiva di Leningrado, in conformità con l’Operazione Barbarossa. Lo scopo comune – la lotta al bolscevismo e – nonché la retorica che enfatizzava l’alleanza militare tra finlandesi e tedeschi, è riflessa in modo esplicito nell’ordine del comandante in capo finlandese, Carl Mannerheim [1], del 10 luglio 1941. La disponibilità delle risorse militari della Finlandia per attaccare la parte nord-occidentale dell’URSS consentì al comando nazista di liberare divisioni per altre aree strategiche. In altre parole, la responsabilità delle tragiche conseguenze di questa alleanza ricade interamente sulle autorità finlandesi dell’epoca, artefici di questa sanguinosa collaborazione con il Terzo Reich. Mi riferisco alle vite e ai destini distrutti di milioni di uomini, donne e bambini sovietici innocenti, che non ci fu il tempo di evacuare dall’ovest del Paese verso le zone centrali, lontano dai campi di battaglia, in particolare durante le prime settimane della rapida avanzata della Wehrmacht.
Le forze finlandesi si distinsero per ferocia. I primi raid aerei della Luftwaffe su Leningrado, nell’estate 1941, respinti dalle difese aeree sovietiche, partirono dagli aeroporti finlandesi, perché gli aeroporti tedeschi nella Prussia orientale erano troppo distanti e gli aerei non avrebbero potuto raggiungere Leningrado senza atterrare per il rifornimento di carburante. Le truppe finlandesi si avvicinarono al fiume Svir a metà settembre 1941, conquistando e distruggendo la centrale idroelettrica, all’epoca in costruzione, destinata a migliorare l’approvvigionamento energetico di Leningrado. Interruppero anche la ferrovia Kirov, arteria fondamentale per portare rifornimenti essenziali alla città. Le forze di occupazione erano determinate anche a impedire il funzionamento della leggendaria Via della Vita, percorso per camion tracciato in inverno sul lago ghiacciato di Ladoga. Squadre di sabotatori tentarono ripetutamente di tagliare questa linea di rifornimento, fondamentale per la sopravvivenza della popolazione di Leningrado.
Sul lago Onega, le forze finlandesi gestivano una flottiglia di cannoniere, navi corazzate e chiatte ad alta velocità; la loro base principale era nella città occupata di Petrozavodsk (ribattezzata Aanislinna dai tedeschi). Pochi ricordano che fino al 1944 l’accesso della Finlandia al Mare di Barents, nella comunità di Pechenga (Petsamo), consentì alla marina della Germania nazista, la Kriegmarine, di disporre di una base navale strategicamente importante a Liinakhamari. Da qui i tedeschi potevano imbarcare il nichel dei vicini giacimenti nonché sferrare attacchi contro i convogli artici che trasportavano rifornimenti Lend-Lease [rifornimenti statunitensi di materiali bellici e materie prime, ndt] all’Unione Sovietica. I britannici, che in Scozia depongono fiori ai memoriali dei partecipanti ai convogli artici, o gli americani, che fanno altrettanto ai memoriali del Maine, sanno che gli sforzi dei loro eroici connazionali furono in parte compromessi dai finlandesi, oggi loro alleati nella Nato? La domanda rimane aperta.
La partecipazione delle forze finlandesi ai bombardamenti di artiglieria su Leningrado è cosa nota. Sebbene alcuni evochino un «nobile divieto» da parte di Mannerheim di attaccare Leningrado, città dove trascorse la giovinezza, prove storiche attendibili lo smentiscono: i finlandesi parteciparono ai bombardamenti, compresi quelli indiscriminati contro la popolazione civile. Kronstadt era uno degli obiettivi. La portata limitata degli attacchi finlandesi fu dovuta alla scarsa preparazione al combattimento dei cannonieri, certamente non al sentimentalismo o alla pietà dei comandanti. In particolare, all’inizio del 1944, quando il blocco stava per essere spezzato, l’aviazione finlandese condusse attacchi molto aggressivi contro gli aeroporti sovietici nei pressi della periferia nord di Leningrado, a Karimovo e a Levashovo. Nell’aprile di quell’anno diverse decine di bombardieri attaccarono, ma le difese aeree sovietiche vanificarono i loro sforzi, costringendoli a ritirarsi all’aeroporto di Joensuu senza aver ottenuto alcun risultato. Per tutta l’estate del 1944 le truppe finlandesi mantennero la pressione militare su Leningrado da nord, anche dopo che nel mese di gennaio i tedeschi furono respinti a sud e a sud-ovest, lontano dalla città.
La Finlandia commise atti di genocidio e crimini di guerra contro la popolazione civile sovietica non solo a Leningrado. Le sue squadre della morte fecero il bottino più sanguinoso in Carelia. Oggi, i discendenti degli scagnozzi finlandesi ne parlano a fatica, con riluttanza e fastidio.

La decisione della Corte suprema della Carelia del 1° agosto 2024, che ha riconosciuto come criminali le azioni commesse nella regione dalle autorità di occupazione e dalle truppe finlandesi durante la Grande Guerra Patriottica contro 86 mila cittadini sovietici, è stata maleducatamente definita «infondata» dal primo ministro della Finlandia. Si tratta, ha sostenuto, di uno «stratagemma propagandistico» russo: argomentazione cui abitualmente si ricorre per tentare di negare una scomoda verità.

In poche parole, queste affermazioni sono un ennesimo palese tentativo di riscrivere la storia. Utili anche a giustificare le rivendicazioni territoriali del regime di Mannerheim, che a oriente si estendevano ben oltre il confine sovietico-finlandese del 1939, nonché a cancellare la memoria dell’eccezionale crudeltà dell’amministrazione finlandese durante l’occupazione bellica. Lo dimostrano fatti accertati: gli invasori, che istituirono l’Amministrazione militare della Carelia Orientale, guidata dal colonnello Vaino Kotilainen (a partire dal 1943 da Olli Paloheimo), perseguirono una politica apertamente razzista. Fecero di tutto per annettere la Carelia alla Finlandia, epurandola però della «componente slava». Separarono gli abitanti dividendoli tra «corretti», cioè i finno-ugrici, e «non corretti», cioè di etnia russa. I primi sarebbero diventati cittadini a pieno titolo di una futura Grande Suomi [Finlandia] e “finlandizzati” con la forza, il che implicava la cancellazione della loro identità storica e culturale e la rescissione di ogni legame con la civiltà russa. L’altro gruppo, la popolazione non autoctona, sarebbe stata trasferita con la forza in altre regioni. Nell’ambito della politica di etnocidio perseguita dagli aggressori finlandesi, i russi dovevano inoltre indossare una fascia rossa al braccio, in analogia con la stella di David gialla usata dai nazisti come segno distintivo degli ebrei europei. Sotto il giogo finlandese la vita dei non-autoctoni differiva poco dalle condizioni della popolazione dei territori della Repubblica sovietica e delle repubbliche di Bielorussia, Ucraina e Moldavia occupati dai tedeschi. Erano privati dei diritti civili: ricevevano razioni di cibo scarse ed erano esposti alle rapine e alle soperchierie dei militari finlandesi, nonché alle persecuzioni extragiudiziali.
Inoltre, dall’autunno 1941 all’estate 1944, sul territorio dell’allora Repubblica Socialista Sovietica Carelo-Finlandese (in cui 21 distretti su 26 erano completamente occupati e un altro parzialmente occupato, così come 8 delle 11 città) fu istituita una rete di campi di lavoro forzato su ordine di Mannerheim. Nella sentenza del 1° agosto 2024 la Corte Suprema della Repubblica di Carelia si è avvalsa delle conclusioni della Commissione straordinaria di Stato per l’Accertamento e le Indagini sulle atrocità commesse dagli invasori nazisti e dai loro complici. Secondo questi documenti, le spaventose condizioni igieniche e di vita, la diffusione di malattie infettive, il freddo, la scarsità di cibo e il ricorso al lavoro di donne, anziani e bambini ridotti in schiavitù provocarono la morte di 8.000 civili e di oltre 18.000 prigionieri di guerra. A differenza dei nazisti, i finlandesi non ebbero bisogno di ricorrere a camere a gas o a esecuzioni di massa.
Oggi molti storici finlandesi travisano goffamente i fatti, suggerendo maldestramente che i campi di concentramento furono probabilmente creati non già per «sterminare la popolazione sovietica», ma per la «detenzione di persone trasferite per ragioni militari o perché sospettate di inaffidabilità politica». Il tentativo di sminuire il genocidio della popolazione slava perpetrato durante la guerra dalle autorità finlandesi e di farlo diventare qualcosa di “neutrale” non fa altro che mettere in luce la natura estremista e nazionalista della loro politica: la replica esatta di quella nazista. Ma i fatti sono incontrovertibili. Il numero di prigionieri in questi campi di concentramento raggiunse il 20% dell’intera popolazione dei territori occupati. Si tratta di cifre estremamente elevate anche per gli standard della seconda guerra mondiale. È difficile immaginare quale clamore isterico susciterebbe in Europa il tentativo di trovare una giustificazione alla creazione, per esempio, del famigerato campo di concentramento di Dachau, in origine usato specificatamente per gli oppositori del regime nazista. E invece i finlandesi che eccelsero in una retorica russofoba e, di fatto, cannibalesca, la passarono liscia.
Ancor prima della fine dell’offensiva strategica Viborg-Petrozavodsk (10 giugno-9 agosto 1944) il vicecapo della Direzione politica dell’Armata Rossa, tenente-generale Iosif Shikin, fu inviato sul fronte careliano per raccogliere prove dei crimini commessi dalle truppe finlandesi. In un rapporto indirizzato al membro del Politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, a capo della Direzione politica principale dell’Armata Rossa, colonnello-generale Alexander Shcherbakov, datato 28 luglio 1944, Shikin afferma che le prove raccolte «testimoniano le torture selvagge e barbariche nonché i tormenti che i sadici finlandesi infliggevano alle loro vittime prima di ucciderle». Le prove rinvenute fecero rabbrividire anche i soldati veterani del fronte. In diverse fotografie raccolte in varie zone di combattimento, confermate dalle testimonianze dei finlandesi catturati, ufficiali dell’esercito finlandese posavano spavaldamente con in mano i teschi dei soldati dell’Armata Rossa torturati e uccisi. La pratica di collezionare questi mostruosi cimeli non era rara nell’esercito finlandese: alcuni li esibivano sulle scrivanie o li mandavano in regalo ai parenti.
Le perdite inflitte all’economia della Carelia furono enormi. Oltre 80 villaggi rasi al suolo e 400 danneggiati. Nel rapporto che descrive le atrocità commesse dagli invasori fascisti-finlandesi, pubblicato sul quotidiano Pravda il 18 agosto 1944, si legge: Solo a Petrozavodsk, l’università, la biblioteca pubblica, la filarmonica, il centro di attività extrascolastiche per bambini, cinque scuole, nove asili nido e un cinema sono stati saccheggiati e bruciati. Tutti i ponti e oltre 485 edifici residenziali, compresa la casa che fu del poeta classico del XVIII secolo Gavrila Derzhavin, sono stati distrutti. Nelle zone occupate della Repubblica Socialista Sovietica carelo-finlandese, gli invasori distrussero tutte fabbriche meccanizzate, nonché gli impianti per l’abbattimento di alberi e il trasporto del legname. Gli invasori causarono enormi danni alle strutture del Canale Mar Bianco-Mar Baltico. La Carelia sovietica fu saccheggiata senza pietà: quattro milioni di metri cubi di legname e prodotti del legno, nonché un milione di libri sottratti alle biblioteche furono portati in Finlandia, il bestiame venne rubato. Non sarebbe esagerato affermare che le azioni dei finlandesi si discostavano di poco dall’attuazione dei programmi cannibaleschi della Germania nazista in Europa orientale: il Generalplan Oste e il Backe Plan, noto anche come The Hunger Plan.
Perché allora i criminali finlandesi, a differenza dei nazisti, non furono puniti come meritavano per i crimini commessi? Fu grazie alla volontà politica dell’URSS che le autorità politico-militari della Finlandia non finirono sul banco degli imputati a Norimberga e che i processi a numerosi alti funzionari si svolsero nella stessa Finlandia. Le sentenze furono piuttosto clementi. A differenza di coloro che subirono processi simili in Germania e in Giappone, nessuno degli imputati che avrebbero meritato la pena capitale fu giustiziato. Dopo qualche tempo i condannati furono graziati.
Dopo la guerra, la Finlandia preferì perseguire una politica equilibrata, basata sui principi del non-allineamento militare; per questo motivo la questione dei crimini finlandesi fu accantonata. L’URSS credeva sinceramente nella necessità di una politica di buon vicinato per la trasformazione del Mar Baltico in un’area di cooperazione. Gli eventi del 1941-44 venivano considerati una tragedia che non doveva servire per costruire inutili linee di divisione. Le autorità di Helsinki condividevano questa linea, consapevoli che sulla mappa d’Europa il loro Paese si trova all’interno dei confini europei in gran parte grazie alla bona volontà della coalizione anti-Hitler, che aveva rilasciato ai finlandesi una sorta di certificato di perdono politico.
Si instaurò una cooperazione economica reciprocamente vantaggiosa: la Finlandia riceveva materie prime, investimenti e prodotti petrolchimici su base stabile, in cambio forniva all’URSS attrezzature ad alta tecnologia che non poteva ottenere direttamente dall’Occidente. Furono varate molte joint-venture in diversi settori: cantieristica navale, metallurgia, energia.
Purtroppo, oggi, grazie agli sforzi delle autorità fantoccio filoamericane della Terra dei Mille Laghi, le relazioni bilaterali sono crollate e Helsinki è l’unica responsabile dell’insana logica delle sanzioni. Il volume degli scambi commerciali per il 2024 è stato di soli 1,26 miliardi di euro (nel 2019 fu di 13,5 miliardi di dollari). Per quale ragione la Russia dovrebbe continuare a nascondere le pagine oscure del passato finlandese?

La Finlandia, che in quanto satellite di Hitler attaccò l’URSS, ha esattamente la stessa responsabilità della Germania nazista per aver scatenato la guerra, per tutti gli orrori e le sofferenze inflitti alla nostra popolazione.

Tanto più che per genocidio e crimini di guerra non c’è prescrizione e il tempo trascorso dal momento in cui i crimini sono stati commessi non influisce sulla loro definizione di crimini contro l’umanità. In particolare, come risulta dalla risoluzione 96 del 1946 dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, la comunità internazionale riconobbe il crimine di genocidio prima dell’adozione, nel 1948, da parte delle Nazioni Unite della Convenzione per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio. Per esempio il genocidio in Namibia delle tribù Herero e Nama del 1904-1908 da parte delle truppe coloniali dell’impero tedesco, comandate dal generale Lothar von Trotha, fu classificato genocidio nel 1985, in un rapporto speciale della Commissione per i diritti umani del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, ma fu riconosciuto come tale da Berlino solo nel 2004. Come sottolinea Jeremy Sarkin nel fondamentale Colonial Genocide and ReparationsClaims in the 21st Century (Genocidio coloniale e richieste di risarcimento nel XXI secolo), le richieste possono essere presentate a un tribunale nazionale o internazionale, che può applicare i principi del diritto internazionale e/o del diritto pubblico e privato. Il diritto internazionale è, in generale, schierato dalla parte delle vittime. La gravità prevale sul tempo trascorso dal momento in cui questi crimini furono commessi. Questo principio deve valere anche per Helsinki.
Sia detto incidentalmente, la svastica fu rimossa dalla bandiera dell’Aeronautica militare finlandese solo nel 2020. Va notato che i finlandesi, pur riluttanti, si risolsero a rimuovere l’emblema nazista dalle bandiere delle loro unità nel contesto della riforma delle bandiere dell’agosto 2025, citando «pressioni esterne». Gli eredi odierni dell’ideologia degli invasori fascisti finlandesi non perdono occasione per fornire ragioni di manifestare rivendicazioni nei loro confronti. Dopo aver aderito alla Nato, che chiama la Russia proprio nemico, in questi giorni la Finlandia calpesta direttamente e rozzamente le basi storiche e giuridiche su cui si fonda l’esistenza del nostro Paese: tra le altre, le disposizioni del Trattato di pace di Parigi del 1947 tra Mosca ed Helsinki (la Russia non ha mai dato il proprio consenso ufficiale ed esplicito alla risoluzione unilaterale da parte della Finlandia, nel 1990, degli impegni relativi alle clausole di difesa), nonché il Trattato bilaterale sui Principi Fondamentali delle Relazioni del 1992. Si tratta dell’impegno della Finlandia a non usare le forze armate fuori del proprio territorio, il che è chiaramente in contrasto con le propensioni militaristiche dei Paesi membri della Nato. L’interazione con la Nato è una grave violazione degli obblighi pattuiti, compreso l’acquisto di determinati tipi di armi, nonché il divieto di usare il proprio territorio per aggressioni armate contro la Russia, divieto che i finlandesi si preparano oggi a violare con propensione suicida. Alla vigilia della Grande guerra patriottica, la Finlandia mise volontariamente il proprio territorio a disposizione del Terzo Reich per schierare le infrastrutture della Wehrmacht per un attacco all’URSS. Oggi lo apre servilmente ai membri della Nato per il potenziamento militare, contemporaneamente additandoci come la «principale minaccia alla sua sicurezza». In particolare, in base all’accordo di cooperazione nel campo della difesa con gli Stati Uniti (approvato dal parlamento finlandese nell’estate 2024) la Finlandia deve mettere a disposizione 15 strutture militari per un eventuale uso da parte del personale militare statunitense. Oltre alla componente Nato, sono stati creati solidi presupposti per la presenza permanente di contingenti e basi militari di Washington.
Questo revisionismo deve essere rigorosamente combattuto. Dal punto di vista giuridico, la rottura del nesso sinallagmatico insito nei trattati ne mette in luce la questione della loro stessa validità, in virtù del principio do ut des, cioè della reciprocità degli impegni .
Ai sensi dell’art. 44 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 23 maggio 1969, il diritto di una parte di denunciare, recedere o sospendere un trattato può essere usato solo rispetto all’intero trattato, salvo che il trattato stesso disponga diversamente. Tradotto in un linguaggio più comprensibile per Helsinki, questa norma stabilisce che un accordo internazionale non è un menu à la carte, in cui le voci possono essere singolarmente scelte, ma piuttosto un menu convenuto nella sua integralità.
In altre parole, se nel trattato non c’è una componente militare-politica, ciò significa che si è esonerati dall’obbligo compensativo di lasciar correre il passato, di archiviare i contenziosi storici e di evitare di mettere in luce la questione della responsabilità morale dell’attuale governo finlandese nelle azioni dei predecessori. I 300 milioni di dollari di risarcimento previsti dal Trattato del 1947 (in realtà ne sono stati pagati solo 226,5) furono un gesto di generosità da parte nostra, per niente apprezzato dalle attuali generazioni. Questi fondi non possono evidentemente coprire i danni che la Finlandia ci ha inflitto: la Corte suprema della Carelia li ha stimati in 20 miliardi di rubli. Abbiamo ogni ragione per farlo ipso jure.
Ciò è a maggior ragione vero sullo sfondo dell’isteria bellicista antirussa, combinata con il tintinnare di spade che risuona in Finlandia. La Finlandia, la cui storia è segnata dal genocidio della popolazione slava e dal terreno fertile al nazionalismo, è stata trasformata in un aggressivo antagonista della Russia ancor più rapidamente dell’Ucraina: invece dei piani per la finlandizzazione dell’Ucraina, discussi in una determinata fase, l’ucrainizzazione virtuale della Finlandia è avvenuta in un batter d’occhio.
Dopo l’adesione alla Nato, Helsinki, con il pretesto di misure “difensive”, ha intrapreso un percorso provocatorio di preparativi per una guerra alla Russia, creando manifestamente un trampolino per un attacco contro di noi. L’Alleanza è coinvolta pienamente: sta intensificando la propria presenza in tutti e cinque gli ambienti operativi finlandesi: terra, mare, aria, spazio e cyberspazio.
L’attività militare è in forte espansione. Nelle immediate vicinanze del confine con la Russia sono in corso preparativi per la creazione di una struttura di comando delle forze terrestri avanzate della Nato in Lapponia (in caso di «cambiamento della situazione operativa», il numero delle truppe può essere aumentato fino a formare una brigata completa di 5.000 uomini) e nella città di Mikkeli è in corso il dispiegamento del quartier generale del Comando della Componente Terrestre Settentrionale della Nato (MCLCC). È superfluo precisare contro chi saranno dirette le sue attività. Stanno sorgendo nuove guarnigioni, per esempio, nella comunità di Ivalo, località a 40 chilometri dal territorio russo.
Helsinki si sta ritirando dalla Convenzione di Ottawa sul divieto delle mine antiuomo per liberarsi dagli obblighi di applicare i principi del disarmo umanitario e compromettere deliberatamente la sicurezza regionale.
Nei mesi di maggio, giugno, agosto e settembre è stato effettuato un numero incredibile di manovre militari, tra cui la più grande esercitazione di artiglieria della Nato, Lightning strike 24; nonché esercitazioni terrestri, Northern Star 25, in Lapponia; esercitazioni dell’aeronautica militare, Atlantic Trident 25; ed esercitazioni delle forze speciali, Southern Griffin 25. Alcune delle mosse ipotizzate sono davvero ridicole: la Finlandia sta valutando seriamente di aderire all’iniziativa folle, nonché distruttiva per l’ambiente, di Polonia e Lituania: allagare artificialmente il proprio territorio come mezzo di difesa contro una presunta inevitabile «invasione russa».
I finlandesi stanno pagando a caro prezzo la spavalderia antirussa. Nel 2024 l’economia finlandese è andata in recessione, con una contrazione dello 0,3 rispetto al 2023. A causa della rottura dei rapporti con la Russia, l’intera parte orientale del Paese è colpita da una grave disoccupazione. L’incertezza delle prospettive economiche ha portato al crollo degli investimenti nel 2024 di quasi il 7%. Se lo meritano.

Sembra che le voci spudorate che si sentono di tanto in tanto nella Terra dei Mille Laghi riguardo alla costruzione di una nuova Grande Finlandia, i tentativi di alimentare tali sentimenti con l’idea di appropriarsi di parte del territorio russo, siano istigati in tutti i modi dalla leadership della Ue a Bruxelles. All’epoca del nazismo nelle menti finlandesifu instillata l’idea di arricchirsi a spese della Russia. Evidentemente ora stanno lavorando a un programma simile.

Se così fosse, la logica russofoba dell’amministrazione di Alexander Stubb, che sta spingendo dissennatamente il Paese verso l’abisso di un possibile conflitto militare, sarebbe piuttosto chiara. Proprio recentemente il presidente finlandese ha affermato che nel 1944 il suo Paese sconfisse l’Unione Sovietica perché «conservò la propria indipendenza». E, affermazione ancora più assurda, che l’Ucraina odierna è presumibilmente «in posizione migliore» rispetto alla Finlandia dell’epoca. Non sono affermazioni folli? È evidente che una posizione del genere va contro gli interessi del popolo finlandese.
In un impeto di revanscismo, l’establishment finlandese sta preparando una “nuova linea Mannerheim”, cioè l’infrastruttura militare per una nuova aggressione contro la Russia; ma è bene si ricordi che scontrarsi con noi potrebbe portare al collasso definitivo dello Stato finlandese. Non saremo clementi come lo fummo nel 1944. Nessuno si preoccuperà di leggere loro le belle favole della buonanotte sui Mumin [2]. Come dice il proverbio finlandese, sitäsaa, mitätilaa, raccogli ciò che semini.

Mosca, 8 settembre 2025

[1] Carl Gustaf Emil Mannerheim (1867-1951), considerato l’eroe nazionale finlandese, servì come ufficiale di cavalleria nell’esercito russo; nel 1917, allo scoppio della rivoluzione si spostò in Finlandia, da dove iniziò la guerra contro i bolscevichi, facendoli retrocedere. Fu capo del governo nel 1918-19, riuscì a far riconoscere l’indipendenza della Finlandia da parte delle grandi potenze. Nel 1931 fu nominato presidente del supremo consiglio della difesa; nel 1939 divenne comandante in capo delle forze armate finlandesi e condusse le due guerre del 1939-40 e del 1941-44 contro l’URSS; nel 1944 fu eletto presidente della Repubblica, nello stesso anno stipulò l’armistizio con l’URSS (Enciclopedia Treccani).

[2] I Mumin sono pupazzetti creati dalla scrittrice e illustratrice finlandese Tove Jansson. Sono simili a ippopotami bianchi.

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