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Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
14 luglio 2025
® Articoli in abbonamento *
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BRESCIA, DINTORNI E REMOTI

Chéi del Circulì e Chéi dei s-ciòp

di Scot

Sono confraternite radicate nei secoli, ideologicamente antagoniste ma use a sbraccettarsi sino all’abuso in nome di speculari fini di pecunio. La prima (il Circolino, Circulì), aduna gli alleati nei Patti Loggensi (i Lateranensi locali, dal palazzo municipale della Loggia): finanza cattolica, imprenditoria comunque genuflessa, istanze culturali ed etiche laiche. La seconda, Quelli dei Fucili (s-ciòp), arruolata in una campagna di riarmo globale che gronda e ancor più promette dividendi da capogiro, rivendica, nei Patti, peso adeguato. Troppo, addirittura leonino, replicano quelli del Circulì, che richiamano in servizio il frate Arnaldo per connotare di santa crociata la propria offensiva di puro tornaconto. Il loro predicatore odierno tonitrua da pergamo di catacomba, che il popolobue non sappia, s’attavoli in trattoria o processioni lungo le rituali rotte turistiche, tanto i soldi restano alle agenzie viaggi e agl’immobiliaristi bresciani.
Ecco un abbozzo dei possibili sconvolgimenti economici, e incidentalmente elettorali, d’una faida che fibrilla i sismografi borsistici…

[…]

 

13 luglio 2025

 

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Divise

di Scot

Incontro nel Milanese un gendarme in motocicletta. Rutilante, bellissima, superba di testate laterali che paiono poppe da maggiorata, lucinerie natalizie sul manubrio, ci piloti anche un drone, sul culo svetta il pinnacolo della stroboscopica.
‒ Certo che non potete lamentarvi degli strumenti di lavoro che lo Stato vi fornisce…
‒ Ce ne darebbe di migliori, se i contribuenti pagassero le tasse.
‒ Già, maledetti evasori!
‒ No, maledetti noi tutti, che tolleriamo l’evasione.
Che eloquio delizioso! E palpitante sotto il tessuto blu-carabiniere! Mi sbrigo a provocarne il prosieguo.
‒ Per esempio, che c’entro io, che ho sempre pagato il fisco lavorando e continuo a mantenerlo da che sono in pensione?
‒ C’entra eccome! Forse non personalmente, ma come membro di un contesto che nel complesso fa poco o niente per bacchettare chi le tasse non le paga…
[…]

Biciclando nel Bresciano intoppo in un compagno di pedale, ozioso il mio, penoso il suo. Indossa gilet arancione. Sul sellino lo scatolone di legno, pitturato di giallo con gli spigoli di alluminio. Seduto su una panchina di parco, si fascia una gamba.
‒ Serve aiuto? ‒ chiedo ipocrita, sperando non serva. Servisse, troverei pretesto per negarlo.
‒ No, mi hanno regalato un libro che mi titilla. Oggi mi sono spossato di recapitare pappe sfiziose, insaporite dal mio sputo all’harissa ovvio. Negri di merda!
‒ Vorrai dire bianchi.
‒ No. Siete merdosi pure voi, ma odio più gli schiavi degli schiavisti. Toccherebbe a noi farvi vuori.
Occhieggio il libro che lo calamita al punto da pretestarsi infortunato e disdegnare pecunio vitale. La ferrovia sotterranea, di Colson Whitehead. Ecco il fomite della sua indignazione!
‒ Quando l’ho letto sono stato scosso… ‒ getto l’amo attraccando la bici.
‒ Vai a scuoterti da un’altra parte, non posso sprecare con te il mio tempo, mi costa caro.
Non oso chiedergli di squillarlo per registrare il suo numero. Scrivo il mio su un biglietto, che intasca rapido, concentrandosi sul libro aperto a trequarti.
‒ Se vuoi, dopo il lavoro, o la lettura, ci vediamo per una birra, abito nel quartiere ‒ sibilo, a volume perentoriamene discretissimo, Marlon Brando in Queimada.
Mi ha chiamato.
[…]

 

11 luglio 2025

 

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LE NUOVE FRONTIERE DELLA GIUSTIZIA DI CLASSE

L’imputato è condannato da un magistrato-robot

di Scot

Nel manoscritto di Nelso Pirocchi il presidente del tribunale è un androide vestito di tutto punto, come procedura comanda: toga, zimarra, tocco, collare e cordoniere. Sul petto ha tre fessure: qui il pubblico ministero inserisce la pennetta con le accuse, qui l’avvocato inserisce l’arringa, nonché gli estremi del trasferimento bancario, qui il giudice espelle la sentenza. Bell’e vidimata, digerita dalla cancelleria e comprovante al mondo la condanna inappellabile.
Simile procedura è espletabile anche on-line e l’esito universalmente riconosciuto dai 174 Paesi aderenti alla CEV, Convenzione Ecumenica della Giustizia. Gli Stati residui e riottosi alla C
GA, Civiltà Giuridica Automatizzata, saranno bombardati quanto prima, il tempo necessario a collaudare le ultime prodezze degli androidi militari.
La bozza di romanzo non ha nulla di avveniristico. Anzi, quando fosse stampato e issato su uno scaffale di libreria sarebbe sicuramente sorpassato dall’evoluzione del magistrato androide con le tre fessure. Il giudice di dopodomani sarà invisibile, immateriale e la procedura giudiziaria sarà tutta telematica e in tempo reale. A Milano Tizio spara a Caio, una telecamera l’inchioda, il cervellone unico mondiale basato a Longville (Minnesota, USA) lo condanna a morte, il satellite Jus-127, geostazionario sulla Lombardia, spara un laser letale e Tizio è pronto per essere recuperato dal VAPC (veicolo automatizzato prelievo cadaveri) e smaltito alla discarica del Parco Ticinello, che dista esattamente 5.103 metri dalla Madonnina di Piazza Duomo.
Vi sembra scenario orripilante e inaccettabile? Presto non più. Prendetevi il tempo d’impratichirvi, divertendovi, con il terminale d’IAU (Intelligenza Artificiale Unificata) installato sui vostri cellulare, pc, tablet, orologio satellitare e via elencando i ceppi volontari che indossate o di cui siete al guinzaglio telematico e tutto vi parrà splendido, rapido, lineare e facile come ogni altra risposta alle domande che il medesimo apparato risponditore vi stimola a formulare. Che comodità, che risparmio di tempo e di denaro, che levità esistenziale, che sgravio d’intelletto obsoleto! Il microschermo al polso ti mostra come arrivare allo stabilimento balnerare di Rimini prima ancora che tu decida di andarci! Chi voterai alle prossime comunali meneghine? Non chiedertelo: l’I
AU te lo suggerirà puntualmente tra due anni, al momento di andare ai seggi. Oppure non ti dirà nulla, se i Superuomini (o Superandroidi) di Longville valuteranno che ti conviene astenerti.
Che gran visionario, il Nelso Pirocchi! Ho avuto il privilegio di leggere il suo manoscritto, ne sono stato sconvolto e ho preso la bici per andare a intervistarlo: abita a 11,75 chilometri da me. Ma quando sono arrivato la smaltitrice lo stava caricando, destinazione digestore del Parco Ticinello. Ho riunito le dita a pigna, agitandola dinanzi al portiere singalese, in composta espressione di rassegnata mestizia. Mi ha risposto, scotendo il capo: «Era troppo visionario».
A me non pare proprio. Giudicate voi. Vi racconto il manoscritto assassino, del resto in lineare continuità persino con l’articolo di regime, francese e tutt’altro che eversivo, sotto riprodotto.

[…]

 

STAMPA ESTERA
da Le Monde 28 giugno 2025

 

Tecnologie digitali, elettroshock per le democrazie

Hanno rivoluzionato l’accesso allo spazio pubblico, ma il rischio di manipolazione intrinseco nel loro funzionamento, opaco e governato da pochissimi giganti della tecnologia, ne riduce l’evoluzione. O addirittura lo inverte, indebolendo paradossalmente il dibattito pubblico, a scapito delle nostre libertà.

di Marion Dupont

traduzione di Rachele Marmetti

Poco meno di un miliardo di domande… al giorno. Lanciato da OpenAI nel 2022, l’agente conversazionale [programma che simula un interlocutore umano, chatbot] Chat GPT – ha visto aumentare costantemente il numero di fruitori e, contestualmente, il numero di sollecitazioni ricevute. Come del resto Copilot della Microsoft, Gemini di Google e DeepSeek dell’azienda omonima. Questo incessante chiacchiericcio tra umani e macchine di solito avviene in sordina, nell’intimità di un browser o di un’applicazione digitale. Cionondimeno suscita una valanga di interrogativi. Gli umani vi si arrovellano: su giornali, riviste accademiche, saggi. Uno di questi interrogativi, ricorrente in diverse formulazioni, può essere sintetizzato così: L’intelligenza artificiale (IA) è uno strumento o una minaccia per la democrazia?
Le discussioni fervono. Alcuni intellettuali, come Jean-Gabriel Ganascia, professore alla Sorbona e fine conoscitore delle problematiche legate all’IA, pongono l’accento sui rischi che i modelli linguistici pre-addestrati su larga scala, gli LLM [Large Language Model] – la tecnica su cui si basano ChatGPT, Copilot, Gemini o DeepSeek e così via – finiranno per rappresentare per la qualità dell’informazione che circola nelle nostre società. Altri, come il collettivo di esperti della Fondazione Jean-Jaurès, che ha elaborato i contributi dei cittadini raccolti durante il Grande Dibattito Nazionale, promosso nel 2019 da Emmanuel Macron come risposta al movimento dei Gilet Gialli, elogiano le possibilità offerte da queste tecnologie per tener meglio in conto la voce degli elettori. Naturalmente, se l’argomento occupa così tanto spazio nei media è soprattutto perché i primi interessati, ovvero i protagonisti del settore delle tecnologie digitali, ve lo hanno introdotto per stimolare le vendite. Costoro si sono «affrettati a promuovere i loro prodotti enfatizzandone qualità supposte alimentare la democrazia» osserva Sébastien Broca, docente di scienze dell’informazione e della comunicazione all’Università Parigi VIII. Come spesso accade, è stata Apple a dare il la: nel gennaio 1984, per esaltare le virtù del suo primo personal computer, il Macintosh, l’azienda ricorse a uno spot pubblicitario che tirava in ballo George Orwell. Trasmesso in prima serata durante l’intervallo del Super Bowl, il clip raffigurava una società distopica in cui masse intercambiabili erano ipnotizzate da un Grande Fratello che, attraverso repliche di un unico schermo gigante, esaltava i benefici del pensiero unico. Ma ecco arrivava una giovane donna atletica, simbolo della modernità, che a colpi di martello mandava in frantumi questo monopolio ideologico. Lo slogan che accompagnava le immagini? «Ecco il principio della democrazia applicato alla tecnologia: una persona, un computer». All’epoca, l’informatica era ancora sinonimo di grandi sistemi, costosi e complessi, appannaggio delle burocrazie statali o private, quasi emblema di una società verticale e potenzialmente liberticida. «I produttori dei primi microcomputer sostenevano che la loro invenzione avrebbe permesso di democratizzare l’accesso all’informazione e dunque portava acqua al mulino della democrazia» spiega Broca.

Medicina e veleno

Lungi dal perdere vigore, l’idea che le tecnologie digitali diventino meccanicamente forze di democratizzazione conquista popolarità alla fine degli anni Novanta, con la diffusione di massa del web. Scrive Broca: «L’utopia internet», promossa dai difensori delle libertà digitali e dagli operatori del settore, si spinge persino oltre: «All’epoca, si nutriva la speranza che internet avrebbe permesso la formazione di un nuovo spazio pubblico, più democratico perché affrancato dalle vecchie istituzioni che ne controllavano l’accesso, in particolare i media tradizionali». Questo discorso progressista e ottimista rimane dominante fino alla metà degli anni 2010, momento cruciale in cui la tecnologia digitale comincia a essere ritenuta una minaccia. Una svolta favorita dal successo della campagna della Brexit del 2016, condotta in larga parte on-line, indi dalla vittoria a sorpresa di Donald Trump alle elezioni presidenziali americane pochi mesi dopo, infine dalla focalizzazione dei media su temi come le molestie informatiche e le fake news.
Medicina o veleno? Una griglia analitica facilmente riattivabile in quanto s’inscrive in una tradizione filosofica che, a partire da Platone, nel V secolo a.C., vede le tecnologie come pharmakon, termine greco che significa sia medicina sia veleno. Quando l’uso della scrittura si diffonde sempre di più nella società greca, che fino ad allora si era affidata essenzialmente alla cultura orale, Platone, già nel Fedro, si preoccupa degli effetti perniciosi di questa primordiale automazione del sapere. I filosofi Jacques Derrida (1930-2004) e Bernard Stiegler (1952-2020) introducono nel XX secolo questo approccio “farmacologico”, in antagonismo con la retorica che magnifica i benefici del progresso tecnologico. Questi filosofi insistono sull’ambivalenza della tecnica, i cui progressi implicano necessariamente una perdita.
Diventato luogo comune, il soppesare gli effetti prodotti da una determinata tecnologia su un dato sistema politico non è tuttavia ingiustificato, a condizione di conoscere la reale natura delle interazioni tra tecnologia e democrazia. «Secondo un’idea molto diffusa, ancorché problematica, le tecnologie avrebbero un effetto deterministico sul sistema politico, attraverso una sorta di effetto specchio: ad esempio, si pensava che internet, attraverso la sua forma di rete, avrebbe prodotto una società reticolare libera da macro-poteri» sottolinea Broca. La realtà è tuttavia più complessa.
Perché, a ben guardare, «le istituzioni della democrazia rappresentativa – tutti i meccanismi che consentono il dialogo tra rappresentanti e rappresentati – non sono state profondamente influenzate dalle tecnologie digitali» osserva Jade Meyrieu, ricercatrice di diritto pubblico. La digitalizzazione delle società non sembra aver prodotto grandi trasformazioni nelle regole e nei processi istituzionali democratici: il loro meccanismo fondante – il voto – rimane una questione di carta, buste, scatole e registri firmati a mano. Sebbene non siano mancati tentativi di introdurre il voto via internet per i cittadini francesi residenti all’estero o di usare macchine per il voto, «gli elettori rimangono molto legati alla materialità del rito repubblicano» osserva la ricercatrice.
Più che un capriccio nostalgico, questo disincanto deriva dalla natura delle tecnologie digitali: opache e complesse per i più, difficili da rendere sicure, hanno l’immenso svantaggio di alimentare il sospetto e la sfiducia dei cittadini, in un’epoca in cui queste passioni politiche godono già ottima salute.

Creazione di nuovi diritti

Tuttavia, consapevoli delle possibilità offerte dalle tecnologie digitali per influenzare le dinamiche democratiche, al di là del momento elettorale vero e proprio, i cittadini non esitano a sfruttarle in modi extra-istituzionali. Come spiega Meyrieu, «le tecnologie digitali hanno profondamente modificato i meccanismi che riguardano il controllo democratico, la contestazione, la mobilitazione dei cittadini». Gli esempi non mancano, dai siti web che verificano le promesse elettorali dei candidati alla possibilità di monitorare in diretta le presenze dei parlamentari all’Assemblea nazionale, passando per le Primavere Arabe del 2011 (chiamate spesso Rivoluzioni Facebook), la Rivolta degli Ombrelli a Hong Kong del 2014 e i Gilet Gialli del 2018.
Anche in questo caso però il quadro non è omogeneo: le forme di protesta tradizionali, come la sindacalizzazione e lo sciopero, non hanno beneficiato in modo particolare dell’avvento delle tecnologie digitali – o possono essere state addirittura eclissate dai nuovi canali di «democrazia continua», per usare l’espressione del giurista nonché docente di diritto costituzionale Dominique Rousseau. Sebbene queste nuove forme di mobilitazione e di protesta siano state facilitate dalle tecnologie digitali, non hanno ancora trovato uno sbocco democratico perché non sono istituzionalizzate.
Stessa disomogeneità nel campo dei diritti e delle libertà. «La libertà di esprimersi, di comunicare e d’intraprendere, o la proprietà intellettuale, hanno acquisito forza e sono state talvolta ridefinite secondo il metro delle possibilità offerte dalle nuove tecnologie. Al contrario, il diritto alla privatezza è stato notevolmente affievolito» afferma Meyrieu. Sono stati persino creati nuovi diritti per garantire maggiore certezza giuridica ai cittadini in un mondo digitalizzato: protezione dei dati personali e oblio digitale. Ma le possibilità offerte dalle nuove tecnologie alla sorveglianza dello Stato continuano ad allarmare i difensori delle libertà.
Se l’impatto democratico di queste tecnologie non si colloca né dal lato delle istituzioni né da quello delle contestazioni tradizionali è perché si trova altrove, più precisamente nelle conversazioni. «Le democrazie liberali sono delle repubbliche, cioè regimi della “cosa pubblica”» sottolinea Anne Alombert, filosofa e docente all’università Parigi-VIII. «E perché ci sia una cosa pubblica nelle nostre società, in altre parole affari pubblici, bisogna che ci siano tecnologie di pubblicazione che permettano la circolazione al loro interno delle informazioni e dei simboli». Poiché queste tecnologie simboliche o mnemotecniche strutturano lo spazio pubblico, organizzano il dibattito pubblico e plasmano l’opinione pubblica «sono costitutive della Repubblica e dei regimi democratici» osserva la filosofa.

Economia dell’attenzione

Concepite e costruite in un’epoca in cui le tecnologie editoriali erano essenzialmente letterali – in altre parole lo spazio pubblico era configurato dalla circolazione di testi attraverso supporti manoscritti o stampati, come lettere, giornali o libri – le democrazie liberali sono state dapprima messe alla prova, agli inizi del XX secolo, dall’irruzione delle tecnologie analogiche – registrazioni fonografiche e fotografiche, presto seguite da radio e cinema. «Le istituzioni educative si sono adattate male a questa nuova situazione tecnologica: la formazione dei futuri cittadini è rimasta incentrata sull’apprendimento della lettura e della scrittura, senza insegnare loro a decifrare e criticare i nuovi formati dell’informazione» osserva Alombert. «In particolare, la massiccia diffusione della televisione a partire dagli anni Sessanta, le cui tecniche di produzione sono poco trasparenti per il grande pubblico, ha ridotto la capacità delle persone di riflettere criticamente sulle idee e sui simboli che circolano nello spazio pubblico, rendendole quindi più dipendenti dai poteri politici e mediatici» continua la filosofa.
In questo contesto di dominio di media unidirezionali (nel senso che i destinatari dell’informazione non possono a loro volta produrla e diffonderla), possiamo capire l’effervescenza suscitata negli anni Novanta dall’arrivo del Web 2.0, noto anche come Web partecipativo, quello dei siti, dei blog e dei forum. Perché quelle che noi chiamiamo nuove tecnologie, tecnologie digitali, tecnologie dell’informazione e della comunicazione o, più semplicemente, la tech, sono tecnologie dell’editoria, al pari della scrittura alfabetica, della stampa o della televisione. «Improvvisamente, grazie a questi nuovi media digitali multidirezionali, il pubblico ha cominciato a produrre autonomamente i contenuti. A ragione si parlava di democratizzazione e di orizzontalizzazione: i cittadini comuni hanno fatto irruzione nello spazio mediatico» argomenta Alombert.
Come spiegare allora la già citata inversione di tendenza degli anni 2010 e l’insorgere di una forma di sospetto nei confronti della forza democratica delle tecnologie digitali? «Gli anni 2010 hanno visto una nuova mutazione all’interno di questi media digitali, prodotta dallo sviluppo di reti sociali (social network) commerciali (come Facebook, Twitter e TikTok) e di piattaforme di contenuti commerciali (come YouTube, Netflix, Spotify)» osserva la filosofa. Strutture basate sulla raccomandazione algoritmica, che è di per sé in contrasto con la dinamica avviata in precedenza.
Incaricati di selezionare dalla massa di contenuti pubblicati sulle piattaforme per renderne alcuni visibili e altri invisibili, questi algoritmi, nonché i criteri con cui operano, sono, di fatto, stabiliti e gestiti in modo opaco dalle imprese private che ne sono proprietarie. «Lungi dall’essere vettori di orizzontalità, le reti sociali attuali sono in realtà estremamente verticali nel funzionamento» sostiene Alombert. «Certo, può postare chiunque, ma è l’azienda a scegliere cosa sarà visto o non sarà visto nello spazio pubblico della piattaforma; questo pone un serio problema di pluralismo. Inoltre la libertà di esternazione è alla mercé di interessi privati, economici o politici». Basate su un’economia dell’attenzione, le piattaforme tendono anche a promuovere i contenuti più sensazionali e polarizzanti, con i ben noti effetti politici – quando non sono esse stesse direttamente al servizio di un’agenda politica, come X del miliardario Elon Musk.
Se gli anni Novanta avevano fatto sperare nell’avvento di uno spazio pubblico liberato dalle figure regolatrici, gli anni 2010 hanno visto il loro trionfale ritorno, e in versione peggiorata. «I vecchi gatekeeper [vigilanti d’accesso, tutori, ndt] del discorso pubblico, cioè i media tradizionali, hanno talvolta visto la loro influenza declinare. Ma lo spazio che si è aperto è stato rapidamente occupato dalle grandi piattaforme digitali, ossia da un potere privato oligopolistico che governa l’espressione on-line, costituito da una manciata di aziende americane» analizza Broca.

Sovvertimento dell’ambito della discussione

L’attuale strutturazione delle tecnologie digitali influenza il funzionamento del dibattito pubblico e, a un livello ancora più profondo, la formazione delle opinioni, osserva Fred Turner, storico americano dei media e docente di scienze della comunicazione all’università di Stanford. «Le ondate di rivoluzioni nelle tecnologie della comunicazione, che si sono susseguite dal XIX secolo, sono andate di pari passo con le rivoluzioni nel settore dei trasporti. Il telegrafo correva lungo le linee ferroviarie per collegare l’est e l’ovest dell’America; il cinema e l’automobile si sono sviluppati nello stesso periodo, così come la televisione è diventata di uso comune in concomitanza con i viaggi in aereo. Questi nuovi mezzi di trasporto e di comunicazione hanno ridotto drasticamente il tempo e lo sforzo necessari alle persone per vedersi e parlarsi: improvvisamente il mondo intero è diventato un unico e immenso spazio di deliberazione.»
Un sovvertimento dell’ambito della discussione non privo di conseguenze. Innanzitutto a livello spaziale: fino agli anni Ottanta lo spazio pubblico era costituito da media nazionali e da élite politiche nazionali. Un ambito che permetteva allo Stato di regolamentarlo. In Francia, negli anni Settanta e Ottanta, la massificazione della televisione sfociò in una legislazione che regolamentava il settore audiovisivo attraverso organismi come il Consiglio superiore dell’audiovisivo; come pure nella creazione di un servizio audiovisivo pubblico che, per garantire il pluralismo, non funzionava esclusivamente secondo la legge dell’Audimat [misurazione dell’indice di ascolto] e dei dati  dell’audience. «Tuttavia, questo ambito spaziale e giuridico oggi è sovvertito, o addirittura abolito, dall’attuale configurazione tecno-economica del digitale – in altre parole, la Big Tech, che cerca e spesso riesce a sfuggire a qualsiasi regolamentazione» osserva Dominique Boullier, docente emerito di sociologia a Sciences Po.
L’abolizione dei punti di riferimento temporali pone altri problemi. «Lo spazio pubblico dovrebbe essere un luogo di produzione di conoscenze specifiche, basato in particolare su un retroterra scientifico, e che dovrebbe consentire alla discussione e all’argomentazione di svilupparsi. Un processo che richiede tempo» spiega Boullier. Ma il modello tecnologico alimentato dalle piattaforme privilegia, per motivi pubblicitari, la reattività e la viralità. «Certamente permette a tutti di esprimersi e di partecipare, ma dal punto di vista politico non porta a nulla: il suo obiettivo non è la lenta costruzione di un interesse generale e di un mondo condiviso, ma la rapida generazione di profitti» avverte il sociologo.
E l’IA? Secondo i ricercatori, agenti conversazionali come ChatGPT rischiano di esasperare le difficoltà esistenti. «Le IA generative aggiungono a questa dispersione spazio-temporale una dispersione del reale, della realtà, persino della verità» aggiunge Meyrieu. «Nell’informazione che circola – testuale o audiovisiva – non sappiano più esattamente cosa sia reale o irreale, umano o macchina. La perdita di punti di riferimento è quindi più grave rispetto alle precedenti tecnologie.» «L’IA radicalizza problemi di pluralismo già prodotti da qualche anno dai grandi social network commerciali» afferma Broca. Con gli L
LM, il controllo esercitato da aziende come OpenAI, DeepSeek o Google su ciò che si può o non si può dire, su ciò che si può o non si può vedere diventa ancora più stringente.»

Effetti potenzialmente devastanti

Ma gli agenti conversazionali e i grandi modelli linguistici su cui si basano (LLM) potrebbero avere effetti propriamente democratici, ma potenzialmente devastanti. «Gli LLM producono risposte testuali sulla base di calcoli statistici, non vanno a cercare informazioni per poi esporre i risultati pertinenti: usarli come si usa un motore di ricerca pone gravi problemi di cattiva informazione, perché le risposte composte dalla macchina possono essere completamente sbagliate o parziali» sottolinea Alombert. Una tendenza che gli LLM possono anche alimentare fungendo da strumenti per la produzione e la diffusione di informazioni su scala industriale.
Soprattutto, l’impiego diffuso di agenti conversazionali in sostituzione delle ricerche sul web potrebbe innescare un importante sovvertimento cognitivo. Difatti, cercare informazioni utilizzando un motore di ricerca come Google, DuckDuckGo o Ecosia implica che, per navigare, è necessario formulare pensieri per selezionare i termini di ricerca più pertinenti e trasformarli in parole-chiave; implica valutare i siti web proposti in base a dei criteri, per esempio l’affidabilità, prendere decisioni,  attivare la memoria per navigare da una pagina all’altra, giudicare la qualità delle informazioni che ci vengono proposte… Facoltà psichiche, mentali e intellettuali che, secondo Alombert, gli agenti conversazionali non sollecitano: «ChatGPT produce pensieri preconfezionati e instaura un rapporto acritico con l’informazione, un rapporto di puro consumo: l’utilizzatore non decide nulla autonomamente». Infatti, nonostante le prodezze delle IA generative siano spesso osannate e le preoccupazioni per l’emergenza di una specificità autonoma siano spesso brandite, in realtà adombrano i rischi che l’uso più banale dell’IA comporta per le capacità critiche dei cittadini e che cominciano a essere documentati. «Bisogna chiedersi a cosa servono questi software» ammonisce Broca. «Cosa viene automatizzato? Competenze, come la capacità di ricercare informazioni rilevanti, organizzarle e tradurle in una riflessione argomentata. Abituandosi a usare questi strumenti, i cittadini rischiano di perdere gradualmente queste competenze politiche. Questo è il pericolo per una cultura democratica viva».
Sebbene possa sembrare paradossale che la facilitazione e la moltiplicazione della conversazione (tra esseri umani attraverso i social network e tra esseri umani e macchine attraverso gli agenti conversazionali) possano oggi indebolire il dibattito pubblico, i ricercatori ricordano che gli effetti delle tecnologie non dipendono tanto dalle loro proprietà tecniche quanto da poteri socio-economici che le distribuiscono e le impiegano. In fin dei conti «non è la tecnologia a preoccuparmi, ma lo stato delle istituzioni democratiche» confessa Turner. «Dobbiamo rafforzare le istituzioni in modo da poterle utilizzare per porre limiti umani alle macchine che sviluppiamo». Perché, in ultima analisi, è lo stato di salute delle democrazie in cui le tecnologie vengono impiegate a determinare se sono una medicina o un veleno.

 

9 luglio 2025

 

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SALUTE CEREBRALE E PROTESI FUNZIONALI

Intelligenza artificiale, parente ritardata della predittività

L’IA fagocita ricorrenze statistiche e le pesa. Ma non può far tesoro di aspirazioni inespresse né della visionarietà né di altri propellenti creativi, perché sono tutte sinapsi che la macchina non può né recepire né simulare. Qualche spunto per dare una sbirciatina al futuro, senza cui il passato è oscuro e il presente non ha senso.
[...]

 

5 luglio 2025

 

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PROGETTO DI LEGGE CONTRO CHI NON RISPETTA LA SALUTE, LA PROPRIA O LA PUBBLICA

Ammali per colpa tua? Ti paghi medico e medicine

di Scot

Se sai di avere una malattia che va peggiorando e non ti curi, addossi alla sanità pubblica i maggiori costi indispensabili ad affrontarla quando si aggraverà. La tua negligenza ha effetti peggiori nel caso di morbi infettivi.
Ma, benché tu ti comporti in maniera tanto dissennata e socialmente indifferente, oggi non rischi alcuna sanzione penale. Sei padrone di non avere alcun riguardo nei confronti della tua testa né del tuo corpo; sei libero di condurre una vita irresponsabile, sia per quanto riguarda te sia per quanto attiene il prossimo.
Forse non più: è nato il Movimento per la sanzione delle malattie dolose (MSMD), che ha redatto un progetto di legge finalizzato a mettere in riga proprio gl’irresponsabili come te. S’impernia su due articoli. Il primo: se non fai quanto in tuo potere per mantenerti in buona salute, quando ammali, o quando aggravi, paghi i danni. Esempio: se il medico ti mette a dieta perché tu, a forza di mangiare e bere senza ritegno, ti sei marcito il fegato e ti trovi i vasi sanguigni foderati di colesterolo, ecco che i farmaci e le terapie per bloccare il danno li paghi tu. Il secondo articolo: se oltre ad ammalarti, danneggi altri, per esempio condannando un parente ad assistere il tuo corpo o la tua testa debilitati a causa tua, commetti un illecito penale. Insomma ti mettono dentro. Considerato lo stato sanitario delle italiche galere, equivale a condanna a lenta, pardon, a rapida agonia.
Prospettiva infausta per mangioni e goderecci come te. Unica vostra speranza: siccome costituite la quasi totalità della popolazione e dunque, ancorché dissennati, siete democraticamente il popolo sovrano, è assai probabile che i legislatori ci pensino due volte prima di scontentare voi e loro stessi.
E adesso, saccheggiando la documentazione dell’MSMD, cerchiamo di supputare quanto pesa sulla sanità nazionale la vostra primaria ragione esistenziale: l’eccesso bibitorio e mangereccio.
(Chi scrive era come voi, prima di mettersi a dieta, un’ora fa.)
[...]

 

4 luglio 2025

 

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LA CORSA POPOLARE AI PROFITTI DI GUERRA

100 mila euro ai bombaroli di Stato e ne incasserai 150 mila

di Scot

Li chiamano Buoni di Sangue e durano tre anni. Sicuri: sono decantati dall’immancabile impiegato di banca e garantiti dall’inesauribili miniera della creduloneria, che illude i piccoli risparmiatori di profittare alla grande dell’immancabile vittoria sui nemici. Che pure hanno intenzione di arricchirsi.
Ecco tre manifestazioni esemplari della superiore furbizia della schiatta dell’Italia avida.

[…]

 

3 luglio 2025

 

Genitori Anonimi

di Scot

Come gli Alcolisti Anonimi, sono piagati da disperazione specifica, accentuata da scompenso diagnostico ma compensata da consapevolezza causale del patimento. Sanno benissimo di ritrovarsi con figliolanza inadeguata alle loro aspettative. Ma se ne ritengono i primari colpevoli. Non fanno che ribadire, a se stessi e al prossimo: «Abbiamo allevato nostro figlio in maniera sbagliata, non abbiamo saputo educarlo come avrebbe meritato, non abbiamo capito per tempo, accidenti a noi, che abbisognava non soltanto di amore, tolleranza, dedizioni, privilegi e attenzioni, ma anche di tutta la fermezza necessaria a farlo crescere dritto, volitivo, motivato, insomma svettante e frondoso e solido di radici profonde come una quercia. E adesso è arduo rimediare. Non ci resta che prendere atto della sua peculiarità, che pazientare che la prolungata fanciullaggine evolva in maturità».
In tanta autocritica non fa capolino il cuore d’una diagnosi autentica: «Nostro figlio non ha tronco d’altura, non ha legno da gran trave, è un cespuglio. Sempre di sana e pedigrata schiatta, ma destinato a eterno naneronzolo. In rigoroso contesto darwiniano verrebbe decespugliato qual sottobosco ladro di ossigeno e fagocitatore di humus».
Così si contentano, i poveri genitori conversi rei, d’imbrancarsi con altri genitori mal generanti nella stanza del pianto accanto a quella degli Alcolisti Anonimi. Diamoci del tu, simuliamoci fratelli di martirio sul golgota procreativo, parlarne aiuta. Purché nessuno sia mai blasfemo al punto da evocare diagnosi pertinente. Di terapia manco l’abbozzo: la debolezza caratteriale e la pochezza cerebrale sono tratti nativi. Se no Heller Hitler avrebbe fondato il Quarto Reich già negli anni Sessanta e almeno un rampollo di Albert Einstein ci avrebbe avvertito che l’universo nostrano ha invertito la fase espansiva e si accinge a stiparci tutti sulla capocchia dello spillo: che tribuleremmo a fare?
Compulso da tenerezza e da empito di carità cristiana una sera mi sono intrufolato nel gruppo dei Genitori Anonimi ‒ dei Nonni Anonimi, invero ‒ e insieme alla gazzosa e alle pizzette ho recato una parabola di mio conio. Tanto vale disilluderli in fretta, una botta e via.
Ho conosciuto una volta ‒ ho attaccato ‒ il signor Poldo, agricoltore che ambiva allevare un cavallo da corsa. Va al mercato e da mediatore di assoluta fiducia compra Lampo, puledro scattante e corvino, purosangue arabo, figlio d’una saetta del deserto che avrebbe trionfato su tutti gli ippodromi dell’ecumene se non avesse avuto la sfortuna di padrone ostile all’agonismo. Poldo accasa Lampo in una scuderia climatizzata, coi doppi servizi, piscina, stuolo di servi e specialisti e via elencando accessori e sussidi da campione predestinato. Poldo e la moglie Polda gli dedicano l’esistenza. Vivono per garantire eccelso presente e ancor più radioso futuro a Lampo, al diavolo il resto del mondo. Gli reperiscono i maniscalchi, gli stallieri, i veterinari, gli addestratori migliori.
Viene il giorno della sua prima corsa. In un circuito di provincia, per cominciare. Lampo arriva ultimo. No: s’infierisca il giusto. Non arriva mai, perché quando riesce a raggiungere il traguardo gli altri cavalli sono già in stalla e i giudici di gara seduti a cena. Poldo e Polda si disperano. Non per Lampo, cui non addossano colpa alcuna: Che sciocchi siamo stati a farlo gareggiare su un circuito tanto minore! Che indelicati a offenderlo, peggio, a umiliarlo spedendolo tra equini di basso ferro!
Ma da quel giorno Lampo perde tutte le corse. Eppure, i Poldi ne sono certi, è cavallo di gran razza. È sicuramente vittima del trauma della prima gara andata male. Allora i Poldi esasperano cure e attenzioni per Lampo, gli dedicano anche quelle componenti delle loro proprie esistenze da sempre ritenute non cedibili: la totalità del loro essere, del loro avere, del loro agire, del loro pensare, si ritengono pianetini di un sistema lampare che ruota attorno a Lampo. Finché, accasciati come larve sullo strame setoso Numero Cinque accanto a Lampo, sono scossi e rigenerati dalla battuta di un nuovo stalliere, appena uscito dall’istituto agrario: «Ma che ci fa qui un mulo?».
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2 luglio 2025

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EPIDEMIE VOLONTARIE

15 milioni di italiani depressi

di Scot

Varrebbero un elettore su tre, escludendo i minorenni, se non fosse che la stragrande maggioranza di loro non va a votare. Non partecipano neppure alle assemblee di condominio. Sono indifferenti alle sciagure e ai bisogni d’ogni prossimo.
Pessime stime li fanno ascendere a 20 milioni, ma a volte è arduo discernere il malato di mente egoista dal sano egotista, il debole dal codardo, essendo entrambe le genie accomunate da analoga ripulsa per la socializzazione, tratto saliente della civile convivenza, nonché da una vocazione al tornacontismo che sedimenta avversione verso ogni prossimo. A specchio di tanta miseria umana, v’è quella, non migliore, che se ne alimenta: psicoterapeuti e profittatori d’ogni risma, molti legalmente incensurabili.
Viaggio nella Penisola vocazionalmente malata e peggiore, che con la forza democratica dei numeri condiziona, abbrutisce, avvilisce e a volte ammorba la parte sana.
[...]

 

30 giugno 2025

 

LETTERE E TESTIMONIANZE
da una madre della Brianza

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Storia di Bea, che rima con Medea

di Scot

Nomi di protagonisti e di luoghi, nonché dettagli marginali sono alterati. La narrazione della narrante, orale, è stata sintetizzato dalla redazione, che ha accertato la veridicità dei fatti salienti.

Mi sento sull’orlo dell’abisso e prima di precipitarvi voglio illustrare, agli affetti che mi sopravvivranno e a quanti hanno voglia di ascoltarmi, il peso delle croci che il buon Dio ‒ gli umani lo perdonino! ‒ mi ha addossato.
Ho passato da poco la settantina e dall’età di 19 anni e sino alla pensione ho sempre lavorato in una grossa azienda, sicura come lo Stato. Ci lavorava anche mio marito, col quale ho avuto un figlio a 24 anni, Nico, giusto quattro mesi dopo il matrimonio. Celebrato alla chetichella. Ero magrissima e la pancetta risaltava. Eppoi non avevamo soldi per la cerimonia che avrei desiderato. Spedii la foto del matrimonio, celebrato in municipio, ai miei genitori, rimasti a Bari. Nico m’impose invece la presenza dei suoi, che fece venire dalla Liguria. Poi li accasò dentro il nostro appartamento in affitto di tre stanze. La mia prima notte di nozze fu accompagnata dal russio di mio suocero, che dormiva nella stanza accanto, «Bea, lasciamo le porte aperte, che scorra un po’ d’aria, questo caldo è soffocante», sbottò Cesare, con il tono lamentoso cui mi aveva abituata nei quattro anni di fidanzamento.
La convivenza coi suoceri fu da subito un inferno.  Cesare era una pasta d’uomo, ma debole da far spavento. Subiva le personalità di tutti, dai colleghi di lavoro ai vicini di casa, dal venditore di auto… insomma non  aveva personalità propria e subiva quelle di ogni altro. Perché lo sposai? Perché ero giovane, timorosa di tutto e non vedevo l’ora di lasciare la pensione delle suore dove non ero riuscita farmi un’amica che una. Non parliamo dell’ufficio, dove ero l’unica donna in una folla di biechi maschisti. Ma la prima, autentica croce mi cadde addosso quando Nico aveva un anno. Un pomeriggio d’inverno, mentre mi chinavo a metter legna nella stufa, mio suocero mi si accostò da dietro, mi afferrò per i fianchi e mi disse: «Bella mia, qui dobbiamo metter su un po’ di carne!». Fu l’esordio di una serie di attenzioni in crescendo, che mio marito ‒ altro peso sulla croce ‒ minimizzò: «Ma dài, Bea, una toccatina, povero vecchio, che vuoi che sia!». Tanta tolleranza incoraggiò mio suocero, che andò oltre, molto oltre. Finché, all’ennesimo assalto, misi Nico nel passeggino e andai dai carabinieri, che convocarono sia mio suocero sia mio marito. E mi tolsero di dosso questa prima croce, quantomeno ne scongiurarono le manifestazioni estreme. Ma il buon Dio ne aveva pronto il rimpiazzo. Mio suocero, nel frattempo rimasto vedovo, ammalò gravemente. L’ospedale ce lo mandò a casa dopo quindici giorni, perennemente allettato e bisognoso di assistenza e cure. Gli dedicammo tutto quanto i nostri stipendi, smagriti dal mutuo ‒ e dai problemi di Nico, di cui sto per dire ‒ consentivano: un’infermiera quattro ore al giorno. Per il resto dovevamo pensarci noi. Cioè io, che facevo miracoli per fare la madre, la casalinga, l’impiegata, l’infermiera.
La decadenza fisica di mio suocero non gli aveva spento del tutto gli appetiti sessuali, che spesso gli rigurgitano insieme a tutto il resto. Quasi sempre gli mettevo le mani e la lingua a posto, ma a volte ero talmente esausta e condizionata dai moniti di Cesare ‒ «su, Bea, un po’ di carità cristiana verso un povero vecchio cui restano pochi anni di vita! ‒ e abbozzavo. Una resa schifosa e umiliante. Cominciai a odiare mio marito, che scoprivo sempre più legato al padre che a me. Mio suocero campò altri 12 anni.
Fine del carcere domestico? No, perché andava sempre più incombendoci una nuova croce: Nico. Si era palesato psicologicamente fragile sin dal primo asilo. Ne usciva spesso piangente, lamentando prepotenze dai compagni. Peggio alle elementari. Una tragedia alle medie, dov’ero continuamente convocata per spegnere gl’incendi relazionali, soprattutto con gli altri genitori, provocati dalle reazioni di Nico ai soprusi dei compagni. Gracile, pauroso ed effeminato era sempre vittima predestinata. Subiva e subiva e subiva angherie con un’arrendevolezza che gli conoscevo e che, lungi dall’indurre a commiserazione, le incoraggiava. Quando non ne poteva più reagiva con tutta l’energia che la disperazione gli montava. Un giorno infilò la punta di una matita nella guancia di un persecutore, trapassandola. Un altro, ch’era stato rinculato in un angolo dei cessi da molte mani che reggevano carta igienica sporca di feci, brancò un mazzuolo, dal mucchio degli attrezzi lasciati dai muratori, e spappolò una bocca, svellendovi tre denti. Episodi terribili ma anche compensativi, in una madre che non si rassegnava alla patologica debolezza del figlio: mi dicevano che, se mostrava raramente di saper reagire troppo, forse avrebbe imparato a reagire il giusto sempre. Lo psichiatra infantile, che costava 200 mila lire a settimana, m’indusse a non coltivare illusioni. «Nico sarà sempre una personcina molto, molto delicata. La reazione squilibrata penderà sempre sulla sua testa come una spada di Damocle». Mi consolai pensando che un medico tanto arrendevole, e che ricorre a similitudine tanto banale, non poteva azzeccarci! Confidavo che Nico, crescendo, avrebbe prima o poi cavato la grinta!
Invece la spada ci cadde addosso a tutti e tre, la vigilia di iniziare il primo anno all’istituto tecnico. A cena Nico annunciò all’improvviso: «Io a scuola non ci vado più».
Avrei voluto dedicare subito la serata e poi tutto il tempo necessario a comprendere e neutralizzare il rifiuto di Nico, ma Cesare si confermò copia conforme dell’egoista che fu suo padre e sottrasse al figlio l’attenzione primaria che reclamava. Disse Cesare, reciso e infantile come Nico: «Io domani al lavoro non ci vado più».
‒ Che è successo?
‒ Mi hanno trasferito alla filiale di Botta.
Raccontò del litigio con il caporeparto, del quale si lamentava da anni.
‒ Se quegli stronzi pensano di relegarmi a riparare vecchie carcasse in quel fetido capannone…
Ma io ero incagliata sull’annuncio di Nico.
‒ Che vuol dire che non vai a scuola? È un po’ tardi per cambiarla…
‒ … e non è che sia dietro l’angolo, Botta, dovrei prendere due metrò e un tram per arrivarci…
‒ … insomma, Nico, che è successo? E tu piantala, Cesare, non ti rendi conto che c’è qualcosa di più urgente del tuo pendolarismo del cavolo?
Nico fu irremovibile. All’istituto non ci andò mai. Peggio: disdegnò ogni alternativa. Peggio: da quella sera rifiutò di uscire di casa. Si barricò nella sua stanza, evadendone solo per raggiungere il bagno in fondo al corridoio. Non uscì neppure per il funerale del padre. Neppure per venirmi a trovare durante le mie due degenze in ospedale.
Oggi Nico ha 48 anni; da 34 è socialmente inesistente. Per la pubblica amministrazione, per il vicinato, per i parenti. Quando sta male vado per lui dal medico di famiglia. Gli cucino, gli lavo e stiro, gli rassetto la stanza, gli compro di che vestirsi e tenersi in ordine. Chiamo il tecnico quando la postazione per i film e i videogiochi si guasta. Ci parliamo quasi a monosillabi. Mi rammarico di continuo per aver confidato anni fa a un’amica: «È come avessi in casa un cane, con la differenza che non posso neppure fargli le coccole. Se mi capita di sfiorarlo appena, scatta e freme e si ritrae come temendo contagio di lebbra».
Sere fa la gran botta. Ritiro dalla camera di Nico il vassoio della cena consumata.
‒ Era buono?
Grugnito.
‒ Domani ti prendo il sushi, va bene?
‒ Vermentino?
Grugnito più acuto, sull’ironico-riprensivo.
S’intenda: «Spero ti ricorderai di comprare il vino che solitamente accompagno al sushi e che la volta precedente hai scordato».
‒ Sì, vado a recuperarlo dal garage, dove l’ho dimenticato, così lo preparo in frigo.
Da tempo non facciamo una conversazione tanto prolissa e vorrei prolungarla un pochino, ma mi placca alla prima sillaba, senza parlare e senza neppure girarsi, gli basta roteare una mano dietro la schiena per significarmi uno sciò.
E in garage, dove non entro da due giorni, mi si profila un’altra croce. Raddrizzo uno scatolone stranamente scostato da quello a fianco e cade a terra un involucro di tela. Lo svolgo. Sangue sulla lama e sul tessuto. Sangue non totalmente rappreso. L’interrogativo ovvio e marginale ‒ com’è finito qui il coltello da caccia che Cesare si regalò decenni fa in Val d’Aosta? ‒ è subito soverchiato da quello centrale: Da dove viene questo sangue? Chi ha brandito questa lama?
Mi tornano le parole dello psichiatra: Reazione squilibrata! No, certamente non il mio Nico, che sarebbe il primo indiziato se non avesse l’alibi della reclusione volontaria permanente. Maresciallo, mio figlio è un hikikomori certificato, qualsiasi cosa sia accaduta lui non può c’entrarci.
A buio mi apposto dietro la porta spiragliata del soggiorno, guato in linea di mira con quella della camera di mio figlio. Aspetterò quanto serve. Già due volte ne è uscito per andare in bagno. A mani nude, dunque per rapido smaltimento di vino o birra. Non va bene, devo pazientare che s’inoltri in bagno reggendo l’I-pad, segnacolo di lunga e ordinaria seduta per uno che è ingrassato a 120 chili. Devo avere agio di ispezionare la sua camera.
[…]

 

29 giugno 2025

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MALASANITÀ A PAGAMENTO

Quando il medico sta peggio del paziente

Quelle che seguono sono 15 testimonianze di nostri abbonati, reduci allibiti da studi medici e da ambulatori privati di Milano. Le abbiamo redatte corredandole delle spieghe indispensabili a comprenderle e mendandole di dettagli marginali che avrebbero consentito l’identificazione dei sanitari protagonisti. Che, fosse l’Italia un Paese appena civile come il Burundi, non indosserebbero il camice bianco bensì la tuta arancione dei carcerati di lungo corso.

di Scot e Rac

1.
«Insieme a mio padre, attendiamo la chiamata fuori dallo studio del luminare, dal quale abbiamo prenotato la visita 34 giorni fa. Per una visita analoga nel più lesto degli ospedali pubblici avremmo dovuto attendere 260 giorni. Ma mio padre ha forti e crescenti dolori alle gambe, che sembrano salsicciotti, si muove a stento appoggiandosi al deambulatore, ingurgita di continuo antidolorifici. Questo specialista ce l’ha consigliato il medico di famiglia: «È bravissimo, andate da lui con fiducia». Non ci ha avvertito di quanto la sua parcella sia salata. Alla cassa della clinica abbiamo appena versato 400 euro. Mi pare uno sproposito, tenuto conto che, come ho dedotto dalla prenotazione telefonica e come ho appena avuto conferma da un’infermiera in transito, le sue visite sono cadenzate di 10 minuti. Noi siamo prenotati alle 16.10. Alle 16.40 il numero 14, il nostro, lampeggia sullo schermo alla parete. È il segnale di tenersi pronti, di fronte allo studio 7. Attendiamo in piedi, io appoggiata alla parete, mio padre ondeggiando sul deambulatore, capo chino e labbra serrata. Alle 17 la porta dello studio si apre, n’esce un giovanotto sorridente.
‒ Sono l’assistente del professore, che arriva subito, intanto entrate, prego. Sedetevi.
Anche lui siede alla scrivania, ignora la documentazione che vi deposito e ci parla mentre scrive al computer:
‒ Per cominciare, chi è il paziente?
‒ Mio padre ‒ e avvicino alla sua tastiera la documentazione che ho posato sulla scrivania.
‒ Sì, quella la guardiamo dopo…
Insiste a chiederci ‒ a chiedermi, visto che mio padre tiene il capo chino, palesandosi sofferente ‒ cose che potrebbe leggere ordinate nella cartelletta.
Alle 17 e 15 entra nello studio un camice bianco più anziano di mio padre. Sembra accasciato, deambula lento, il braccio sinistro flaccido e tremebondo come quello di un parkinsoniano. Ha il volto emaciato, sudaticcio nonostante l’aria condizionata, lo sguardo più che spento: vacuo, smarrito. Indossa pantofole felpate, che sbatte sul pavimento come non avesse pieno governo dei piedi, ha incedere cauto e lento, molto lento. Ci porge mano cascante, malparla come mal parlava mia nonna prima di mancare per un pelo il 92° compleanno, la voce è flebile:
‒ Piacere, sono il professor…
Si trasferisce alle spalle dell’assistente, vi si appoggia protendendosi e strizzando gli occhi per mettere a fuoco lo schermo. Il giovanotto volge il capo, volgendolo verso il professore ma senza distoglierlo dalla schermo. Gli comunica, a voce altissima ma in gergo per me criptico, locuzioni scientifiche. Il professore gliene replica altrettali, l’assistente deve ulteriormente arretrare l’orecchio verso di lui per coglierle.
Il professore inizia il viaggio di ritorno verso la porta. Trascorrendoci accanto ci riporge la mano cascante, accenna a un sorriso e a un inchino, esce, mentre frinisce la stampante accanto al computer.
‒ E allora? Quando il professore visiterà mio padre?
‒ Adesso glielo spiego.
L’assistente graffa un bel po’ di fogli. Li inserisce in una cartelletta con impresso il logo dell’Ambulatorio Medico ‒ un’immagine sacra non corollata, ma sormontata di stelline, uguali a quelle che connotano hotel e ristoranti d’alto prezzo ‒ e me la porge, continuando a ignorare mio padre, che del resto sembra non vedere l’ora di togliersi di qui.
‒ Ecco, signora, gli faccia fare tutti questi accertamenti e poi il professore potrà farsi un’idea ed eventualmente prescrivere una terapia.
‒ Li devo prenotare qui?
‒ No, signora, deve andare in un ospedale, vada dove le pare, noi siamo un ambulatorio di consultazione…
Un trillo, proveniente chissà donde, lo induce a puntare improvviso e lesto alla soglia, quasi sospingendocivi con mimica inequivocabile, anzi, quasi infilandoci.
‒ Prego, sono l’assistente del professore, venite avanti.
Già si rivolge alla coppia in attesa dopo di noi.
Sono le 17 e 24.»

2.
«Nell’ambulatorio della centralinissima clinica meneghina, dove due settimane fa ho prenotato una visita di controllo con il chirurgo che due anni fa mi tolse una neoplasia dall’addome, lo trovo in piedi, accanto alla scrivania dove sempre lo trovai seduto. Mi si presenta di nuovo, evidente dimentico di me, e mi presenta il camice bianco seduto al suo posto:
‒ Questo è il dottor… che mi dà una mano.
L’uomo seduto, coi capelli che sembrano impomatati, dimostra almeno trent’anni in meno del chirurgo in piedi, che trovo incredibilmente invecchiato. Lo ricordavo anche asciutto e segaligno, e invece eccolo con spallucce cascanti, deformato a pera come sedentario incallito, sbilanciato da adipe assai prominente.
L’impomatato dà un’occhiata al foglio di prenotazione che gli porgo, con ogni evidenza richiama la mia scheda sullo schermo, la scorre, annuisce di comprensione.
‒ Mi dica, qual è il suo problema? ‒ mi chiede il chirurgo.
Glielo spiego, mentre l’impomatato lo richiama silente a dare un’occhiata allo schermo del suo computer, che rotea appena verso di lui.
Il chirurgo ignora l’invito. Gli spiego perché sono qui: per sottopormi al secondo controllo annuale dopo l’intervento.
‒ Ma da quanto tempo le fa male?
‒ Mai, l’operazione sembra aver risolto il problema. Ma poiché lei aveva paventato la possibilità che la neoplasia benigna si riformasse…
‒ Sul lettino, a torace scoperto.
‒ Che è questa cicatrice?
Interloquisce l’impomatato, che stavolta si alza per dare autorevolezza alla propria esortazione:
‒ Ecco, professore, qui dall’ultima TAC si apprezza l’ottimale efficacia della termoablasione e l’assenza di complicanze…
Il chirurgo lo ignora e palpa i dintorni della mia cicatrice e comincia recitare un rosario di quesiti uguali, a raffica, senza attendere la mia risposta.
‒ Qui le fa male? E qui le fa male? E qui…
Alla fine:
‒ Può rivestirsi. Il dolore è un provvido campanello d’allarme. Se non sentissimo dolore non andremmo mai dal medico e senza di noi si muore.
Posa la mano sulla spalla dell’impomatato, inducendolo a sedersi.
‒ Cominciamo con una radiografia…
Gli detta una sfilza di accertamenti diagnostici. Prolunga lo sguardo su di me e chiede?
‒ Che lavoro fa?
Mi scappa un sorriso d’incredulità:
‒ Non si ricorda di me, professore? Mi ha visitato tre volte, mi ha operato… Ma sì! Sono il falegname che le ha sistemato la scalinata del soggiorno nella sua baita in Val d’Aosta! Mi offrì una cena in quel ristorante sul torrente…
‒ No, no, si sbaglia, non dimentico mai una faccia, non sono mica rimbambito. Torni quando avrà l’esito degli esami.»
[…]

 

28 giugno 2025

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SEMPRE PIÙ IMPERIOSO L’AUSPICIO DI CORNELIUS CASTORIADIS: SOCIALISMO O BARBARIE

Se questo robot mi legge nel pensiero…

… ho il diritto-dovere di esigere sia controllato e gestito dallo Stato, o rischio di farmi espropriare della mia autonomia critica, della mia riservatezza e della mia dignità. E dunque della mia libertà.
[…]

 

STAMPA ESTERA
da Le Monde Sciences 25 giugno 2025

 

L’etica di fronte all’ebbrezza delle nuove tecnologie

In un’intervista incrociata i neurologi Robert Knight, dell’università Berkeley, e Hervé Chneiweiss, dell’Inserm [Institut National de la Santé et de la Recherche Médicale, Istituto Nazionale per la Sanità e la Ricerca medica], discutono delle implicazioni sociali delle nuove tecnologie che ci permettono di leggere nel pensiero dei pazienti per restituire loro la parola o il movimento, ma di cui imprese o Stati potrebbero fare un uso eticamente scorretto.

di Laure Belot e Hervé Morin

traduzione di Rachele Marmetti

Dopate dall’intelligenza artificiale (IA) e dalla microelettronica, le neuro-tecnologie stanno vivendo un notevole sviluppo. Questi dispositivi registrano l’attività cerebrale per mezzo di impianti intracranici o grazie a ricettori non invasivi, spesso applicati alla testa con una fascia. Le informazioni raccolte, denominate “dati neurali”, sono tradotte in movimenti di bracci robotizzati, in parole e in immagini, anche animate, ritrascritte da computer. Alcuni apparecchi possono persino stimolare e modulare l’attività dell’encefalo e del midollo spinale. Ogni settimana si susseguono annunci su questi scambi tra il sistema nervoso centrale e la macchina.
L’ultima prodezza: una neuro-protesi, descritta il 12 giugno sulla rivista Nature, sintetizza il linguaggio in modo quasi istantaneo, ossia con un ritardo di dieci millisecondi. Un paziente affetto dalla malattia di Charcot, privo della parola, ha potuto esprimersi grazie a 256 micro-elettrodi impiantati nel suo cervello. Dopo un lungo addestramento, un’IA ha imparato a decodificare i segnali cerebrali mentre il paziente leggeva mentalmente, poi ha imparato a trascrivere quello che il paziente voleva dire, infine persino l’intonazione. La voce artificiale riproduce la sua voce reale, grazie a registrazioni audio antecedenti la malattia. Questi risultati, realizzati da un’équipe dell’università della California di Davis, condensano due decenni di progressi nelle neuro-protesi.
La lettura del pensiero è ancora una sfida tecnica, ma non è più utopia. Permette innanzitutto di aiutare pazienti affetti da un’ampia gamma di malattie e disabilità. Ma alcuni patrocinatori delle interfacce cervello-macchina le stanno già utilizzando al di fuori della medicina: nell’istruzione e nel mondo del lavoro, per incrementare le performance umane e non solo per riparare o rimediare a determinate carenze.
Elon Musk non faceva mistero di queste ambizioni transumaniste già nel 2016, quando fondò la società Neuralink. A maggio 2023 quest’azienda ha ottenuto dalla Food and Drug Administration – ente responsabile della regolamentazione dei trattamenti medici negli Stati Uniti – l’autorizzazione a sperimentare impianti cerebrali sull’uomo, senza alcuna pubblicazione preliminare su riviste scientifiche di valutazioni di scienziati del settore [peer review, ndt]. Una situazione senza precedenti.
Questi recenti sviluppi stanno alimentando riflessioni etiche e proposte di regolamentazione. E a buon diritto: si tratta di tecnologie che sondano il nostro organo più prezioso, la sede dei nostri pensieri più intimi, dove si forgiano le nostre convinzioni e da cui scaturiscono i nostri comportamenti.
Le neuro-tecnologie usano ogni mezzo. L’IA è già mobilitata, il computer quantistico già arruolato, talune università americane già offrono seminari che combinano quantistica e neuroetica.
Le istituzioni internazionali stanno prendendo posizione. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), che già nel 2019 si era occupata del tema, ad aprile 2024 ha aggiornato le proprie raccomandazioni per uno sviluppo responsabile delle neuro-tecnologie. In occasione della Conferenza generale di novembre, l’Unesco presenterà le proprie raccomandazioni sull’etica delle neuro-tecnologie ai suoi quasi 200 Stati membri, esortandoli a trasformarle in regolamenti o leggi.
Abbiamo chiesto a due esperti, l’americano Robert Knight e il francese Hervé Chneiweiss, di discutere di questi temi. Knight, neurologo e ricercatore in psicologia e neuroscienze presso l’università della California a Berkeley, è stato pioniere delle registrazioni cerebrali intracraniche. Ha fondato diverse start-up, tra cui una che utilizza fasce frontali per migliorare il sonno. Chneiweiss è neurologo e neurobiologo, nonché presidente del Comitato etico dell’Inserm. Ha partecipato ai lavori dell’OCSE e ha presieduto il comitato che ha elaborato le raccomandazioni dell’Unesco.
Intervista incrociata.

Nel campo della neuro-tecnologia i progetti di ricerca accademici e privati, nonché le applicazioni si moltiplicano a ritmo vertiginoso. Esiste un deficit di regolamentazione?

Robert Knight: Nelle università americane se ne occupano i comitati di valutazione. Sono obbligati per legge a includere un membro della comunità non-scientifica, come estremo baluardo: i ricercatori vorrebbero esplorare ogni possibilità, ma siamo in un ambito molto delicato. Nel mio laboratorio, agli studenti di medicina che interagiscono per la prima volta con i pazienti raccomando di trattarli come  fossero la loro madre. Lo stesso principio vale per le registrazioni intracraniche: bisogna mostrare assoluto rispetto per il paziente. Ma se si cerca di regolamentare queste ricerche a livello globale, non si riuscirà ad applicare le norme a livello locale. Si possono inviare le raccomandazioni dell’Unesco ai comitati etici di tutto il mondo e sperare che le seguano, ma alla fine in laboratorio le gestirà il singolo ricercatore che, si spera, abbia davvero messo al primo posto il paziente e non il proprio programma di ricerca scientifica.

Hervé Chneiweiss, condivide questa visione di regolamentazione puramente locale?

Hervé Chneiweiss: Si possono fare considerazioni a diversi livelli. Uno riguarda la ricerca basilare, o traslazionale [lo sviluppo e l’applicazione dei trattamenti], con volontari sani e con pazienti. È il tipo di regolamentazione di cui parla Bob [Robert Knight]. Poi c’è l’impiego di queste tecnologie derivato, in settori come videogiochi, istruzione, ambiti professionali. Un uso destinato a svilupparsi molto velocemente. In questo ambito bisogna pensare alla fase successiva: alla regolamentazione del dispositivo commercializzato e dell’uso dei dati raccolti.
Immaginate che gli occhiali che indossate siano in grado di monitorare il vostro affaticamento cerebrale, cosa che potrebbe avvenire già l’anno prossimo. Non è la stessa cosa se utilizzate questo dispositivo di vostra spontanea volontà o se il vostro datore di lavoro lo usa per monitorare la vostra produttività. In questo contesto ci saranno ovviamente trattative tra lavoratori e aziende, ma dovranno anche esistere regolamenti per controllarne l’uso abusivo o troppo pericoloso.

R.K.: Lei ha colto il vero problema: l’uso delle tecnologie per modificare le prestazioni umane in un’azienda. In un certo senso si tratta di un uso ancor più pericoloso di quello che se ne potrebbe fare nel campo dei disturbi neuropsichiatrici. Noi cerchiamo di aiutare i pazienti. Le aziende cercano di massimizzare i profitti. Sono obiettivi completamente diversi.
È chiaro che le aziende non pubblicheranno un articolo in cui si afferma che la stimolazione transcranica alternata cinque volte al giorno aumenta la produttività in fabbrica o in ufficio e in cui si descrive il metodo; certamente non lo sottoporranno al vaglio critico, come avviene invece nel mondo accademico, dove esistono garanzie.

H.C.: Ciò che temo di più non è l’uso di queste tecnologie o di queste conoscenze nella ricerca fondamentale. Può essere la soluzione migliore per aiutare bambini con disturbi del neuro-sviluppo, per esempio rafforzandone certe connessioni sinaptiche. Ma non tarderanno a comparire apprendisti stregoni, che vorranno usare queste tecnologie su persone sane, affermando di essere in grado di aumentarne il potenziale intellettivo. Ma è noto che il cervello non funziona in questo modo.

R.K.: Se riusciranno a farci credere che con elettrodi impiantati nel cervello saremo più intelligenti, avremo imboccato una china molto pericolosa. Abbiamo sentito questo tipo di discorsi qui, a San Francisco, quando Elon Musk ha creato Neuralink, con l’obiettivo dichiarato di aumentare le funzioni umane. A oggi, le sue équipe sono riuscite a dimostrare che è possibile utilizzare l’attività della corteccia motoria per controllare un braccio robotico o un computer. I media hanno dato grande risalto a questo risultato. Ma questa sperimentazione è già stata fatta trent’anni fa sulle scimmie e il primo articolo scientifico sulla sperimentazione sull’uomo è stato pubblicato vent’anni fa.
Va detto che Neuralink ha fatto grandi progressi tecnologici nell’impianto nella corteccia motoria, utilizzando un robot specifico. Può registrarvi fino a mille elettrodi, il che è impressionante. Tuttavia, ciò che mi preoccupa di più è che ora sono in grado di fare la stessa cosa nel lobo frontale, allo scopo di migliorare il pensiero. Qui sta il pericolo: nell’esagerazione. È un pericolo onnipresente in questo settore, sia che si tratti di migliorare il sonno o di contrastare l’invecchiamento.

H.C.: Neuralink ha recentemente raccolto 650 milioni di dollari. Sottolineo che la prima persona ad aver ricevuto questo tipo d’impianto ha dichiarato alla stampa di essere molto orgoglioso di aver raggiunto un livello elevato nel videogioco SuperMario. Tutto questo non ha nulla a che vedere con gli obiettivi terapeutici, come ripristinare alcune funzioni in persone affette da disabilità, morbo di Parkinson o depressione resistente. Il rischio è che venga screditata anche la grande quantità di ricerche eccellenti, necessarie per i pazienti.

R.K.: L’altra posta in gioco importante è questa: prendiamo una persona che soffre di depressione cronica, se si eseguono alcuni tipi di stimolazione nella corteccia orbito-frontale il suo umore migliorerà. Benissimo! Ma cosa succede se l’azienda che produce il dispositivo fallisce? Chi si occuperà del paziente? Il paziente con un impianto nella testa si ritrova a domandarsi se può tenerlo e se ci sarà qualcuno che ne farà la manutenzione. A Berkeley ci sentiamo meno minacciati dall’aspetto commerciale rispetto ad altre università, con scuole di medicina incoraggiate a creare spin-off [ulteriore sviluppo di una ricerca] e start-up. Ma mi chiedo quale sia la loro capacità di monitorare i pazienti impiantati.

H.C.: È già accaduto con una retina artificiale. 300 persone cieche avevano ricevuto un impianto e recuperato una certa capacità visiva. L’impresa non esiste più, quindi il sistema ha smesso di funzionare…

Le neuro-tecnologie dovrebbero essere regolamentate in modo diverso da altre tecnologie dirompenti?

H.C.: Come nel caso dell’IA, dei dati digitali massivi [big data], dell’editing genomico**, le tecnologie emergenti sollevano problemi nuovi che invocano risposte nuove. La specificità delle neuro-tecnologie è che ognuno di noi è particolarmente affezionato al proprio cervello. E quindi, quando si tratta di regolamentare c’è sempre la medesima tensione: valutare rischi e benefici.
In neurologia e in psichiatria, le soluzioni che si possono proporre ai pazienti sono ancora limitate. Per offrire nuove terapie si devono sviluppare nuove conoscenze. Ma una volta acquisita la capacità di accesso all’attività cerebrale e di modularla, c’è il rischio di violare alcuni aspetti fondamentali della vita privata. Da un lato c’è la possibilità di ripristinare l’autonomia, per esempio nei pazienti affetti dal Parkinson, dall’altro c’è il rischio di modificare quella stessa autonomia se si interferisce con la libertà di pensiero o l’autodeterminazione di una persona.
È bene precisare che nelle raccomandazioni dell’Unesco abbiamo posto sullo stesso piano le neuro-tecnologie che registrano o modulano direttamente l’attività cerebrale e quelle che ricavano informazioni dalla registrazione neuronale indiretta, come il tracciamento oculare, la pressione sanguigna, la frequenza cardiaca e così via, che, combinate, consentono all’IA di inferire dati sul vostro stato mentale.
Il motivo per cui vogliamo monitorare questa tecnologia, che si tratti di un’apparecchiatura o di un software, è che se un dispositivo è in grado di dedurre il vostro stato mentale, può in parte prevedere i vostri comportamenti. Nella migliore delle ipotesi lo scopo sarà aiutarvi e aumentare la vostra autonomia, nella peggiore cercare di controllarvi. Visto il mondo in cui viviamo, con il libero mercato e le aziende che vogliono vendere tutto e il contrario di tutto, con governi che vogliono controllare alcuni aspetti degli individui, è doveroso fare tutto il possibile per ottenere il meglio ed evitare il peggio.

Ci sono tensioni tra le raccomandazioni proposte dall’OCSE e quelle dell’Unesco?

H.C.: Come sa, ho partecipato a entrambe le riflessioni, su piani diversi, ma estremamente complementari. L’approccio dell’OCSE mette al centro le imprese: si tratta di tener conto dell’etica sin dalla fase di progettazione del prodotto, in tutte le sue componenti. In questo modo di procedere, tutto è finalizzato a sviluppare un dispositivo che sarà applicato a una persona o che arriverà sul mercato.
L’approccio dell’Unesco riguarda le conseguenze della tecnologia sui diritti umani fondamentali: il diritto alla dignità, sinonimo di autonomia, all’autodeterminazione, alla libertà di pensiero, alla riservatezza.

R.K.: L’approccio dell’OCSE si inscrive in una dinamica commerciale, l’approccio dell’Unesco è rivolto alla tutela dei diritti umani. Mi piacerebbe che le raccomandazioni dell’Unesco, estremamente pertinenti, venissero distribuite nelle università e in tutti i comitati istituzionali di valutazione degli Stati Uniti.

Studi finanziati dall’Agenzia di Ricerca del dipartimento Difesa degli Stati Uniti, Darpa, hanno recentemente presentato una fascia da applicare sulla fronte per misurare lo stato di forma di un soldato. I militari sono all’avanguardia nelle neuro-tecnologie?

H.C.: Dei 166 articoli che compongono le raccomandazioni dell’Unesco, solo due affermano che le neuro-tecnologie devono essere usate a scopi pacifici. Perché così poco spazio su una questione così rilevante? Gli Stati membri hanno sostenuto che il tema non rientra nelle competenze dell’Unesco, la cui missione riguarda la scienza, l’istruzione e la cultura. Un paragrafo menziona «gli immensi rischi e preoccupazioni di ordine etico che implicherebbe un potenziale doppio uso», civile e militare. Ma è chiaro che gli Stati membri non sono favorevoli a vietare l’uso militare di queste tecnologie. Abbiamo avuto qualche disaccordo anche sulla proprietà intellettuale, che ci è stato detto essere di competenza dell’OMC [Organizzazione mondiale del commercio]. Siamo riusciti a mettere in evidenza che esiste il rischio di bloccare parte dello sviluppo scientifico e di complicare l’accesso alla tecnologia delle persone che ne hanno bisogno. L’abbiamo spuntata sulla questione dei brevetti, ma non su quella militare.

Dobbiamo preoccuparci del crescente potere della Cina nelle neuro-tecnologie?

H.C.: Forse sono un po’ ingenuo, ma non credo che la Cina sia monolitica. Nel 2019 i media hanno rivelato che BrainCo [start-up creata da ricercatori di Harvard e del MIT] aveva commercializzato una fascia per misurare le onde cerebrali degli scolati cinesi e dedurne il livello di concentrazione. Le autorità cinesi hanno immediatamente adottato misure di regolamentazione per impedire questo tipo di esperimenti. La stessa cosa è accaduta nel 2018, dopo la nascita dei primi bambini geneticamente modificati.
È chiaro che la Cina non rappresenta la democrazia ideale. Ma dimostriamo un po’ di umiltà: i nostri meravigliosi Paesi democratici possono trasformarsi molto rapidamente in Paesi meno democratici. I partiti di estrema destra non sono molto favorevoli alla scienza.

R.K.: La Cina sta vivendo un’esplosione nel campo della scienza di base perché la finanzia in modo massiccio e perché i suoi ricercatori sono brillanti. E se le imprese cinesi vogliono entrare nel mercato delle neuro-tecnologie, vi entreranno. Nel mio laboratorio e nelle mie start-up abbiamo depositato brevetti in Europa, Giappone e Stati Uniti. Ma non tentiamo nemmeno di proteggere la nostra proprietà intellettuale in Cina. Sarebbe spreco di denaro.

Hervé Chneiweiss, nel 2026 lei parteciperà a una conferenza sull’etica ad Asilomar, in California, dove si riuniranno tutte le parti coinvolte nelle neuro-tecnologie – start-up, Gafa, mondo accademico e investitori. Il promotore, Reid Hoffman, fondatore di Linkedin, incontrerà quest’estate Google, Microsoft, Meta… Hoffman potrebbe essere preoccupato che un intoppo possa danneggiare questo mercato molto promettente?

H.C.: La maggior parte degli imprenditori del settore tecnologico ritiene che Facebook, Google o Amazon abbiano cambiato la società più della politica o della scienza negli ultimi vent’anni. Reid Hoffman pensa che accadrà altrettanto con le neuro-tecnologie: sarà il business a fare la differenza. Tuttavia il suo approccio è più umanistico, dunque più vicino a quello dell’Unesco, di quello di Peter Thiel [co-fondatore con Elon Musk di PayPal e sostenitore finanziario di Trump], che aderisce alle tesi transumaniste. Diciamo che, a seconda che siano Nuralink o altre aziende a dominare il mercato, le pecore saranno più o meno custodite.

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Tecnologia che funziona come un “correttore di bozze” del DNA: interviene in maniera precisa per trovare, correggere gli errori genetici all’interno dell’intero genoma.

 

27 giugno 2025

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IL DILAGANTE, NUOVO ANALFABETISMO DI MASSA

L’Abisso di Babele

di Scot e Rac

A cospetto di un evento o un messaggio inedito, la persona alfabetizzata razionalmente è in grado di comprenderlo, analizzarlo, contestualizzarlo, valutarlo e replicargli un messaggio o un comportamento di ritorno. In queste reazioni rientrano l’esternazione critica, dalla repulsione all’arricchimento interpretativo ed estensivo alla condivisione. Siccome la massima forma di riflessione razionale è la prosa scritta, consegue che scritti sono i messaggi a massimo valore aggiunto. Il che esclude dall’interazione gli analfabeti scritturali. «Chi non impara a scrivere, e a scrivere chiaramente tutto che vuol dire, si condanna a rimanere schiavo, nero o bianco che sia» precettava Malcolm X. «Chi non sa scrivere non è uguale» ammoniva don Lorenzo Milani.
Per analfabetismo scritturale non s’intende tanto l’incapacità di redigere la lista della spesa o di digitare messaggini sul cellulare. Questo lo sanno fare anche gli scimpanzé e i robot di primo prezzo. Ma s’intende l’incapacità di redigere e scambiare testi razionali e redatti a un livello qualitativo adeguato all’agorà intellettuale nella quale ambiscono entrare. Precisiamo: questo non si associa sempre o necessariamente anche a ignoranza totale degli argomenti di volta in volta trattati, ma comporta impossibilità di interpretarli collocandoli come tessere nel mosaico dello scibile. Una tessera fuoriposto serve a niente; un mosaico assiemato con tessere sbagliate non mostra alcunché di totalmente comprensibile né di condivisibile né di stimolante, dunque serve a peggio: a confondere, approfondendo la fossa dell’incomunicabilità.
In questo senso la comunicazione scritturale media italiana è relegata nella fascia cerebrale appena superiore a quella dell’analfabetismo: quella del semianalfabetismo. Comunque talmente basso da impedire all’intellighenzia del Paese di farsi capire dalla stragrande maggioranza del popolo. È la riedizione terminale e invertita della Torre di Babele, che ci sprofonda nel buco nero dove si diventa disinformati per eccesso di informazione (disordinata e casuale) e si diventa sordi e muti perché nessuno ascolta alcuno, insomma dove nessuno capisce alcuno né se ne fa capire perché tutti negligono coordinate logiche condivise. L’implosione della Torre di Babele risucchia il popolo nel suo Abisso ovunque c’è bisogno di scambiare messaggi pur ritenuti importanti, dall’assemblea di condominio alle conversazioni sulle massime incombenze comuni: dalla gestione del municipio a quella dello Stato all’ingiustizia sociale alla crisi economica alla guerra fino alle dissertazioni più elevate sulle grandi scelte di vita e sul tracciato della rotta umana, con le quali ogni mente autenticamente viva e curiosa e minimamente dotata cerca ‒ dovrebbe cercare ‒ di dare risposte agl’interrogativi dell’esistere ed essere artigiana del proprio destino.
[…]

 

26 giugno 2025

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COLONIALISMO GLOBALE

Anche i piloti dell’aeronautica militare italiana pilotati dagli USA

Inchiesta sull’aereo F-35, praticamente un drone umanoide.

[...]

 

25 giugno 2025

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EUGENICA

I miei nuovi bambini

di Scot

Intendo far causa alla ditta americana Ectolife ed estorcerle qualche milione di euro. Motivo: mi ha rubato un’idea geniale. Preciso: non una semplice vampata creativa, ma un colpaccio d’IA, dove la A connota l’intelligenza umana, cioè di me umano, niente a che vedere con quella artificiale, rinnegata e associata a delinquere in un mero ossimoro (IA appunto), giacché, se hai gambe cerebrali sane, le stampelle non ti servono. Un colpaccio, continuo a precisare, che si articola in un progetto motivato, finalizzato, eticamente riflessivo di superiori idealità. Un’intuizione esito di visionarietà di lunga gittata.
Ectolife l’ha copiata paro paro dal mio romanzo Mater, scritto vent’anni fa. Questa idea: rivoluzionare la riproduzione umana. In ogni suo aspetto, compresi quelli che mancano a quella naturale, primitiva, barbara e crudele quale l’umanità continua a praticare. Salvo, beninteso, che non si cominci a far bambini secondo la mia ricetta di vent’anni fa, e che Ectolife – la copiona! – sta facendo propria. E decidiamoci a illustrarla, la mia sublime pensata, così potrete comparare la mia lungimiranza alla misera applicazione palancaia che ne fa Ectolife.
[...]

 


 

LETTERE E TESTIMONIANZE
di un'italiana a Parigi

 

Cari concittadini,

che ve ne state belli comodi al fresco nella vostra casa di Milano, con tutte le comodità e i servizi a portata di mano, con l’aria condizionata e l’Esselunga che vi consegna la spesa a domicilio, e le trattorie fuoriporta dai cibi e prezzi prevedibili e con i tavoli spaziosi, senza incavolature per le fregature di mangiatoie e negozi salatissimi, ebbene io qui, nell’appartamentino che ho fittato a due passi dal canale Saint-Martin (circa due chilometri a nord della Senna), vi invidio.
Idiota che sono, ho prenotato l’alloggio in internet, su un portale che sembrava la quintessenza dell’affidabilità e della correttezza. Ed eccomi in un buco di 13 metriquadri, che per 15 giorni ho pagato quanto un mese e mezzo in un dignitoso albergo di Pesaro. Ieri, giornata di picco calorico, la Ville Lumière arrostiva a 35 gradi. Ma nel mio buco (
studio lo chiamano loro!) il termometro segnava 45°. Esatto: 10 gradi di differenza! Niente aria condizionata. Sono corsa a comprarmi un ventilatore, ed è stato come esporsi al getto di un asciugacapelli. Il mio alloggio ha due finestrelle da un medesimo lato, modello vasistas!, così non scorre un refolo d’aria. Del resto, avessi anche finestre da spalancare, non riuscirei a dormire, anche perché affaccio su quartiere che nottegiorno rumoreggia di traffico ed è denso di zanzare che arrivano dal canale vicino. Non ci sono neppure le imposte alle finestre!
Mi sembra di stare nei
piombi di Venezia, le prigioni-sottotetto con la copertura in piombo, dove in estate i nemici dei dogi si cuocevano anche il cervello. Qui uguale, con la sola differenza che a Parigi le case sono coperte al 78% da lamiere di zinco, perché costa meno installarlo, dura in eterno e peggio per chi deve dormirci sotto. Ovviamente non c’è sottotetto. Mi sono ridotta a cercare di dormire, senza riuscirsi che per brevi spossatezze, stendendo salviette bagnate sul letto!
Leggo che a Parigi in estate arrivano anche 250 mila turisti al giorno, e altrettanti ne partono, uguale a mezzo milione di persone che vanno e vengono dalle stazioni e dagli aeroporti, più quelli che stanziano. In totale, a Parigi arrivano 22,6 milioni di turisti l’anno (contro gli 8,3 di Venezia, per fare un paragone), sugli oltre 100 milioni che approdano in Francia, il doppio di quanto ne arrivano in Italia. Dove vanno tutti? Sembra che a Parigi vadano ovunque vado io perché visitare Parigi è come camminare nel mezzo di una processione affollata, non si fa che entrare nei bar a bere, ma basta un breve tratto di folle e di afa e devi rientrare al bar per un’altra consumazione-pipì. Impossibile godersi la città con tanta calca.
Giorni fa sono andata alla Festa della Musica, il rituale raduno giovanile dove si balla sino a tardi e i ragazzotti cercano pretesto per fare a botte con i poliziotti comandati a contenere la baraonda. Oltre 300 fermi di polizia, decine di rinvii a giudizio, un centinaio di feriti, pulotti compresi, e un altro centinaio di ragazze vittime di “punture” d’incerta origine, ma quasi sempre imputabili a siringhe contenenti narcotizzanti, euforizzanti, insomma droghe tossiche, iniettate da bande che sperano nello stupro di gruppo. Sono stata punta anch’io e così ho sperimentato come anche in Francia il pronto-soccorso pubblico abbia fatto le spese dei tagli alla sanità del governo francese. Un bivacco sanitario, dove aspetti ore e ore prima che si accorgano di te.
Al diavolo il buco pagato in anticipo, rientro a Milano!

Relia Morabito

 

21 giugno 2025

 

STAMPA ESTERA
da Le Monde 16 giugno 2025 (titolo modificato)

 

FRANCIA: DAL RE SOLE ALLA REGINA EUROPA

Dove lo Stato sbaracca, non restano che i samaritani sul camper

Nel massiccio dei Maures (Var) un servizio mobile cerca di aiutare la popolazione locale a sbrigare gli adempimenti burocratici, in un momento in cui molte amministrazioni pubbliche hanno chiuso gli sportelli e le procedure digitali, diventate la norma, trasformano molti cittadini in marginali.

di Sylvia Zappi

traduzione di Rachele Marmetti

Il camper è parcheggiato sotto i platani, non lontano dal monumento ai caduti. Fuori un tavolo da camping e due sedie. In questo pomeriggio di inizio giugno, il camper France Services, gestito dalla Mutualité Sociale Agricole (MSA), è di servizio nella piazza principale di Gonfaron (Var). Uno sportello unico mobile, presidiato da due funzionari, sostituisce ben 11 servizi pubblici, le cui sigle adornano le fiancate del veicolo: Cassa sussidi familiari, Assicurazione pensioni, France Travail, ministero delle Finanze, ministero dell’Interno, ministero della Giustizia, Assicurazione malattia… All’interno, al posto dei letti a castello due ripiani per computer portatili. Sotto le foto di paesaggi, stile cartoline postali, un poster contro le violenze domestiche e un violentometro: un righello graduato per individuare gli indizi di una relazione violenta.
Il camper è qui solo da dieci minuti e già arriva il primo utente: un uomo in tuta mimetica sale a bordo, una cartelletta in plastica sotto il braccio, Albert (le persone che citiamo con il solo nome proprio non hanno voluto darci il cognome), viticoltore di 55 anni, è preoccupato per un contributo previdenziale che ha pagato e che non compare nel suo cassetto fiscale. «Devo fare anche una dichiarazione per gli assegni familiari, ma non so cosa scriverci» spiega, estraendo un fascio di documenti. Il funzionario chiede informazioni sulla moglie, che lavora come stagionale per la spollonatura delle viti: «L’ha dichiarato? Ci serve una fotocopia del libretto di famiglia». Mentre Albert è al telefono per chiedere alla moglie di mandargli la foto del libretto, entra un uomo massiccio, accompagnato dalla figlia con un monopattino.
Naouel è un habitué. Va nel panico davanti al computer: «Ho ricevuto una mail dall’Assicurazione-malattia, ma non capito cosa vogliono. Ho mandato tutto quello che mi hanno chiesto». «Non si preoccupi, le hanno scritto che la sua pratica è stata presa in carico», gli risponde Gabriel Peschaud, dipendente della MSA. L’impiegato mi spiega che Naouel si precipita da loro non appena riceve una mail da un ufficio pubblico: «Si perde in un bicchier d’acqua, come molti che si rivolgono a noi, ha paura di sbagliare».

«Un evidente problema di mobilità»

Una volta ogni due settimane Gabriel Peschaud e il suo collega sono in servizio a Gonfaron per aiutare questi naufraghi digitali. Che si tratti di una lettera del servizio sanitario, di una pratica di pensione, di una dichiarazione dei redditi, di una richiesta di passaporto o di modulo da compilare per ottenere il Reddito di solidarietà attiva (RSA) [prestazione sociale che integra il reddito di una persona indigente o con poche risorse], le richieste sono varie quanto le amministrazioni che lo sportello unico del camper rappresenta. In questa terra di vigneti e di villaggi dai tipici colori del meridione, la popolazione è modesta, anziana e poco preparata all’uso delle nuove tecnologie. Diversi borghi del massiccio dei Maures hanno visto la progressiva chiusura di molti uffici pubblici – un ufficio postale qui, un ufficio delle imposte là – e la diffusione delle procedure digitali ha separato ancora di più i cittadini dal servizio pubblico. Per cercare di tamponare la situazione, nel 2021 la Cassa sussidi familiari e la prefettura hanno deciso di istituire uno sportello mobile, denominato France Services, dove le persone possono ricevere assistenza per le pratiche amministrative.
Per identificare le aree più vulnerabili è stata elaborata una mappa dello «svantaggio sociale». Con un tasso medio di disoccupazione del 14%, con una popolazione anziana (il 37% ha oltre 60 anni) e poco acculturata (il 31% non ha un diploma) è stato facile individuare i bisogni. «Negli otto comuni selezionati esiste un evidente problema di mobilità: molti utenti non hanno l’auto o non possono guidare. Con la disparità d’accesso alle tecnologie informatiche, aggravata dalla digitalizzazione sempre più diffusa, accedere ai diritti è diventato una sfida», spiega Lucille Brigando, responsabile delle relazioni con il pubblico di MSA.
Recarsi a Tolone per un problema che non si è riusciti arisolvere sul proprio computer, a quaranta minuti di macchina o a due ore di trasporti pubblici, è una vera e propria spedizione. Per molti utenti, anche soltanto accedere con una password, ricevere un SMS di conferma per poi navigare tra moduli on-line, è un’impresa. Lo conferma il numero in costante aumento delle persone che ogni due settimane si rivolgono al camper France Services: nel 2024 il personale dello sportello itinerante ha trattato 3.434 richieste, ovvero oltre 18 persone al giorno.

«Ci si sente utili»

Il 5 giugno è una nuova squadra che porta il camper a Carnoules. Sul piccolo spiazzo davanti al modesto auditorium municipale, Eliane Denise, 83 anni, aspetta pazientemente con la borsa della spesa di tela. Non capisce perché il suo account Ameli è stato disattivato. «Volevo comunicare la morte di mio marito un mese fa…» racconta Eliane, sedendosi all’interno del camper. Laurence Audemar, dipendente di MSA, le chiede se ha un cellulare. «No, è mio figlio che mi aiuta, da Parigi». «Lo chiamiamo noi» la rassicura l’impiegata. La pensionata mormora: «Meno male che ci sono loro. Prima non sapevo da chi andare per farmi aiutare».
Una figuretta in jeans chiari e gilet coordinato entra nel camper. Yolaine è venuta a chiedere informazioni sul suo assegno di solidarietà. «È da luglio scorso che mando documenti, me ne chiedono sempre uno nuovo» racconta con voce rotta. L’impiegata le fa notare che ha ricevuto l’estratto conto del suo fondo pensione e che deve salvarlo lasciando aperta la finestra del sito web.
Davanti al suo sguardo smarrito, la dipendente prende il suo telefono per eseguire l’operazione al suo posto; poi le spiega che occorreranno quattro o cinque mesi prima che il sussidio le venga accreditato. «Ma come faccio? Ho una pensione di 199 euro al mese. Non posso lavorare perché non ho soldi per riparare la macchina» si sfoga Yolaine, dettagliando la sua travagliata vicenda lavorativa: segretaria presso un’agenzia immobiliare, estetista, commessa, cuoca, operaia agricola… Laurence Audenar la guarda allontanarsi: «In questi paesi ci sono molto precariato e molte persone sole. Gli assistenti sociali sono sovraccarichi e le indirizzano a noi».
La sua collega, Amanda Icars, è d’accordo: «Qui ci occupiamo di situazioni complicate e abbiamo più tempo che in ufficio. Le persone sono talmente contente che qualcuno le ascolti che sono più indulgenti. Ci si sente utili» sottolinea la trentenne. Arrivano persone tutto il giorno, entrano uno alla volta. Un bracciante nordafricano, accompagnato dal figlio per farsi capire meglio, una decoratrice di ceramiche che si è messa in proprio e non sa compilare la dichiarazione dei redditi, due funzionari tecnici della pubblica istruzione cui mancano dei trimestri di contributi… Sebbene le due funzionarie si dicano felici di essere distaccate al servizio mobile due volte la settimana – si alternano in otto – non possono non constatare che la latitanza della pubblica amministrazione è sempre più estesa sul territorio dove svolgono il servizio: «Il camper è un’alternativa a questa assenza. Se vi si ricorre è perché lo Stato si sta disimpegnando sempre più».

«Società di merda»

A Le Luc il venerdì è giorno di mercato. Di solito è in questa piccola cittadina di 11 mila abitanti che il servizio mobile accoglie più utenti. «Questo camper è il nostro coltellino svizzero. Ne abbiamo davvero bisogno perché il servizio pubblico lascia scoperti sempre più settori, e sono i più fragili a subirne le conseguenze più dolorose. Così lo Stato si affida sempre più spesso alle amministrazioni locali» osserva Dominique Lain (Les Républicains), sindaco di Le Luc. «E questo si aggiunge allo smarrimento che affligge tante persone, soprattutto i pensionati» aggiunge il sindaco.
La frustrazione e la sensazione di essere esclusi sono ricorrenti nelle testimonianze che abbiamo raccolto. Tra gli utenti dei servizi del camper aleggia un sentimento di “era meglio quando si stava peggio”, che trova eco nei discorsi del Rassemblement National (RN) [partito di estrema destra], molto apprezzati in questa cittadina. Il Var è una delle zone in cui l’RN prende più voti. Nelle elezioni legislative di giugno 2024 ha fatto il pieno: sette degli otto seggi della camera sono stati conquistati dall’estrema destra. «Il peso dell’RN qui si sente, soprattutto grazie al suo discorso semplicistico sulla disgregazione della società francese» ammette il sindaco di Le Luc, che si dice «non molto tranquillo per le elezioni comunali del 2026». Il deputato locale dell’RN, Philippe Lottiaux, ha sentito parlare del camper ma lo considera una «misura di ripiego, un succedaneo dei servizi spariti».
Nel camper France Services è entrata Sabine, 70 anni, equipaggiata con una bombola d’ossigeno portatile. Deve cambiare indirizzo sulla sua pratica di riconoscimento di handicap. «Questo servizio mobile è utile, ma prima c’erano piccoli uffici dove ci si poteva informare. Ora centralizzano e chiudono tutto, siamo allo sbando! Viviamo in una società di merda» si sfoga la settantenne. «Non sono razzista, ma non è richiesto di parlare francese per ottenere aiuto» aggiunge un’altra donna appena entrata. Dietro di lei una signora bionda, gestrice di una società di movimentazione terra, sussurra «Oggi c’è meno gente, è la festa dell’Eid [festa mussulmana che celebra il sacrificio di Abramo]. Stanno cucinando le loro cose», l’impiegata finge di non sentire,  ormai è immunizzata.
Davanti al camper un marocchino di 54 anni aspetta paziente nella sua camicia bianca. Spiega di essere venuto perché i figli, che sono ancora in Marocco, non hanno ricevuto gli assegni famigliari. «Negli ultimi tre mesi non ha lavorato per un periodo sufficiente» gli spiega con dolcezza l’impiegata. L’immigrato le chiede a voce bassa: «Scrivimelo, per favore».

 

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XXIV anno