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Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
30 luglio 2025
® articoli in abbonamento
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CONFERENZA DI ANTONIO D’EPISCOPO ALLA SALA AUDUBON DI CREMONA

Si selezionano amanti del giornalismo valoriale

È l’unico genere di giornalismo che possa reclamarsi tale: si colloca sullo spartiacque equilibrato che separa i due eccessi dell’informazione negata o alterata. Di qua il baratro delle gazzette di regime, alimentatrici di consenso e suscitatrici di ottimismo a tutt’i costi, tipo quello che induce l’operaio che ha perso la gamba destra sotto la pressa a incolpare esclusivamente il fato e a issare un ex-voto di ringraziamento alla madonna di Caravaggio, «grazie Signora di avermi salvato la sinistra»; dall’altra parte del crinale c’è il burrone della cronaca indignata, che sgorga resoconti di sesso, di sport e di sangue, provvidi lavacri che deviano la tensione ideale del popolo su binari morti, spegnendo eventuali fomiti di rivolta o più aborrite pulsioni alla politica.
Il giornale valoriale ‒ ha spiegato D’Episcopo ‒ è quello che seleziona la cronaca e i temi di approfondimento con la bussola della gerarchia etica. Ecco con quali criteri, con quali modalità redazionali e dove i cittadini alfabetizzati e responsabili possono trovare tanto bendidio.
[…]

 


28 luglio 2025

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IN SVIZZERA, DOVE GIRA LA MANOVELLA CHE RIAVVOLGE IL TEMPO

Rivedersi fra trent’anni, cioè trent’anni fa

Sborsano 34 mila euro per soggiornare una settimana alla Prairie (prateria). E che cosa ci brucano di tanto costoso? Giovinezza. È vero: in questa sedicente clinica del benessere si fanno somministrare dosi massive di Revitalisation,  in sigla iniziatica: Rev. Nel beverone, in gran parte metaforico, c’è di tutto: da liquidi e solidi ipocalorici e salutisti a distillati supposti rallentare il degrado psicofisico ad allestimenti e coreografie psico-ludiche-rilassanti. Sia chiaro: i gestori della Prairie lo dicono subito, alle loro ospiti, che qui non si fanno miracoli né si spacciano elisir di lunga vita; proclamano e reiterano che qui non si ha la pretesa di ringiovanire chicchessia, e neppure pensano di fermare il calendario il palpito della settimana di soggiorno (replicabile e prolungabile anche per milioni di euro, se la cliente li ha ‒ e, siamo in Svissera, dove la genesi dei quattrini non conta): qui si contentano di prevenire. Verbo magico, che se la fa con ogni fraseggio, ché tanto non impegna. Se ti consiglio una spremuta di carote al posto del cognac posso dire, in assoluta verità, che qui alla Prairie ti ho salvato una miliardata di cellule dal bar genocida in fondo alla strada, dove i superalcolici fanno ecatombe.
Dunque, mi state chiedendo, sto insinuando che le clienti ‒ femminile dominante oblige ‒ sono tonte locuplete che si fanno intortare dai callidi gnomi? Sì, sono illuse e messe al muro crepato di rughe; e no, non sono completamente allocche da comprare sogni a peso d’oro perché questo genere di sedicenti cliniche del benessere qualcosina, a sinallagma di parcella ai limiti dell’assalto alla diligenza, la erogano. Innanzitutto le loro liturgie salutiste riscuotono il lenimento placebico. Soprattutto per pazienti che sedimentano il grasso cerebrale al suo posto: nel cervello. Dunque: se un’obesa di testa arriva soffrendo alla clinica svizzera e n’esce percependosi pimpante e taglia modella, è evidente, incontestabile che è guarita, o comunque sta molto meglio. Ma, al di là di queste riscossioni soggettive, i benesserifici elvetici hanno in catalogo anche prodezze oggettive. Per esempio, alle clienti (da non confondere con le pazienti che allettano in ospedali pubblici tutti sofferenza e sostanza) prelevano le cellule, le congelano e fra 30 o più anni, quando la scienza medica avrà scoperto la maniera di ringiovanirle sul serio, le scongelano, indi le re-iniettano nel corpo, ormai decrepito, dal quale furono estratte. Ed ecco, per esempio, la cliente Tarquizia, arrivata a Montreuil a 60 anni, rientrare a Milano con un corpo di trentenne.
Ma scrivo sul serio? Serissimo, giuro, verissimo, com’è inoppugnabile che la Prairie e consorelle stanno sullo sponde del Lago Lemano, a tiro di schioppo del primo campanile di Montreaux. Dove i benesserifici propongono alle matusalette l’ulteriore elisiranza che di seguito vi narro.
[…]

 


27 luglio 2025

 

GRUPPO DI LETTURA INTERLINEA 2
Colson Whitehead – La ferrovia sotterranea

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Il treno del rimpatrio

Noi saggi abbiamo investito la sconfitta esilica a concimare propositi rifondativi. È ora di rientrare in patria, e di cacciarne i barbari. È una (ri)presa del potere alimentato dal dovere. Il contrario dell’inabissamento esilico, deportativo, celebrato dal libro referente, dove l’immaturità etica, l’incultura e la modestia cerebrale dei protagonisti l’inchioda al vittimismo e gli consente di baluginare, unica alternativa alla schiavitù, la fuga, va bene anche onirica.
[…]

 


 

APERITIVO DOMENICALE

Lapapalisse s’è accorto che gli ebrei sfrattano i pellerossa palestinesi affamandoli. Come fecero i cattolici americani coi loro indiani

Dalla sua finestra-vetrina, Micio XIV recita un appello ai cellulari innalzati dai turisti, tutti incensati, a pianoterra come al rialzato, dai suffumigi esalati dai 37 ristoranti del quartiere, uno santo: Sfamateli!
Ma non muove un piatto.


 


25 luglio 2025

 

STAMPA ESTERA
Le Monde 24 luglio 2025

 

USA

«Se incombe la dittatura elettiva»

Jeffrey Rosen, specialista della Costituzione, spiega come i Fondatori del Paese abbiano concepito la Legge fondamentale in modo da impedire l’ascesa al potere di demagoghi e Cesari. Ma nel corso dell’ultimo secolo i meccanismi di moderazione si sono vieppiù indeboliti.

intervista di Valentine Faure

traduzione di Rachele Marmetti

Professore di diritto alla George Washington University, Jeffrey Rosen è presidente e direttore del National Constitution Center di Philadelphia, in Pennsylvania, organizzazione apartitica dedicata alla Costituzione degli Stati Uniti. È autore di numerosi libri, tra cui The Pursuit of Happiness. How Classical Writers on Virtue Inspired le Lives of the Founders and Defined America (La ricerca della felicità. Come gli scrittori classici sulla virtù hanno ispirato le vite dei Fondatori e definito l’America), Simon & Shuster 2024, non tradotto. Il suo prossimo libro verrà pubblicato negli Stati Uniti da Simon & Shuster in autunno con il titolo Pursuit of Liberty. How Hamilton vs Jefferson Ignited the Long Battle over Power in America (La ricerca della libertà. Come l’opposizione Hamilton-Jefferson ha scatenato la lunga battaglia per il potere in America).
Fine conoscitore della storia delle istituzioni americane, in quest’intervista a Le Monde Rosen parla della sentenza della Corte suprema del 27 giugno, che limita la facoltà dei giudici federali di sospendere con ingiunzioni nazionali i decreti presidenziali. Queste sono state uno dei principali strumenti cui ha fatto ricorso la giustizia per contrastare gli eccessivi poteri arrogatisi dall’amministrazione Trump..

Nel parere divergente dalla decisione emessa a fine giugno, la giudice progressista della Corte suprema Sonia Sotomayor scrive che nessun diritto è al sicuro nel «nuovo regime giuridico» creato dalla sentenza della Corte suprema. Lei condivide questa opinione?

La sentenza rappresenta in effetti una significativa espansione dell’autorità della Corte suprema. L’elemento più eclatante di questa decisione è l’opinione del giudice Brett Kavanaugh: in sintesi ha affermato che, in ultima istanza, spetta alla Corte suprema degli Stati Uniti decidere su tutte le questioni giuridiche.
Questo è segno di mancanza di rispetto verso le giurisdizioni di grado inferiore e sottintende che spetta ai sei giudici della maggioranza l’ultima parola su ogni questione. Lo affermano le giudici Sonia Sotomayor e Ketanji Brown Jackson nei rispettivi pareri dissenzienti. Le magistrate hanno sostenuto che bisogna rispettare lo Stato di diritto, che tutti i giudici federali devono contribuire alla applicazione del diritto e che il potere giudiziario non può essere affidato esclusivamente alla Corte suprema.

Questa decisione è stata ampiamente commentata e presentata come una vittoria politica di Trump. Ma è stata veramente una decisione di parte?

No. Anche il presidente Joe Biden era contrario alle ingiunzioni nazionali e anche ai Democratici della sua amministrazione non piaceva l’idea che i giudici conservatori delle corti inferiori bloccassero le politiche del presidente. Nella decisione del 27 giugno non c’è nulla che favorisca un partito rispetto a un altro. Molti degli ordini esecutivi del presidente Trump sono contestati in tribunale. E se questa decisione renderà più difficile il controllo giudiziario, allora sarà un’espansione del potere esecutivo.

Può spiegare in cosa consiste la teoria dell’esecutivo unitario rivendicata da Donald Trump?

Portata all’estremo logico, questa teoria afferma che il presidente dovrebbe avere il potere assoluto di licenziare qualunque funzionario federale e di agire nei rapporti con l’estero senza alcun controllo del Congresso. Questa teoria s’ispira alle idee di Alexander Hamilton (1755-1804), uno dei Padri Fondatori americani, ma è stata formulata negli anni Ottanta, sotto la presidenza di Ronald Reagan.
Spinta alle estreme conseguenze, essa afferma l’incostituzionalità delle agenzie indipendenti, come la Federal Reserve. In altri termini, il Congresso non può creare agenzie con dirigenti indipendenti, esse devono necessariamente rimanere sotto il controllo della Casa Bianca. In autunno la Corte suprema sarà chiamata a pronunciarsi su un caso che la porterà a decidere se, a suo parere, le agenzie indipendenti sono costituzionali o meno. La sentenza potrebbe mettere in discussione molte altre agenzie indipendenti, in nome della teoria dell’esecutivo unitario. E amplierebbe in modo significativo i poteri del presidente.

Sarebbe quasi un altro regime politico…

È vero. La teoria dell’esecutivo unitario rappresentava l’incubo di Thomas Jefferson (1743-1826), altro Padre Fondatore nonché terzo presidente degli Stati Uniti. Per le giudici Sotomayor e Jackson della Corte suprema, questa teoria è una specie di metastasi del pensiero di Hamilton. Jefferson accusava Hamilton di cospirare per creare una monarchia fondata sulla corruzione e di voler ripristinare in America l’autorità reale.
Hamilton e Jefferson avevano posizioni opposte su numerosi grandi temi – potere esecutivo contro potere legislativo, governo federale contro diritti degli Stati, interpretazione liberale della Costituzione contro interpretazione restrittiva. Queste sfide attraversano tutta la storia americana. Molte di queste battaglie si combattono ancora oggi nella Corte suprema. I giudici conservatori sposano una visione hamiltoniana del potere esecutivo, i giudici liberali invece difendono una visione jeffersoniana.

Lo slogan delle proteste contro Donald Trump è No Kings (No re). Come spiega che l’opposizione si esprima ancora in questi termini?

Gli americani hanno sempre radicato i dibattiti costituzionali nelle controversie dell’epoca fondatrice. I progressisti oggi invocano l’elenco delle rimostranze contro il re e la Dichiarazione d’indipendenza del 1776. E mentre si avvicina il 250° anniversario della nascita degli Stati Uniti, nel 2026, insistono sul fatto di essere gli eredi dei Minutemen [il nome dato ai membri della milizia delle tredici colonie che diedero vita agli Stati Uniti,ndr] e dei coloni che resistettero alla monarchia.
In queste manifestazioni spesso si proclama ad alta voce la Dichiarazione d’indipendenza e si paragonano i tentativi del presidente Trump di consolidare il proprio potere a quelli di George III (1738-1820), re di Gran Bretagna e Irlanda all’epoca della Rivoluzione americana. La Dichiarazione d’indipendenza e la Costituzione sono considerate dagli americani Scritture laiche, testi sacri che uniscono. Anche se liberali e conservatori le interpretano in modo diverso.

Dopo il ritorno di Trump al potere, si discute sulla possibilità che gli Stati Uniti stiano affrontando una crisi costituzionale. Lei cosa ne pensa?

La definizione più precisa di crisi costituzionale consiste in un presidente che ignora chiaramente un ordine della Corte suprema degli Stati Uniti. Questo non è mai accaduto nella storia americana. Il presidente Abraham Lincoln (1809-1865) ci andò vicino nel 1863, quando il presidente della Corte suprema Roger Brooke Taney lo redarguì per aver sospeso, durante la Guerra di secessione, l’habeas corpus [nel diritto anglosassone il principio fondamentale che garantisce il diritto di un individuo di comparire davanti a un giudice in caso di arresto, ndr] senza l’approvazione del Congresso. Ma Taney agiva di sua iniziativa, non in nome dell’intera Corte, e Lincoln fece rapidamente marcia indietro. Gli attuali dibattiti s’iscrivono in questo contesto. E, benché i giudici liberali lo accusino di tentare di aggirare le sentenze dei tribunali di rango inferiore, il presidente Trump non ha ancora ignorato un ordine esplicito della Corte suprema stessa.

Cosa pensa dell’ipotesi, sbandierata da Trump, di un terzo mandato?

La Costituzione lo vieta. Esiste tuttavia una strana falla nella Costituzione: se il vicepresidente, J.D. Vance, si candidasse alla presidenza con Trump come compagno di corsa e in seguito si dimettesse, Trump potrebbe accedere alla presidenza a causa di un’ambiguità nel linguaggio dell’emendamento che vieta il terzo mandato. Ma è improbabile che ciò accada.

I Padri Fondatori avevano previsto la minaccia rappresentata da Trump?

Assolutamente sì. Nel 1790 Hamilton fu invitato a cena a casa di Jefferson mentre il presidente George Washington era assente. Hamilton chiese a Jefferson: «Di chi sono i ritratti appesi alla parete?». Jefferson rispose: «Dei tre più grandi uomini della storia: John Locke [filosofo inglese], Francesco Bacone [filosofo inglese] e Isaac Newton [scienziato inglese]». Hamilton aspettò un momento prima di ribattere: «Il più grande uomo della storia fu Giulio Cesare» Jefferson fondò in seguito il Partito Democratico-Repubblicano per opporsi a quello che percepiva in Hamilton e nei Federalisti come cesarismo, nonché per impedire l’emergere di un dittatore.
Probabilmente Hamilton stava scherzando: anche lui temeva i demagoghi. Diceva che se la Repubblica fosse caduta, sarebbe stato a causa di un uomo privo di principi e autoritario che avrebbe approfittato di un conflitto estero per imporsi come dittatore e dominare il mondo. In altre parole, sia Hamilton sia Jefferson temevano i demagoghi e i Cesari. Hamilton temeva che venissero dal basso – dal popolo – Jefferson che venissero dall’alto – dalle élite.

Direbbe che l’intera storia americana è stata percorsa dal timore che un demagogo sarebbe stato in grado di minare la Costituzione e imporsi come dittatore?

I presidenti forti sono sempre stati considerati potenziali Cesari, da Andrew Jackson (1767-1845) – soprannominato King Andrew – a Franklin Roosevelt (1882-1945). Quest’ultimo si vestì addirittura da Giulio Cesare per il suo compleanno, nel 1934, accompagnato dalla moglie vestita da matrona romana. Oggi l’America sta discutendo di una questione storica: Trump è un Andrew Jackson o un Giulio Cesare? È un populista jacksoniano, intenzionato a ridurre le dimensioni del governo federale e a usare energicamente il potere esecutivo? Oppure è un aspirante dittatore, che mina la separazione dei poteri, sfida elezioni libere ed eque, minaccia lo Stato di diritto? È troppo presto per giudicare. Ma i Padri fondatori temevano esplicitamente i demagoghi pronti a concentrare il potere. L’intera Costituzione è stata concepita per rallentare le decisioni, per creare un equilibrio tra la volontà popolare e i rappresentanti eletti.

Ma allora come si è arrivati a temere per la democrazia americana?

Nell’ultimo secolo molti meccanismi di moderazione si sono indeboliti. Il potere esecutivo è cresciuto enormemente – cosa che i Padri fondatori non avrebbero potuto prevedere –, soprattutto a partire dalle elezioni del 1912, quando Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson difesero l’idea di un presidente rappresentante diretto del popolo, utilizzando nuovi mezzi di comunicazione come la radio. Abbiamo instaurato una presidenza populista, molto diversa da quella immaginata dai Padri Fondatori. I social network sono la concretizzazione dell’incubo del Padre Fondatore James Madison (1751-1836) in quanto mettono in discussione i valori di compromesso, moderazione e deliberazione a lui associati.
A questo si aggiunga l’indebolimento del Congresso, sempre più polarizzato e restio a limitare i poteri di un presidente proveniente dal proprio schieramento. E la magistratura ha dal canto suo affermato la propria autorità fino a sembrare l’interprete ultima della Costituzione, pur essendo più conciliante nei confronti dell’esecutivo. Per tutti questi motivi è possibile che la dittatura elettiva, temuta dai Padri Fondatori, stia per diventare realtà. Ma è anche possibile che questo sia solo un altro episodio di una tendenza storica di lungo respiro verso l’estensione dei poteri presidenziali, incarnata sia dai Democratici sia dai Repubblicani. Solo il tempo potrà dirlo.

Rettifica

su Le Monde digitale, successiva alla pubblicazione dell’intervista su Le Monde cartaceo: Diversamente da quanto scritto, non fu Thomas Jefferson a essere invitato a cena a casa di Alexander Hamilton nel 1790, ma l’inverso. Fu Jefferson a rispondere alla domanda di Hamilton sui ritratti appesi alla parete. E fu Jefferson a fondare il Partito Repubblicano-Democratico.

 


22 luglio 2025

 

STAMPA ESTERA
Réseai Voltaire 16 luglio 2025

Israele-Iran, vittoria di Pirro

Le rivelazioni di Alistair Crooke sulla vittoria iraniana e sul cessate-il-fuoco dichiarato dagli Stati Uniti stanno cambiando la nostra percezione della Guerra dei 12 giorni. No, Israele non è in grado di dominare il Medio Oriente.

di Alfredo Jalife-Rahme *

traduzione di Rachele Marmetti
(dal francese)

Mentre la spessa coltre di fumo della Prima guerra globale di disinformazione orwelliana, zeppa di menzogne e sotterfugi, comincia a dissiparsi, l’ex diplomatico britannico Alastair Crooke, in controtendenza rispetto alla propaganda goebbelsiana occidentale, rivela informazioni inquietanti.
Secondo Crooke, nel perfido attacco di Israele all’Iran hanno svolto un ruolo essenziale i cyberattacchi massicci e i droni provenienti dall’Azerbaijan e da Erbil – capitale della provincia autonoma del Kurdistan iracheno – lanciati in collaborazione con il gruppo terroristico rinnegato MEK (Mujahidin-elKhalq), nonché il potente software terrestre e satellitare degli Stati Uniti.
L’attacco israeliano è stato compiuto il giorno successivo alla rivelazione della complicità dell’argentino Rafael Grossi, l’ignominioso direttore dell’Agenzia Internazionale dell’energia atomica (AIEA) – accusato dall’Iran e dalla Russia di essere un volgare agente del Mossad – nonché alla vigilia dei fasulli negoziati di Teheran con gli Stati Uniti.
I perfidi attacchi, che secondo Crooke hanno richiesto diversi anni di preparativi interni e regionali, hanno paralizzato il Paese persiano per otto ore, compromettendone i sistemi di difesa. Israele e gli Stati Uniti miravano a metterlo ko.
Gli attacchi sono stati condotti principalmente dalle cellule dormienti interne del Mossad, che appunto vi si preparavano da anni. L’Iran è riuscito però a contrastarli e a infliggere gravi danni a Israele, che la censura totalitaria del governo Netanyahu ha nascosto. Secondo quanto affermato dall’ex agente della Cia Larry Johnson e dall’ex ispettore nucleare Scott Ritter nelle rispettive interviste rilasciate al famoso giudice Andrew Napolitano, la reazione dell’Iran avrebbe danneggiato un terzo di Israele.
Sempre secondo Crooke, Israele ha inflitto all’Iran danni significativi: le uccisioni telecomandate di 30 alti funzionari militari – compiute sulla falsariga della decapitazione della dirigenza dello Hezbollah in Libano – e di 11 scienziati nucleari di primo piano con le loro famiglie, rese possibili dall’ignobile spionaggio del già citato Grossi, che ha fornito al Mossad le informazioni per localizzare le loro residenze.
Crooke respinge la propaganda esaltante di Trump secondo cui il programma nucleare iraniano sarebbe stato annientato. In attesa di prove concrete, si può ritenere che, se esistesse, il programma iraniano per fabbricare la bomba atomica – una favola inventata da Netanyahu trent’anni fa – avrebbe subito un ritardo di alcune settimane o al massimo di alcuni mesi. A proposito dell’annientamento del programma iraniano, Crooke cita ampiamente lo scetticismo dell’eminente scienziato Ted Postol, del MIT. Crooke ritiene anche che il massiccio cyberattacco israeliano, ormai smascherato, sarà difficilmente replicabile.
Contrariamente a quanto diffuso dai media occidentali goebbelsiani, controllati da Israele, le difese aeree iraniane sono ora pienamente operative e stanno ricevendo nuovi sistemi di difesa antiaerea dalla Cina.
Crooke sposala tesi del teatro Kabuki [1], ipotizzata sia da Ritter sia da me: gli Stati Uniti avevano avvertito in anticipo gli iraniani del bombardamento delle centrali nucleari di Natanz, Isfahan e Fordow, forse attraverso l’ambasciata svizzera in Israele o tramite l’Oman.
All’epoca sostenni che l’Iran aveva trasferito 400 chili di uranio arricchito al 60% in un altro sito e che, stranamente, non era stata rilevata alcuna radiazione. Crooke ritiene morta e sepolta la perfida ispezione dell’AIEA, condotta da Grossi, che ha usato il programma d’intelligence Mosaic di Palantir contro l’Iran.
Secondo Crooke, la risposta dell’Iran per mezzo dei missili ipersonici non rilevabili e inarrestabili è stata molto severa, arrivando persino a colpire il centro del Mossad di Herziliya e a distruggere l’Istituto scientifico Weizmann, nonché la raffineria del porto di Haifa.
Crooke afferma che gli americani e gli israeliani hanno lanciato 93 missili difensivi T
HAAD (Thermal High Altitude Area Defense) disfunzionali, per un valore di 1,2 miliardi di dollari.
Sono stati gli israeliani a implorare Donald Trump di concordare un cessate-il-fuoco attraverso l’intermediazione dell’Oman. Oggi molti, sia dentro sia fuori l’Iran, criticano Teheran per aver accettato il cessate-il-fuoco proprio quando Israele era in ginocchio.

[1]
Una delle principali forme drammatiche giapponesi, sorta all’inizio del XVII secolo. In senso figurato “teatro Kabuki” viene usato per descrivere una situazione cha appare eccessivamente teatrale, enfatica o artificiosa. Ndt

*
Alfredo Jalife-Rahme, professore di Scienze politiche e sociali all’Università nazionale autonoma del Messico (UNAM). Dottore honoris causa dell’università pontificia San Francesco Xavier de Chuquisaca. Pubblica articoli di politica internazionale sul quotidiano messicano La Jornada.

 


21 luglio 2025

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CORNO D’AFRICA

Donne e bambini pagano il maggior tributo all’ennesima guerra di liberazione. Dalla civiltà

Mentre i postumi dell’ultima guerra civile in Etiopia si rivelano di arduo superamento, si profila nella regione un nuovo conflitto. La polveriera è sempre il colonialismo vecchio e nuovo, il detonatore è sempre la voglia di sopraffazione etnica.
Analisi.

[…]

correlato:

STAMPA ESTERA
Le Monde 14 luglio 2025

ETIOPIA: IL SILENZIO SUGLI STUPRI DI MASSA

«Dei soldati ci hanno imposto di spogliarci, poi ci hanno violentate»

Tra il 2000 e il 2022, durante la guerra del Tigrè [1], 120 mila donne sono state stuprate in questa regione in rivolta contro il potere centrale. La reticenza delle autorità, sia federali sia regionali, ad aprire gli occhi su questo flagello ostacola il processo di ricostruzione delle vittime.

di Marlène Panara
inviata speciale a Makalé (Etiopia)

traduzione di Rachele Marmetti

Nigist estrae tre campioni in lino beige da una borsa di plastica nera. Il volto illuminato da un ampio sorriso, siede a una macchina da cucire. Il piede sul pedale aziona l’ago meccanico che traccia una cucitura bianca. «È una gonna per bambina. Ancora qualche ora di lavoro e sarà finita» dice, senza distogliere lo sguardo dalla piccola punta metallica. Questa diciassettenne del Tigrè occidentale, regione dell’Etiopia in rivolta contro il potere centrale, che ha chiesto l’anonimato, ha varcato il portone nero del centro Hiwyet, che in lingua tigrina significa guarigione, un mattino di giugno 2023. «Ero in viaggio da mesi. Quando sono arrivata quasi non riuscivo a parlare. Per quello che avevo subìto durante il viaggio» racconta faticosamente.
Quando uomini armati hanno invaso il suo villaggio, nella zona di Kafta Humera, nel Tigrè orientale, Nigist è fuggita con altre adolescenti. «Ci siamo nascoste in un boschetto, ma i soldati ci hanno trovate. Ci hanno detto di spogliarci, ma io ho fatto resistenza, non volevo. A quel punto hanno cominciato a picchiarmi, a togliermi i vestiti. Sono stata violentata da molti di loro. E poi sono svenuta» racconta.
Poche ore dopo Nigest è stata soccorsa da alcuni abitanti del villaggio. «Mi sono lavata nel fiume. Mi hanno dato qualcosa per vestirmi perché non avevo più nulla. Poi sono fuggita a Makalé. È stato nel campo di sfollati che ho sentito parlare del centro Hiwyet» ci spiega.
Questo centro, situato in un quartiere residenziale tranquillo di Makalé, capitale del Tigrè, accoglie dall’inizio del 2023 le donne vittime di violenza sessuale durante la guerra (2020-2022). Dalla sua apertura, l’Associazione Hiwyet si è fatta carico di «quasi seimila sopravvissute, di età compresa tra i 5 e gli 80 anni» afferma la fondatrice, Meseret Hadush.
Con un bilancio di almeno 600 mila morti in due anni, secondo l’Unione Africana, il conflitto in Tigrè si è caratterizzato anche per l’entità delle violenze sessuali perpetrate da tutti i belligeranti, sia dalle truppe eritree ed etiopi sia dalle forze regionali amhara [2]. In totale, secondo le autorità regionali del Tigrè, circa 120 mila donne e ragazze, ovvero una donna tigrina su dieci, sono state vittime di violenza sessuale durante un conflitto in cui «stupri, stupri di gruppo, schiavitù sessuale e gravidanze forzate sono stati usati come armi da guerra» affermava già ad agosto 2021 un rapporto di Amnesty International.
Ci sono anche numerose testimonianze di atti di tortura, compiuti per esempio con «l’inserimento di oggetti taglienti, viti o pezzi di metallo, nell’utero delle donne» spiega Birhan Gebrekirstos, coautrice di Mekanit (strumento di tortura, in lingua tigrina), autopubblicato nel 2023. Ci racconta che in un caso «soldati eritrei hanno conficcato degli aghi nell’utero di una donna, rimasta incinta durante il conflitto, per farla abortire, provocandole un’emorragia e la morte del feto».
Per Gebrekirstos, ricercatrice presso l’università di Makalé, specializzata in questioni umanitarie, «l’obiettivo dei soldati è rendere sterili le donne e impedire così alla comunità tigrina di crescere». «Questi atti sono motivati da spirito di vendetta, immutato nonostante siano passati oltre vent’anni dalla guerra tra Etiopia ed Eritrea»: il conflitto che contrappose i due Paesi tra il 1998 e il 2000 [e continuò in sordina fino al 2018, ndt] e che, secondo Addis Abeba, causò quasi 70 mila vittime.
Le sevizie subite «distruggono completamente le vittime» afferma Gebrekirstos. «Molte donne che ho incontrato sono precipitate nella follia. Alcune non riescono a superare il trauma e alla fine si suicidano». I postumi fisici sono talvolta irreparabili. «Una donna incinta che ha subito un aborto forzato ha contratto un’infezione in seguito a un’emorragia e non è riuscita a farsi curare in tempo. Non è sopravvissuta» racconta la ricercatrice.
La firma dell’accordo di pace di Pretoria, a novembre 2022, tra il governo federale etiope e il Fronte di liberazione Popolare del Tigrè «non ha messo subito fine alle violenze sessuali» si legge in un’altra inchiesta di Amnesty International, pubblicata a settembre 2023, che riporta testimonianze di donne del sottodistretto di KobobTsibah, nel Tigrè settentrionale, vittime di violenza dopo la firma dell’accordo di pace. Negli ultimi mesi Hiwyet ha infatti raccolto «molte donne provenienti dalla parte orientale della regione, violentate recentemente da soldati eritrei» afferma la fondatrice dell’Associazione, Hadush. «Al momento, ogni settimana circa 15 sopravvissute bussano alla nostra porta » aggiunge.
Dati e migliaia di storie sordide che, a oltre due anni e mezzo dalla fine della guerra, non trovano alcuna eco presso le autorità etiopi ed eritree. «Nessuno vuole affrontare il flagello degli stupri in Tigrè» denuncia Meaza Gebremedhin, attivista e presidente di Haranbee Collective, ONG che si occupa di salute sessuale e riproduttiva. «Per le autorità federali significherebbe riconoscere il coinvolgimento dei loro soldati nella violenza contro le donne» prosegue l’attivista. «Quanto ai responsabili regionali, è evidente che ricostruire la vita delle vittime non è tra le loro priorità. La crisi di leadership che scuote il partito e l’amministrazione provvisoria satura ogni spazio».
«Siamo molto soli» conferma Hadush. «Lo ammetto, talvolta è molto dura continuare, bisogna trovare finanziamenti e possiamo contare solo su noi stessi. Ma se ci fermiamo chi si occuperà delle sopravvissute?»
Nel centro di Hiwyet, finanziato con denaro proprio e campagne di raccolta fondi, le vittime ricevono innanzitutto assistenza medica. «Quando arrivano, molte hanno ustioni che devono essere curate in ospedale» spiega Hadush. «È così che i loro aguzzini le puniscono per aver opposto resistenza allo stupro ». Segue un supporto psicologico, con sedute psichiatriche e gruppi di ascolto, di almeno due mesi.
A volte a queste sedute vengono invitati anche sacerdoti ortodossi. «Ci sono stati casi di donne violentate nelle chiese con il consenso del sacerdote. Quando arrivano da noi, queste vittime sono convinte di aver subito lo stupro per volontà di Dio. Occorre molto lavoro per togliere questa idea dalla loro mente» ci racconta la fondatrice di Hiwyet.
Se le ospiti del centro lo desiderano, possono seguire un percorso formativo, finanziato da Hiweyt, nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato o del commercio. Al termine della formazione, ricevono dal centro 60 mila birr ciascuna, cioè 375 euro circa, per mettere su un’attività in proprio e «conquistare l’indipendenza».
È un gruzzolo considerevole, tenuto conto che, secondo una ricerca dell’Organizzazione Mondiale del Lavoro, lo stipendio medio in Etiopia ammonta a tremila birr al mese, pari a poco meno di 20 euro. «La maggior parte delle sopravvissute viene rifiutata dalle famiglie, che non accettano che siano state violentate. Quindi lavorare, essere economicamente indipendenti è indispensabile alla loro ricostruzione», spiega Hadush.
Tseday, esile giovane donna arrivata qui in cerca d’aiuto diversi mesi fa, è ancora lontana da questo traguardo. Quando è scoppiata la guerra, questa madre di due bambini, che ha chiesto l’anonimato, viveva con il marito nella regione di Oromia. «Nel giugno 2023 abbiamo deciso di partire perché, in quanto tigrini, era impossibile continuare a vivere lì» ricorda Tseday. Sulla via dell’esilio, nella regione di Afar, la famiglia è stata arrestata «da soldati dell’esercito federale». «Prima hanno violentato me, poi mia figlia di due anni. Poi hanno ucciso mio marito e fatto a pezzi il suo cadavere davanti a noi. Ci hanno costretti a guardare» racconta, asciugandosi una lacrima con il foulard bianco che porta sulle spalle.
Tseday e i suoi figli sono stati poi rinchiusi in una cella, vicino alla città di Semera, nella regione di Afar. «Siamo rimasti lì un anno. Tutti i giorni un soldato mi violentava. A volte era un eritreo a volte un membro delle forze amhara. Poi un giorno l’esercito del Tigrè è venuto a liberarci. Ho trovato rifugio in un campo per sfollati a Makalé». Tseday e i suoi due figli ora sopravvivono in questo campo, grazie alle distribuzioni di generi alimentari.
Per Hadush, la ricostruzione di queste donne dovrà «passare un giorno anche dalla giustizia». «Stiamo documentando il più possibile i fatti per costituire un dossier. Porteremo le storie delle sopravvissute davanti alla Corte Penale Internazionale perché qui sarebbe fatica sprecata. Per tutte le vittime di stupro riconoscere questo trauma fa parte del processo di guarigione» continua la fondatrice del centro.
Dalla fine della guerra è stato avviato un solo procedimento legale per gli stupri commessi durante il conflitto in Tigrè, a settembre 2024. La denuncia è stata presentata al procuratore federale tedesco da otto sopravvissuti, uomini e donne. Alcuni di loro ora vivono in Germania.
A Makalé, Tseday entra ed esce dall’ospedale per farsi curare le ferite. «È ancora difficile per me, ad esempio faccio molta fatica a camminare in città, in mezzo alla folla» ci confida, accarezzando il suo recente tatuaggio sul collo, una croce ortodossa circondata da un rosario. «Ma sento di migliorare sempre più. Non ho scelta, lo faccio per i miei figli».

[1]
La guerra del Tigré (regione nel nord dell’Etiopia) è scoppiata a novembre 2020 tra la regione ribelle del Tigrè e il potere del primo ministro etiope, Abiy Ahmed, appoggiato dall’Eritrea. Nel 2018, dopo venti anni di conflitto frontaliero, Eritrea ed Etiopia si riavvicinarono. Ma la pace storica si trasformò rapidamente in alleanza tra l’etiope Abiy Ahmed e il presidente eritreo, Isaias Afwerki, che unirono le forze per attaccare Tigrè, tigrini e il loro partito, il Fronte di Liberazione popolare del Tigrè (TPLF). Ndt.

[2]
Milizie popolari di autodifesa dell’etnia amhara che durante il conflitto del Tigrè hanno dato manforte alle forze federali etiopi. Nello scorso mese di marzo hanno però preso le armi contro il governo etiope perché Addis Abeba intende disarmarle. Ndt.

 


20 luglio 2025

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ABITARE SU TUTTI GLI OCEANI

A bordo della Mayflower III, dove il viaggio non finisce mai

È lunga 988 metri e al mondo non c’è bacino abbastanza grande per impostarvi lo scafo. Che è stato costruito a rocchi di circa cento metri, sigillati alle estremità. Li hanno varati singolarmente, poi saldandoli tra loro e togliendo i tappi una volta in acqua. Da lontano sembra una portaerei immensamente elevata sul livello del mare, perché il ponte è sgombro: vi atterrano aerei executive, dunque di stazza multipla rispetto ai jet delle portaerei militari. Non è naviglio escursionistico, ma immobiliare. Sì, l’aggettivo è pertinente perché la Mayflower III è merceologicamente unica nel suo genere: trasporta esclusivamente croceristi stanziali o quasi. Non affitta cabine ai turisti, ma vende appartamenti a miliardari a residenza e domicilio multipli. Possono risiedere e lavorare a New York o a Hong-Kong, e saltabeccare tra svariati domicili, tra cui questa nave. O abitarci stabilmente, giacché la città-navigante è imbottita di multi-mega-servizi che lo consentono. Compresi ospedale da trapianti cardiaci, borse mobiliari e merci operativamente connesse alle cinque grandi terragne. E una panoplia militare capace d’intercettare tutto che voli, navighi o minacci da riva.
A pretesto di un pescaggio che la esclude da tutt’i porti passeggeri e mercantili del mondo, non vi attracca mai. Dunque nessuna polizia può salirvi a bordo. L’abbordasse, non potrebbe violarne l’integrità territoriale dello Stato presso cui è registrata: Panama.
Allora i miliardari come s’imbarcano a casa loro? Con aereo privato. In ogni momento e ovunque si trovino, consultano sull’app la posizione attuale della Myflower III e decidono se appontarvi subito o aspettare qualche giorno, in attesa che il continuo circumnavigare della nave l’approssimi a coordinate più comode. Se invece, una volta a bordo e in prossimità di città rivierasche, desiderano visitarle, trasbordano sui motoscafi d’altura di corredo alla nave e simili a quelli dei contrabbandieri di droga che fanno spola nei Caraibi.
Da 18 mesi che naviga, la Mayflower III non ha mai accolto a bordo altro che miliardari residenti (e gli 850 dipendenti, ovvio); mai un poliziotto, mai un giornalista, mai altro curioso comunque camuffato. Tutto vi è top secret, dall’identità di proprietari e servitori alle dotazioni di sicurezza. È il tempio della riservatezza, l’empireo dei Padroni del Mondo, l’apoteosi dell’extraterritorialità, il mitico Buen Retiro di riservatezza agognato da ogni popolano incatenato nella vetrina affacciata sulla Piazza Pubblica Opinione e sempre inquadrata dai tutori di quell’ordine di cui molti residenti della Mayflower III sono mandanti, ma al quale si sottraggono.
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18 luglio 2025

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DIALOGO TRA ORSI SULLE PENDICI DELL’HIMALAYA

Trump guata lo yeti

Il plantigrado azzurro, da sempre leggendario tutore dell’impero cinese sul tetto del mondo, oggi assurge a elemento di saturazione delle intese Est-Ovest avviate da un decennio in Ucraina e da un biennio in Bhutan. Il baratto qui in premio: Pechino si riprende finalmente Formosa mentre il tandem Usa-India piazza il piccolo Stato-cuscinetto, in versione Silicon Valley, a ridosso del Tibet.
Analisi.

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STAMPA ESTERA
Le Monde 13 luglio 2025

Tra India e Cina il Bhutan cerca un futuro sostenibile

Incastrato tra i due giganti asiatici, il piccolo regno himalayano ambisce creare un polo regionale per l’innovazione tecnologica sostenibile. Il progetto gli garantirebbe una base economica.

di Bruno Philip
inviato speciale a Haa, Paro, Thimphu

traduzione di Rachele Marmetti

In questa soleggiata mattina di aprile una grande folla attende il re, nei pressi dello dzong di Paro, fortezza monumentale che domina la pista dell’aeroporto della città, unico punto di accesso aeroportuale al regno himalayano del Bhutan. È un giorno di giubilo: all’esterno del grande edificio d’aspetto medievale, difeso da alte mura bianche, monaci mascherati si preparano a danzare e volteggiare durante lo Tsechu, il grande festival annuale dedicato agli insegnamenti di Padmasambhava, il venerato fondatore del buddismo tibetano.
Donne sfavillanti avvolte nel kira, pezzo di stoffa avvolto attorno al corpo; uomini stretti nel gho, una sorta di tunica che si strige attorno alla vita lasciando le gambe scoperte; una grande thangka di seta, svolta lungo il fianco di una collina, che raffigura l’immagine del bonario Padmasambhava, il grande santo che, secondo la leggenda, nell’VIII importò la religione dell’Illuminato in Bhutan, cavalcando una divinità trasformata per l’occasione in tigre volante… Sotto un sole cocente, a 2.400 metri di altezza, lo scenario del Tsechu è quasi onirico e dà al viaggiatore la sensazione di essere sì in Tibet – situato poco più a nord – ma in un periodo precedente l’invasione cinese del 1950…
Benché ansioso di affermare la propria specificità, il Bhutan rimane tuttavia fortemente influenzato dalla pluricentenaria civiltà tibetana. Il regno condivide con il vicino una lingua appartenente alla stessa famiglia linguistica e la stessa religione – il buddismo di Vajrayana, praticato in Tibet – oltre a una serie di tratti culturali affini.
E all’improvviso ecco il re. Sua maestà Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, 45 anni, incedere flessuoso, fende la folla allineata dietro semplici nastri di tessuto. «Buongiorno a tutti! Siete qui da molto tempo? Siete di Paro o venite da un’altra parte?» grida, senza rivolgersi ad alcuno in particolare. Il pubblico mormora pervaso di rispetto, le schiene curve davanti all’adorato sovrano. Il Bhutan è diventato una monarchia parlamentarenel 2008 – 47 deputati eletti a suffragio universale e un primo ministro nominato dal parlamento – ma l’istituzione reale continua a essere oggetto di un culto senza pari.
«Portateci due sedie, un tavolo e del caffè» chiede poco dopo Sua Maestà, ricevendoci nel grande cortile dello dzong per un’intervista del tutto inaspettata: dalla sua incoronazione, nel 2006, il sovrano non ha mai concesso un’intervista alla stampa. Sorriso smagliante e fisico da rock star, capelli impomatati “alla Elvis”, l’ultimo re dell’Himalaya è un uomo dinamico che porta bene i suoi quarant’anni e più.
Jigme Khesar Namgyel Wangchuck ha un sogno. Ed è un sogno che occupa tutti i pensieri del re di Druk Yul, la terra del Dragone Tonante, nome ufficiale del Bhutan, noto per le tempeste talmente violente da sembrare di sentire il ringhio del mitico animale. L’obiettivo è nientemeno che costruire nella pianura al confine con l’India, nel sud del Paese, una città del futuro, che combini buddismo e capitalismo, energia verde e profitti finanziari, utopia urbana e piattaforma industriale per l’Asia meridionale.
Il progetto è un modo per affermare la propria peculiarità da parte di un regno che ha le dimensioni della Svizzera e una popolazione di appena 800 mila abitanti. La sua collocazione geografica, tra Cina e India, lo rende cruciale per i due giganti demografici del pianeta. Nonché, potenzialmente, un punto caldo della “guerra tiepida” e persistente tra Pechino e Nuova Delhi, la cui disputa di confine sull’Himalaya ha dato origine negli ultimi due anni a fiammate di violenza tra i due eserciti.
Già il nome del progetto di questa città da sogno – battezzata Gelephu, ovvero Città della consapevolezza, una forma di meditazione buddista – illustra la filosofia alla base di un progetto che vuole essere anche economico: se da un lato si vuole dare forma a una sorta di utopia urbana in linea con l’ossessione nazionale di preservare la cultura e l’identità del Bhutan, dall’altro è importante, agli occhi del quinto re della dinastia Wangchuck, fondata nel 1907, spingere il regno verso una nuova fase di sviluppo. Questo sviluppo dovrà essere «sostenibile», valore cardine per un Paese così attento alla preservazione dell’ambiente.
Sua Maestà è inesauribile sull’argomento. A Thimphu, la capitale del Paese, a meno di un’ora da Paro, una giovane bhutanese che lavora nel settore delle comunicazioni ci ha detto maliziosamente: «Si dice che Sua Maestà, completamente concentrata su Gelephu, non riesce a dormire la notte».
Il progetto del giovane monarca è a lungo termine: abbraccia diversi decenni. Gelephu è così strettamente associato al futuro del Paese e alla sua volontà di coniugare dimensione spirituale e successi più tangibili, che il re inizia l’intervista definendone il quadro concettuale: «Spesso dobbiamo lasciare che la provvidenza decida per noi, ma dobbiamo anche essere pragmatici, quando è necessario»,«ma attenzione, il pragmatismo non basta! Non garantisce il successo…» continua sorridendo. Il sovrano bhutanese sembra ben consapevole che il compito che lo attende sarà arduo. Per il momento è alla ricerca di finanziamenti per creare Gelephu, la città che si estenderà su una superficie di 2.500 chilometri quadrati, nell’afa della pianura meridionale di un regno dove altrove l’altitudine non scende quasi mai sotto i 2.000 metri.
Le ragioni di questa passione del per questa città del futuro si spiegano forse con la sua psicologia e le sue radici nella storia dinastica.: «Il re è molto orientato verso l’innovazione e la modernità, da qui nasce l’idea di proporre questo concetto di città ideale, che gli consentirà anche di lasciare un’eredità prestigiosa che sarà ricordata nella storia del Bhutan» spiega un esperto straniero che ha entrature nel palazzo reale.
La prima delle innovazioni riguarderà lo statuto di Gelephu, che diventerà una «regione amministrativa speciale», sul modello di Hong Kong: una sorta di porto franco giuridicamente separato dal resto del regno. Per questo aspetto, il modello si ispira sia al diritto commerciale di Singapore sia alle agevolazioni transazionali di Abu Dhabi. La finanza al servizio della consapevolezza…
Sogno impossibile o idea geniale che potrebbe proiettare il piccolo regno verso una nuova modernità? Anche se il progetto è ancora in fase di elaborazione, il modo in cui è immaginata la “città del futuro” colpisce per l’inventiva: sarà alimentata dall’energia idroelettrica, di cui il Bhutan dispone in abbondanza grazie ai numerosi fiumi che scendono dall’Himalaya; avrà una diga a dir poco originale che ospiterà nella parete del bacino idrico un tempio buddista; sarà attraversata da ponti “abitabili” che permetteranno non solo di attraversare i fiumi, ma anche di lavorare, studiare, viverci. L’architetto danese Bjarke Ingels, una star della professione, ha pensato in grande.
Il portavoce del progetto, Rabsel Dorij, 39 anni, ex uomo d’affari nonché console onorario di Francia, non trova espressioni sufficientemente entusiaste per convincere della fattibilità nonché della necessita di questo ambizioso progetto. In un caffè alla moda di Thimphu, la capitale, che sta vivendo una fase di urbanizzazione accelerata, Doriji ci spiega che Gelephu deve essere vista «come un modello di sviluppo che avrà ricadute positive non solo sulle altre aree del Bhutan, ma anche per l’intero subcontinente indiano».
La vicina India sarà la prima a essere interessata, con la costruzione dell’aeroporto internazionale di Gelephu, al confine con lo Stato di Assam, destinato a diventare una piattaforma per il trasporto regionale. «La creazione di centri di istruzione di alto livello e di ricerca digitale in città, nonché di campus per l’innovazione serviranno non solo ad ancorare l’identità tematica della città, ma anche come piattaforme di scambio, di formazione e d’innovazione su scala globale, radicate nei valori e nei punti di forza del Bhutan» spiega Dorji. Vasto programma!
E non è tutto: l’aspetto industriale del progetto ne estende la dimensione d’innovazione urbana: l’idea è quella di «puntare alla fabbricazione di prodotti di alta gamma» nella futura area industriale adiacente alla città ci dice il re, mentre degusta il suo caffè nella placida atmosfera del cortile dello dzong, che oltre a essere un forte è anche un monastero. L’obiettivo è sviluppare anche un’industria ad «alto valore aggiunto» in tre settori: in primo luogo i prodotti a base di legno – il Bhutan è uno dei Paesi più decarbonizzati del pianeta, circa il 70% del suo territorio è coperto da foreste; poi il settore tessile per produrre abiti tradizionali bhutanesi, «eticamente» corretti; infine il settore alimentare, con l’obiettivo di produrre alimenti privi di sostanze chimiche.
«Va da sé» promette il re, «che Gelephu sarà un luogo alimentato interamente da energia verde e tutto sarà biologico». Altro dettaglio nient’affatto secondario, la città avrà una propria moneta, il ter, tesoro in dzongkha, la lingua nazionale.
A questa vertiginosa lista va aggiunto il ricorso, a dir poco paradossale, alle criptovalute per finanziare questa «città della consapevolezza». Una decisione che suscita mugugni a Thimphu, dove qualcuno, con discrezione, giacché nessuno oserebbe criticare apertamente una decisione regale, obietta che il ricorso a questo tipo di finanziamento è molto poco compatibile con l’insegnamento del Budda… L’uso di questa moneta però ha già dato i suoi frutti: attingendo alle riserve di circa un miliardo e trecento milioni di bitcoin, nel 2023 il governo ha potuto finanziare un aumento sostanziale degli stipendi dei funzionari.
Tuttavia alcuni specialisti avvertono che questa impresa innovativa e futurista non è priva di rischi. Un economista, basato in India, teme che «la creazione di questa zona esente da imposte e al di fuori della regolamentazione delle autorità monetarie bhutanesi possa trasformare Gelephu in una zona finanziaria grigia per il riciclaggio dei capitali finanziari».
Altro problema per un Paese la cui principale fonte di reddito è la vendita di energia elettrica all’India (95% della produzione), grazie alla sua grande capacità idroelettrica: «La stragrande maggioranza delle centrali è del tipo “ad acqua fluente” [impianti che sfruttano il flusso naturale del fiume, senza necessità di bacini di accumulo, ndt] e non dipendono da bacini idrici, quindi sono molto sensibili ai cambiamenti del regime idrico, amplificati dal cambiamento climatico, in particolare dallo scioglimento dei ghiacciai e dalle perturbazioni monsoniche» continua l’esperto. Tanto che durante il periodo estivo la maggior parte di queste centrali viene chiusa, costringendo il Paese a importare elettricità a base di carbonio… dall’India!» L’alimentazione di Gelephu con energia “verde” potrebbe non essere così agevole da realizzare.
Oggi avido di modernità, prima degli anni Settanta il Bhutan era un Paese isolato, ripiegato su se stesso, con rari scambi con i Paesi vicini. Fu il terzo re della dinastia, Jigme Dorij Wangchuck (1929-1972), ad aprirlo al mondo esterno. Come scrive l’etnologa e tibetologa Françoise Pommaret, «il terzo re della dinastia aveva ereditato un Paese in pace, ma aveva capito che il mondo stava cambiando e che se voleva sopravvivere il Bhutan non poteva continuare la sua politica isolazionista e doveva svilupparsi. Abolì la servitù della gleba, distribuì le terre dei grandi proprietari e dei monasteri, istituì un’assemblea nazionale e avviò il sistema di istruzione universale» (Bhoutan. Forteresse bouddhique de l’Himalaya, Olizane, 7^ edizione, 2018 – Bhutan. Fortezza buddista dell’Himalaya, non tradotto). Un’evoluzione non priva di problemi: quando il regno cominciò a socchiudere le porte, l’apparizione di una jeep nelle strade di Paro e Thimphu provocò la fuga della popolazione, spaventata da questo scoppiettante drago. Come ricordava il tibetologo giramondo Michel Peissel, che alla fine degli anni Sessanta attraversò l’intero regno da ovest a est, affrontando non poche difficoltà, «A quei tempi il Bhutan era ancora più misterioso del lato oscuro della luna» (Bhoutan. Royaume d’Asie inconnu, Arthaud, 1971 – Bhutan. Regno sconosciuto dell’Asia, non tradotto). Fu, Jigme Singye Wangchuck, quarto re incoronato nel 1974, l’artefice del passaggio dalla monarchia assoluta alla monarchia parlamentare, che fece conoscere il Paese al resto del mondo inventando il concetto di «Felicità Interna Lorda» (FIL), un indice per valutare lo sviluppo tinto di filosofia buddista. «Il FIL è più importante del PIL» dichiarò il re ben prima di passare il testimone al figlio, l’attuale sovrano, nel 2006. Il principio del FIL è semplice: invece di basarsi sui soliti indicatori economici per misurare lo sviluppo di un Paese, si tiene contro del benessere dei suoi cittadini. Questo concetto ha portato a una politica nazionale fondata su quattro pilastri: sviluppo economico sostenibile ed equo, tutela della cultura, protezione dell’ambiente e buon governo. Tuttavia la felicità non ha sempre prosperato nel Bhutan: negli anni Novanta, Jigme Singye Wangchuck impose, in nome della preservazione dell’identità nazionale e della lotta all’immigrazione clandestina, una bhutanizzazione culturale e linguistica, che portò all’esclusione della minoranza di lingua nepalese. Circa centomila nepalesi, considerati dal regno non idonei alla cittadinanza, furono espulsi o fuggirono, e infine languirono per anni nei campi profughi in Nepal. Le forze dell’ordine arrestarono successivamente molti militanti per la «causa nepalese», accusati d’insurrezione contro il re. Ad aprile le Nazioni Unite hanno chiesto il rilascio degli ultimi 32 prigionieri di origine nepalese ancora detenuti in condizioni «spaventose» dopo essere stati condannati per «vaghe accuse di terrorismo», secondo il comunicato dell’Onu. La stampa bhutanese ha sostenuto che se questi prigionieri non sono stati graziati, a differenza di altre decine di prigionieri, è perché sono accusati di «omicidio e profanazione di reliquie sacre». La minoranza etnica nepalese rappresenta ancora oltre il 30% della popolazione e la maggior parte dei suoi membri si è dissociata dalla militanza del passato e si ritiene ormai integrata. Più di recente, le autorità hanno avuto altro di cui preoccuparsi: durante la pandemia di Covid 19, quando il turismo è crollato e l’economia ha vacillato, decine di migliaia di giovani istruiti – circa sessantamila, pari al 9% della popolazione – scelsero di andare in esilio; principalmente in Australia. In un momento in cui la disoccupazione continua a colpire significativamente i colletti bianchi, il progetto di Gelephu mira anche a tamponare questa “fuga di cervelli”, rassicurando i giovani sul futuro del Paese.
Sul piano geopolitico, il contesto regionale rende il regno uno Stato dipendente dagli equilibri instabili che definiscono le relazioni tra i Paesi della regione: il Bhutan è stretto nella morsa tra la seconda potenza economica mondiale, la Cina, e il Paese più popoloso del pianeta, l’India. Una posizione resa ancora più complicata dalla relazione asimmetrica tra i due vicini: il Bhutan è economicamente, strategicamente e militarmente dipendente dall’India. Tanto da essere stato a lungo descritto come un protettorato di Madre India. Gli ambienti diplomatici affermano che la definizione non è più pertinente: il trattato indo-bhutanese di «pace e amicizia perpetua», firmato nel 1949, prevedeva che il regno accettasse di essere guidato in politica estera dall’India, ma questa clausola di dipendenza strategica nella revisione del 2007 è stata eliminata.
Ma Thimphu ha bisogno del suo vicino meridionale, tanto più che ha una disputa territoriale con la Cina: Pechino rivendica le valli bhutanesi di Jakarlung e Pasamlung, a nord, al confine con il Tibet, nonché l’altopiano di Doklam, a ovest, al confine con l’India. Cioè l’intersezione dove Cina, Bhutan e India si incrociano.
Questa vicinanza geografica tra rivali è sfociata nell’estate 2017 in un teso faccia a faccia tra gli eserciti cinese e indiano, durato oltre due mesi. Gli indiani varcarono il confine bhutanese per contenere l’avanzata cinese su un altopiano legittimamente e storicamente bhutanese, ma sotto l’occhiuta sorveglianza dell’India.
Il Paese del Mahatma Ghandi soffre infatti di un’ansia radicata nella sua geografia: se la Cina dovesse impadronirsi del Bhutan, potrebbe tagliare in due l’Unione indiana al Chicken’s Neck (Collo del pollo), stretta striscia di territorio che forma, a sud del Tibet cinese, un corridoio contiguo a Nepal, Bangladesh e Bhutan. L’India centrale si troverebbe così isolata dai suoi sette Stati nord-orientali che si estendono tra Cina, Bangladesh e Birmania. Nessuno in India ha dimenticato l’afflusso delle truppe cinesi dalle alture dell’Himalaya durante la guerra sino-indiana del 1962… Un ricordo che per Nuova Dehli rende ancora più cruciale il rapporto con il Bhutan.
Dopo lo scontro del 2017 gli eserciti cinese e indiano ritirarono le loro truppe dalle vicinanze della “trigiunzione” ma, secondo diversi giornalisti ed esperti indiani, i cinesi hanno continuato a rosicchiare terreno e costruito una ventina di villaggi nel territorio conteso. Questi villaggi hanno un duplice scopo, civile e militare. «I negoziati sino-bhutanesi sul confine proseguono» secondo una fonte ufficiale anonima di Thimphu. A fine maggio un libro bianco diffuso da Pechino ha confermato che i colloqui proseguono: «Cina e Bhutan hanno già tenuto 25 incontri per risolvere la questione dei 400 chilometri di confine comune».
Nel 2017 però l’“aiuto” indiano di fronte all’avanzata della Cina non fu accolto con favore da tutti, a Thimphu. «È importante chiarire che la narrazione convenzionale di un’India che viene in soccorso del Bhutan non è esatta» scrisse all’epoca il caporedattore del giornale The Bhutanese, Tenzing Lamsang, noto per la sua schiettezza. Secondo il giornalista, era in gioco «la sicurezza indiana» non quella del Bhutan.
Nessuno in Bhutan ha dimenticato che l’ex regno confinante, il Sikkim, fu annesso dall’India nel 1974, sicché alcuni temono che anche il loro Paese potrebbe essere inghiottito dal “grande fratello” indiano. «Siamo un Paese un po’ ansioso, sempre angustiato per la propria sopravvivenza» afferma Kinley Dorji, che è stato il primo giornalista professionista del Paese nonché fondatore della prima testata giornalistica bhutanese, Kuensel (Chiarezza), in un grande albergo che domina Thimphu.
La proclamata amicizia eterna con il regno non impedisce all’India di manifestare la propria ira, quando lo ritiene utile: nel 2013 il prezzo del cherosene importato dall’India, fino ad allora fortemente sovvenzionato, raddoppiò inaspettatamente quando l’allora primo ministro bhutanese, Jigme Thinley, osò parlare con il primo ministro cinese, Wen Jiabao, incontrato in Brasile a margine di un vertice internazionale sul clima…
I bhutanesi non serbano rancore al loro grande vicino. Non hanno scelta. «Mi creda, noi siamo e sempre saremo con l’India» assicura il ministro dell’energia e delle risorse naturali, Gem Tshering, nel suo ufficio a Thimphu, vestito con il suo gho, com’è regola per tutti i funzionari pubblici, i ministri e gli insegnanti; la difesa della cultura nazionale lo impone.
Qualsiasi menzione della Cina, e soprattutto di un possibile accordo con Pechino sul confine, a Thimphu sono invece tabù. «Si astenga persino dal dire che non ho voluto parlare della Cina» ci dice un ufficiale di alto rango dopo che gli è stato chiesto perché la regione autonoma del Tibet cinese è ora ufficialmente chiamata dal Bhutan Xizang, nome ufficiale dato al Tibet da Pechino. Con grande disappunto della diaspora tibetana in India e nel mondo. «Bisogna andare dove porta il vento» ammette a fior di labbra un alto funzionario. Ma solo dove va il vento cinese, ovviamente.
Nel suo bel palazzo immerso nelle pinete che dominano Thimphu, la sorellastra del re, Sonam Dechem Wangchuck, spiega la propria visione del dilemma bhutanese. «Una piccola nazione senza sbocco sul mare come la nostra, tra due grandi Paesi, è riuscita a forgiare la propria identità, non soltanto per sopravvivere, ma anche per prosperare» ci dice in un inglese compassato questa quarantatreenne, che ha conseguito un master in legge all’università di Harvard. Le parole del re fanno eco a quelle della sorellastra: «Poiché siamo situati tra le due “fabbriche del mondo” e due grandi mercati, dobbiamo distinguerci!» La soluzione? La città di Gelephu, naturalmente.
Ai confini del regno del Drago Tonante la situazione sembra essere bloccata in uno status quo progettato per durare. Mentre in questo pomeriggio piovoso viaggiamo in jeep, in direzione delle montagne avvolte dalla nebbia, l’altopiano del Doklam è invisibile. Ma si sa che, più a ovest, sul confine, ai margini di questo famoso territorio conteso tra Bhutan e Cina, i soldati indiani stanno sorvegliando dalle alture il regno e i suoi margini “rosicchiati” dagli avamposti dell’Impero di Mezzo. E alle nostre spalle, a est, ad Haa, capoluogo dell’omonima provincia, l’India ha allestito a ridosso della strada un centro di addestramento per l’esercito bhutanese, intorno allo dzong locale. Si tratta di una forza per ora modesta, circa diecimila uomini, in parte finanziata da Nuova Dehli. A un tornante la strada è interrotta da una barriera. Una femmina di yak osserva i viaggiatori con uno sguardo pesante. A tremila metri di altezza ad aprile fa ancora freschino. La barriera non ci consente di entrare. No trepassing (divieto di accesso) dice un cartello. Una caserma di soldati bhutanesi presidia il confine per chi non è né ruminante né allevatore né militare. Qui inizia un territorio misterioso, sconosciuto e precluso, dove si prolunga, in silenzio, la “guerra tiepida” tra India e Cina. Con il Bhutan in prima fila.

 


17 luglio 2025

TURISMO GENOCIDARIO

«Venghino a vedere il massacro dei pellerossa palestinesi»

Ai confini di Israele sono allestiti slarghi sopraelevati sui quali gli ebrei ma non solo salgono a osservare in diretta il lancio di bombe al fosforo e le mitragliate sugli abitanti di Gaza. Lo documenta Abu Amir su diverse testate, come Investigaction (investigaction.net).


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A 33 ANNI DALL’ASSALTO DEL BERLUSKA AL PRIMO GRUPPO EDITORIALE ITALIANO

Ritorno a Mondaland

di Scot

Il palazzo che l’architetto Oscar Niemeyer costruì per le Assicurazioni Generali a Segrate, sotto la pioggia dei gas di scarico dei jet dell’aeroporto milanese di Linate, ospitava anche l’Arnoldo Mondadori. Ci ritiravano lauta mercede 500 tra scribacchini e grafici, cioè i moderni tipografi, qui miracolati di un contratto giornalistico che non fu l’unica peculiarità contabile. La Monda sfornava svariate decine di periodici. Oggi la dispendiosa bizzarria di Niemeyer sembra una cattedrale nel deserto, spenta come fiera campionaria dismessa, un’Expo 2015 in sedicesimo.
Cronaca di una visita non-guidata, discreta ai limiti del virtuale.

[…]

 


16 luglio 2025

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ARABIA SAUDITA

Un supercarcere dove sono segregate e torturate donne colpevoli di aver disobbedito ai maschi

di Scot

A farle recludere sono padri e mariti. Persino suoceri, irritati perché le nuore hanno avuto l’ardire di accusarli di stupro. È un sistema medievale istituito negli anni Sessanta e all’oggi imperante, come nella prigione di Dar al-Reaya, che oggi viene rivelato al mondo da detenute che sono riuscite a evaderne e ad espatriare, alimentando un’inchiesta anche fotografica del quotidiano inglese The Guardian, che sunteggiamo.
Eppure, secondo il politicume italiano e i suoi pennivendoli, l’Arabia è Paese evoluto. Ai nostri (dis)onorevoli conviene parlarne bene perché stuoli di loro, affiancati da traffichini d’ogni conio, fanno la coda per offrirsi ai sauditi come mediatori, nel commercio delle armi e negli appalti a primari gruppi industriali.
Nel nostro infimo, contribuiamo ad attualizzare e italianizzare l’inchiesta inglese pubblicando
una prima, provvisoria lista degli italioti che, per soldi o per tornaconto elettorale o per entrambi, contribuiscono a censurare la barbarie d’una monarchia assoluta tra le più corrotte, feroci eppure osannata dalla repubblica nostrana.
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15 luglio 2025

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BOLOGNA

«Aiuto! Il nostro bambino è scappato di casa!»

Sono le tre del mattino e i benevoli, d’animo e d’ufficio, accorrono. Scoprono che il preteso fuggiasco ha passato la trentina e ha lasciato un messaggio: «Vado qualche giorno sulla Costa Azzurra con la mia nuova compagna». I tutori dell’ordine pubblico decampano, sia mai che verbalizzino l’illecito di procurato allarme, ma il caso fa risacca contro la psichiatria pubblica. Che allarga le braccia: «Abbiamo esaurito le risorse per affrontare la piaga dell’adultismo. I genitori che negano ai figli il diritto di crescere stanno diventando epidemici quanto quelli che li allevano, o se li ritrovano, incapaci di affrontare la vita». La patologica famiglia birbona non paga neppure la sanzione della vergogna, giacché le pudenda sono coperte dal silenzio-stampa.
Ecco come, da un banale caso di cronaca psichiatrica, sgorga il putridume d’un ceto sociale che ruota nel sistema prolare, nel duplice senso di focalizzato sul procreare e di ancorato all’incedere primitivo; un sistema popolato da dis-umani per i quali la loro propria discendenza è al centro dell’universo. «Mio Figlio è sole che viene prima di tutto, appena dopo i Miei Soldi». Sia lode alle Scritture Contabili.
Ritratto irriverente d’un archetipo familiare di fuori-di-testa.
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Smonda Gian Carlo Scotuzzi Mosca detto Scot www.giornaledibordo.org contatto

Anno XXVI