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Gian Carlo Scotuzzi Mosca detto Scot
23 aprile 2025
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CRONACA VERA

Vivere coi morti

di Scot

Nel municipio di Pagnocco noto lo sportello Visti per l’aldilà.
Dietro il vetro antipandemico un’impiegata in nero cerimoniale. La questuo, ammiccando al cartello:
– Un modo di accogliere, con ironia a fini di conforto, coloro che vengono a denunciare la morte di un parente?
– No, i decessi si segnalano al piano superiore, all’anagrafe.
– Allora che significa il vostro visto e a chi viene concesso?
– Rispondo alla sua prima domanda: ha il senso di autorizzare il richiedente a varcare il confine tra la vita e la morte...
– Adesso ci vuole il permesso del comune per suicidarsi?!
– Ma no, che ha capito! Siamo un municipio cattolico osservante. Lo vede il crocefisso appeso alla parete, no?  Non potremmo autorizzare il suicidio, che è peccato mortale. Il nostro visto legittima il passaggio sereno, non violento, non peccaminoso, al regno dei morti. E qui rispondo alla sua seconda domanda: lo rilasciamo a quanti soffrono la mancanza di un parente al punto da non sopportare più di piangerlo di qua. E allora preferiscono trasferirsi di là, raggiungendo il caro estinto.
– Insomma: che fanno dopo aver ritirato il visto? Muoiono o restano vivi?
– L’uno e l’altro. Ecco, vede la donna che sta uscendo reggendo un foglio? È la signora Tecla, che ha perso Brunetto, il figlio adolescente. E controlla sul foglio, il visto appunto, gli estremi della sua validità. C’è scritto che Tecla è autorizzata a recarsi al cimitero quando vuole e a rimanerci quanto le pare. Trattandosi di un lutto classificato GGG, cioè gravissimo, il visto le consente anche di traslocare al camposanto una serie di suppellettili, di arredi domestici, di abitudini. Tipo: col visto GGG può sistemare accanto alla tomba o al loculo cucina e tavolo da campo, per pranzare e cenare a pochi metri dalla salma, o dalle ceneri, del suo bambino. Può anche sistemarci una brandina e dormirci, accanto al suo caro. E potrebbe montarci anche un letto matrimoniale se riuscisse, come spera, a convincere il marito a procurarsi anche lui un GGG. Ovviamente tutte queste comodità e tutti questi allestimenti costano, in termini di tasse mortuarie. Appesa alla parete trova la lista completa degli optional.
Leggo e sillabo, in tono autenticamente perplesso:
– Sala degli o-spi-ti!? Che vuol dire?
– Che Tecla può arredare al camposanto di che accogliere se stessa e i condolenti suoi ospiti: apparecchiate con tutt’i coperti che vuole, poltrone, maxischermi e altoparlanti per il cine... Tecla è di folta parentela, per cui le sue scorribande cimiteriali aggregano spesso i genitori, cioè i nonni di Brunetto, poi fratelli e sorelle, cioè zii e zie di Brunetto, poi cugini. Il becchino, che presidia l’accesso cimiteriale riservandolo, dopo la chiusura ufficiale dei cancelli, ai possessori di visto GGG, riferisce di un pranzo pasquale condiviso da 15 persone. Certe sere di grande afflusso di dolenti, lo spiedo è preparato dalla Trattoria delle Vedove, a ridosso della roggia che borda il cimitero. In queste occasioni le tavolate si accostano e finisce che a sbafare tra le tombe si aggreghino intere tribù.
– Un cimitero ristorante!
– Non ne rida, signore. Un giorno che ci siamo messi col sindaco a censire i paesani afflitti da depressione sepolcrale, come la chiamiamo noi, siamo arrivati a computare oltre la metà dei residenti, poi ci siamo fermati per non deprimerci pure noi. Se non placassimo tante afflizioni con la trovata del visto, saremmo costretti a far riaprire il manicomio provinciale e a trasferirci il grosso dei nostri paesani. Comunque la situazione non è tanto tragica: vero che Tecla trascorre la maggior parte del suo tempo al cimitero, ma se ne libera spesso, innanzitutto per rendere visita ai parenti rimasti di qua, completamente vivi intendo.
Per lasciare il cortile del municipio debbo costeggiare una bacheca di svariate decine di metri. Metto a fuoco il necrologio più a portata d’occhio. Annuncia la morte di CarlaMaryAnnette, stroncata a 9 anni da un pirata della strada... il 23 aprile 2018?!
– Otto anni fa!
mi scappa esclamato a voce troppo alta.
L’affissore municipale, che scarica dall’Ape un fascio di annunci che la direzione del suo sguardo proclama destinati alla bacheca, risponde alla mia perplessità, equivocata per rivolta a lui.
– Essì, vola il tempo vero? E pensi che il pirata che l’investì non fu mai beccato. I genitori della bimba non si danno pace...
– Ma perché si fa il funerale dopo otto anni?
– Perché questa è la settima replica. CarlaMaryAnnette si becca un funerale a ogni giro di calendario. Con una nuova bella bara bianca...
– E nella bara che c’è?
– La cara salma di CarlaMaryAnnette. La disseppelliscono, la riprocessionano, poi al termine delle cerimonie la ricongelano, indi la riseppelliscono nel suo sarcofago termico e sino all’aprile del 2026 nessuno la tocca più.
– Roba da matti!
Da noi si usa così, per questo abbiamo 15 agenzie di pompe funebri per settemila abitanti. E un migliaio di pagnocchesi trovano lavoro nel settore FVM. Fine Vita Mai. È tutto in regola: paghi e ti compri la licenza di non mollarli più, i tuoi morti.

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MANGIARE PELATI PER PLACCARE PUTIN

Da tre anni la lobby internazionale delle armi lucra in Ucraina profitti da capogiro. Tra gli ordigni più profittevoli ci sono le mine antiuomo. Hanno costi di produzione contenuti, anche se quelle odierne sono tecnologicamente molto evolute: prodotte in serie e a milionate, eccellono in crudeltà e infidatezza. Lanciano nugoli di aghi di plastica, invisibili ai raggi x e dunque ardui da rimuovere da arti martoriati. Chi ci mette il piede sopra o muore sul colpo o dissanguato a lenta tortura. Le mine 2025 inglobano un vibratore che le interra. Sono involucrate da strato camaleontico, che rende la parte emersa indistinguibile dal terreno circostante. Non sono posate da soldati, ma disseminate da dispositivi agganciati ai camion o appesi ai droni, nel qual caso scendono a terra rallentate da paracadute che si biodegrada in fretta. Insomma sono armi di massa vili per eccellenza: chi se ne avvale, non rischia né a collocarle né di calpestarle un domani per sbaglio, perché, altra prodezza di queste supermine, si palesano elettronicamente ai rilevatori amici. L’Ucraina è il Paese più folto di mine antiuomo: ne ha coperto 139 mila chilometriquadri, il 23% del Paese. E secondo gli strateghi della Nato sono ormai l’unico baluardo al preteso dilagare dei russi, che invece sono paghi di presidiare i territori russofoni che hanno liberato dal giogo di un regime che ha vietato alla minoranza russa di parlare il russo. Non hanno alcuna voglia né interesse a occupare quel che resta di un Paese neonazista e che parla ucraino.
Trump ha bloccato le forniture di armi all’Ucraina. Comprese le mine made in Usa, le migliori, ça va sans dire. Ma la Nato ignora il blocco e continua a foraggiare di mine l’Ucraina. Lo fa alla chetichella, appiccicando sui container di mine la pecetta Aiuti umanitari. I russi se ne sono accorti e ne hanno riferito alla stampa, quella non atlantista, cioè al pugno di testate rimaste pluraliste. Ma certe bugie scalpitano rischiando di arrivare anche all’opinione pubblica occidentale. Per prevenirne lo svelamento, il Minculp di Kiev ha allestito questa messinscena.
Ha scarrozzato gli inviati dei principali quotidiani europei (no, non ha invitato gl’italiani, che tanto scrivono soltanto sotto dettatura Nato) in un cascinale isolato, trasformato in teatro di posa hollywoodiano. Dentro ci ha messo poche decine di soldati-comparse, comandate a simulare il confezionamento di mine antiuomo artigianali, spiegando, in ogni lingua dei giornalisti forestieri:
‒ Da quando Trump ci nega di che difenderci e sopravvivere, ci arrangiamo da soli, assemblando ordigni con tutto che troviamo in casa: barattoli di pelati, esplosivo recuperato da vecchie cartucce e dalle cave, bulloni e biglie elevati a proietti, cavi di rame strappati alle linee elettriche, e il resto saccheggiando auto ed elettrodomestici.
I giornalisti l’hanno bevuta. Poi rischiando, loro sì, con i loro reportage, di accoppare i russi. Dalle risate.
Tra i quotidiani beffati: il francese Le Monde, che pur si vanta scafato pulpito di geopolitica.

Ricordiamo che nel 2005 l'Ucraina sottoscrisse la Convenzione di Ottawa contro le mine antiuomo.

 

20 aprile 2025

 

I NUOVI SCHIAVI CHE SI RIBELLANO ALL’ESSELUNGA

«Pagami il giusto, padrone bianco»

di Scot

Poche centinaia di marginali del volante e del manubrio stanno paralizzando le consegne delle spese a domicilio. Massime nel Milanese e in danno del primo fornitore, l’Esselunga, di cui maldiremo.
Questi scioperanti disperati sono scampolo dello stuolo di sottoproletari da decenni calamitati in Italia a suon di bombe esplosive o schiaviste sganciate sulle plaghe colonizzate donde provengono, e dove furono generati da partorienti a cottimo. La loro fame e la loro disperazione e la loro diserzione dalla lotta anticolonialista, militando nella quale non avrebbero bisogno di fuggire qui, ci sono notorie. Fanno parte della loro patologica fisiologia d’ignavi e d’ubriachi del sogno capitalista, al pari dei nostri vecchietti che si beccano il tremolio parkinsoniano a forza di grattare-e-perdere. Ci ha sempre stupito invece l’alto tasso di sopravvivenza di questi schiavi moderni costretti a prolungare l’orario di lavoro in straordinari infiniti, durante i quali corrono come matti alla guida dei furgoni, o pedalando come rematori di galee con zaini di merce sulla gobba o sul portapacchi. Loro sì, dovrebbero dedicarsi al gratta-e-vinci, allenati come sono a sfidare la sorte nel traffico della metropoli, infido di pendolari assonnati e di figli-di-papà col cervello in bambola e conseguente licenza d’omicida, tanto l’avvocato di babbo li fa uscire di galera in un lampo. Obietterete che giorno sì e l’altro pure un forzato delle consegne finisce fuoristrada o sotto i binari del tram, non sempre morendoci. Ma la loro caducità è ormai di gran lunga inferiore a quella degli anziani ignavi autoctoni, che crepano di quella sanità, negletta quando avevano le energie per curarsene.
E veniamo all’ultima, poderosa delle sorprese che i semischiavi d’importazione ci riservano: hanno tirato fuori le palle. Devono essersi esaltati alla vista del film Queimada (riproposto di recente sui canali di loro alienazione), che per fortuna loro e sfortuna dei clienti Esselunga non hanno visto sino in fondo. Si sono esaltati alla vista di un negro caraibico, José Dolores, che insorge contro i coloni e li fa fuori a grappoli. Esaltati da tanto ardire, sono guizzati in loro un riflesso di dignità e un’ondata di coraggio. Si sono aggrumati in una delegazione di arditi e sono andati dai sindacati. Cgil, Cisl e Uil. Sappiamo bene, noi italioti, che sono sigle consunte da almeno mezzo secolo di corruzione, di pappaeciccia con il padronato che simulano di contrastare. Sappiamo anche quanto siano ormai dediti quasi esclusivamente alla caccia di sinecure istituzionali per le intere loro famiglie, e quanto disertino il proselitismo e la tutela dei lavoratori più subordinati e sfruttati. Ma i convertiti da Queimada non possono saperlo. Non possono essere antisindacalisti perché le sigle Cgil, Cisl e Uil non le hanno mai frequentate prima, così come non possono essere anticomunisti come noi, che fummo stomacati da dirigenti del PCI incompetenti, disonesti e codardi. E molti di noi vomitarono al punto da ingurgitare secchiate di antiemetici peggiori dei conati, come il Lega 500 mg, il Forzitalia 1000 e l’FdiPlus, sempre in dosi da cavallo.
Ebbene sì, è successo: ignari degl’ingredienti mendaci di una sbobba etichettata come apportatrice di paghe meno da fame e di condizioni di lavoro meno insopportabili, i José Dolores lombardi hanno osato sfidare il padrone iscrivendosi al sindacato. Di più: hanno incrociato davvero le braccia, irridendo, da pollastri che si scoprono ali d’aquila, la reazione di Esselunga: «Tornate nei ranghi e al lavoro, o metto in cassa integrazione gli altri dipendenti».
Questi Altri sono commesse spremute come gli agrumi che vendono, sono altri lavoratori anche loro spesso sottomessi a questo ignobile ricatto: O ti adatti a un contratto a tempo parziale, sempre dilatandolo ben oltre la durata di una giornata a tempo pieno, o te ne stai a casa». Che senso ha simularsi part-time? Questo: che al padrone un dipendente a mezzo servizio moltiplicato per due costa meno, in termini di contributi assicurativi e altro, di un dipendente formalmente riconosciuto a giornata piena.
Sono risparmi da morti di fame, vero? Eppure i supermercati macinano profitti da capogiro e sono in prima fila, al netto della propaganda contraria, nel propellere l’inflazione e dunque nel rattrappire i redditi fissi di tutti. Come vedete, i proni bianchi non sono certo più cazzuti di quelli neri.
Per cui, cari compagni di sito, quando sui vostri schermi leggete che Esselunga o similari callidi intermediari commerciali non sono in grado di consegnarvi la spesa, prendete bene la mira del vostro smadonnare e badate a non colpire un José Dolores.
Imparasse mai il broccardo fiorentino per cui «È ladro chi ruba il sacco quanto chi lo para», potrebbe prendere a colpi di machete ‒ speriamo di no ‒ anche noi essecorte, che ci limitiamo a cogliere i frutti minori di un commercio tanto iniquo.
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DALLA (EX)RDT SPIRA VENTO DA EST

Nei giorni scorsi nell’ex Germania Est, forgiata dal comunismo, hanno sfilato alcune processioni laiche. Issavano cartelli inneggianti la pace. Tra Nato e Russia.
Come raggiungerla? hanno chiesto i cronisti.
Risposta preponderante: «Smettendo di foraggiare l’Ucraina d’armi, di nostri soldati che insegnano a usarle, di beni di consumo che compensino quelli che gli ucraini hanno smesso di produrre».
Il referente principale degli organizzatori, cioè l’AFD (
Alternativa per la Germania, secondo partito di quella unificata) ha fatto in modo che i cortei fossero incistati anche da pacifisti di fede contraria, secondo i quali la guerra finirà soltanto quando la Nato e i suoi mercenari ‒ italiani compresi, che vergogna! ‒ avranno sconfitto Putin. Il che significa perorare una guerra rinvigorita.
Perché accogliere un dissenso tanto contrario all’obiettivo pacifista delle sfilate? Perché l’AFD, che aspira al governo, deve il grosso dei propri consensi ai tedeschi dell’Est, che tifano Putin. Significa che il partito di estrema destra della Germania, l’AFD appunto, esprime soprattutto coloro che nel comunismo non dovettero trovarsi troppo male se, a 35 anni dalla caduta del Muro e poi del comunismo, scendono per le strade schierandosi con un regime accusato di replicarne i tratti.

 

19 aprile 2025

 

I NEGOZIATI USA-RUSSIA SULLA SPARTIZIONE DELL’UCRAINA

Ecco chi ha vinto e chi ha perso la guerra

di Scot


Questa mappa è soltanto una base di discussione. Che  Donald Trump, signore e donno anche dell'Europa occidentale, esorta a prendere molto sul serio e a farlo in fretta. Dunque i confini disegnati dall’armistizio in Ucraina non potranno discostarsene troppo.
Il prospettato nuovo assetto territoriale evoca la lottizzazione che Usa e Urss imposero al Vecchio Continente per punirne i popoli che avevano scatenato il conflitto mondiale: gli aggressori nazisti, in primo luogo, e in secondo luogo gli aggrediti che tale aggressione avevano contribuito a provocare o che non avevano fatto abbastanza per contrastare.
A 80 anni dalla chiusa di quella pugna, siamo daccapo. La regione dei nazisti del terzo millennio, cioè i golpisti ucraini, viene smembrata, come lo fu la Germania. Differenza: la Germania fu spaccata in due: quella a Ovest subordinata provvisoriamente all’occupazione di Usa, Gran Bretagna e Francia; quella a Est trasferita per sempre all’Urss. Nel 2025 l’Ucraina rischia invece di essere spaccata in tre: il pezzo più a Est, russofono, passa al dominio russo. Con ciò ratificando del resto un fatto acquisito quasi completamente da referendum che hanno sovranamente approvato l’adesione alla repubblica di Mosca, e per il resto codificando gli esiti di un confronto armato stravinto dai russi.
La porzione più vasta dell’Ucraina, all’Ovest, fa esattamente la fine della Germania d’antan: occupata da Usa, Francia e da coloro che si proclamano eredi democratici di Zelensky, cioè da quegli ucraini che durante la guerra avrebbero animato una dozzina di partiti di opposizione, se Zelensky non li avesse messi tutti fuorilegge.
L’Ucraina dell’Ovest avrà una prima gatta da pelare: la pretesa della Polonia, che reclama la regione più occidentale, la Galizia, perché in passato le è quasi sempre appartenuta e perché gli abitanti odierni parlano il polacco.
Tra l’Ucraina Ovest e quella Est (definitivamente trasferita alla Russia ‒ ed è l’unica certezza dell’ipotetica ripartizione che andiamo narrando), s’incista la parte di Ucraina originale che sopravvive. Con doppio saio di penitente: il primo, perché con le sue vessazioni contro i russofoni e con le sue provocazioni militari (come l’impianto, a ridosso del confine russo, di laboratori per la produzione di armi chimiche di massa) ha provocato la Russia a venire a difendere i propri concittadini e ad anticipare l’invasione inversa; il secondo perché questa guerra contro la Russia l’ha persa.
L’ipotetica Ucraina Occidentale, quella occupata anche da americani e francesi, ha un’altra gatta da pelare. Pure la Romania aspira a papparsi la sua porzione di Ucraina, oltre che la Moldavia, che è sulla strada. Così quel che resta dell'Ucraina nazista ulteriormente depravata da Zelensky saranno tre regioni con stazza di regione italiana.
Avete notato che sulla mappa negoziale manca il vessillo dell’Europa. Esclusione sacrosanta, giacché è questo coagulo di popoli, singolarmente impotenti quanto collettivamente rissosi a comando della Commissione dei Duci, ad aver maggiormente fomentato il neonazismo ucraino. Ciascuno vi ha dissipato cifre in proporzione alla propria caratura economica, così catalizzando uno smagrimento del welfare ovunque cronico da quasi mezzo secolo. La Germania, la più pingue del continente, ha sborsato il grosso. In questa cordata a delinquere a fine guerrafondaio l’Italia ha dissipato più che in proporzione alle proprie risorse, a motivo della sudditanza del governo postfascista ai Signori delle Armi.
E a proposito di Italia, dov’è il nostro tricolore? Sulla mappa non c’è, a disdoro dello show della signora Meloni a sollazzo di Trump. E a più concreto disdoro della paccata di miliardi che ha riversato nelle saccocce di Zelensky e d’altri Bassotti profittatori.
È il momento della rassegnazione e del realismo: con le asinerie elettorali degl’italiani e la pochezza dei loro eletti, è tanta grazia se il tricolore italico continuerà a sventolare sul Quirinale, ormai obelisco alla repubblica che fu. Dalle caserme ve l’hanno già abbassato militari ormai obbedienti ai plenipotenziari di Bruxelles, equo biasimo al golpe di una Costituzione Europea che non abbiamo mai votato; dalle banche e da una miriade di grosse aziende l’hanno calato, insieme alle brache, imprenditori e dirigenti impigriti dal mendicantato d’alto bordone, così umiliante ma tanto, tanto profittevole.
Anime sante invocano una replica aggiornata del Tribunale di Norimberga per processarvi la Banda Zelensky. Che vi siano condannati per crimini di guerra e contro l’umanità, sintetizzati nella medesima locuzione accusatoria inchiodata ai nazisti hitleriani: «attentato contro la pace».
Anime terragne replicano il non-senso politico, giuridico e pratico di tale processo: è arduo allineare sul banco degl’imputati i mandanti e gli esecutori della filastrocca di guerre scatenate dall’indomani di Norimberga, nel complesso così numerose che soltanto all’oggi se ne contano 35 ancora in fiamme. Eppoi, in che Paese andremmo a prelevarvi giudici indipendenti? E rippoi: Zelensky e soci non vivrebbero abbastanza perché venisse il loro turno: hanno ucciso soltanto un milione di soldati e civili ucraini, a cospetto di genocidi che, per limitarci a quelli addebitabili a Usa & Mercenari, totalizzano 35 milioni di teste.
Accontentiamoci dei piccoli quanto simbolici e sempre postdatati atti riparatori alla nostra portata.
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AMERIKA DIXIT

Contrordine per la stampa atlantista: il Covid primigenio fu il parto dei cattivi scienziati cinesi e americani e francesi e canadesi che, alla fine degli anni Novanta, collaboravano, nel laboratorio internazionale di Wuhan, in Cina, al parto di un’arma chimica. È dunque falso quanto gli Usa hanno dichiarato sin dai tempi di Biden e sino a ieri, e cioè che il virus è colpa dei pipistrelli o di altro animaletto.
Tanto ha appena ammesso la Casa Bianca, sul proprio sito, nella sezione dedicata al Covid.
Una confessione che connota di conturbante l’impianto in Ucraina, al confine con la Russia, di similari laboratori ove si pasticcia con virus letali a uso militare.
Se il virus di Wuhan percorse quasi novemila chilometri per arrivare a noi, a quelli di Zelensky-Biden basterebbero meno di duemila chilometri per venirci a infettare.

 

 
17 aprile 2025

 

INTERVENTI

Onagrocrazia

A proposito dell’articolo del 16 aprile 2025, Se l’intervento del chirurgo dev’essere approvato dalla maggioranza degl’infermieri.

di Ausilio Negri

Convengo. La dittatura dei numeri, o degl’incompetenti se non anche degli egotisti essendo queste due categorie egemoni tra gli elettori, contrasta con la sana gestione di ogni comunità. Inoculare il virus del tutti uguali in un contesto di ricerca scientifica, dove dovrebb’essere incontrastato l’adagio “i geniali in cattedra”, è l’apoteosi della menzogna e dell’ingiustizia.
La medicina non può soggiacere all’onagrocrazia, non può avere come referente il popolo tutto, che democraticamente, cioè in termini di preponderanza numerica, non ha cognizioni per valutare e decidere. Al contrario la medicina deve essere appannaggio esclusivo di un selezionato insieme di scienziati, siano essi addetti a determinare le rotte della ricerca scientifica, la pratica della ricerca nonché la declinazione delle scoperte scientifiche nella prevenzione e nella terapia. La medicina, intesa come risposta complessiva al diritto alla salute, si autogoverni, analogamente al potere giudiziario. La medicina sia al servizio di tutti, giammai decisa da tutti.

risponde Gian Carlo Scotuzzi:

La tua chiosa mi consente d’inoltrarmi nel logico prosieguo degli episodi che ho narrato e da cui prendi spunto.
La giustizia è fulgido e codificato esempio di potere indipendente. Autonomo soprattutto dalla democrazia. Ma se questo primato di ciò che è ritenuto giusto e vero su ciò che è ritenuto meramente condiviso dai più venisse esteso alle discipline scientifiche conclamate ed esemplificate a quelle che ancora non lo sono si aprirebbe una breccia. Esempio: forse che l’economia non è una scienza? Se sì, ogni decisione sulla formazione della ricchezza e sulla sua ripartizione dovrebbe essere appannaggio di scienziati. Di quelli di rango massimo, se si tratta di timonare l’ambito più elevato della connivenza, cioè la gestione dello Stato, nonché, in prospettiva, dei sodalizi internazionali preposti al coordinamento fra Stati. Forse che l’istruzione non è una scienza? Forse che la logistica, inclusiva dei trasporti pubblici e privati, non esige scelte strategiche e gestione scientifiche? Forse che la stessa etica su cui si fonda lo Stato non è, anche e per condivisione acquisita della teologia evolutiva, intrisa di scienza? Per esempio: la scoperta dell’eliocentrismo ha smentito stuoli di papi, inducendo i loro successori a smettere di credere a scritture già sacre che ponevano la Terra al centro dell’universo. La scoperta che l’embrione non è un feto giovane ma soltanto la sua premessa ipotetica ha indotto la religione cattolica a consentire l’aborto, quantomeno quando è in pericolo la vita della madre. La smentita delle pseudo-dottrine scientifiche che indussero anche il Vaticano a considerare i neri razza inferiore e dunque a legittimare la schiavitù, ne ha provocato l’abiura.
Certo, il cammino verso la sconfitta di tutto che è non-scientifico, come il primato delle merci sugli uomini, ribadito anche dalla nostra Costituzione repubblicana (e rafforzato dalla Costituzione Europea che la rimpiazza) è ancora lungo. Ma il binomio Scienza-Etica alta avanza.
Tiriamo le conclusioni: visto che è la scienza a produrre le parti principali della macchina statale è insensato affidarne la guida a non-scienziati ignari di cosa c’è sotto il cofano, e che, ignorando pure la mappa territoriale, scelgono il percorso senza riguardi per la bussola scientifica.
Quesiti oziosi e ormai noiosi, per chi come noi da anni opera al perseguimento degli obiettivi che tali interrogativi delibano. Obiettivi alti, ahinoi invisibili al popolobue, inguardabili dai suoi governanti.
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ERESIE DA ROGO

Sabato 12 aprile l’ex ministro francese all’Istruzione (2002-2004), Luc Ferry, oggi collaboratore fisso al quotidiano Le Figaro, nonché titolare di una rubrica settimanale su TF1 (il più seguito canale del Paese) ha detto, tra l’altro, due frasi che hanno avvampato la stampa atlantista ed europeista:
«È stata l’Ucraina a scatenare la guerra contro la Russia, aggredendo sin dal 2014 la popolazione russofona del Donbass, che all’epoca era una regione dell’Ucraina». E, contestando i giornali e i politici che danno del nazista al capo del Cremlino: «Putin non è Hitler. È un dittatore d’accordo, ma non ha mai ucciso 6 milioni di ebrei, mentre l’Ucraina era sulla buona strada».
Il riferimento è alla subordinazione dell’Ucraina alla Germania durante l’ultima guerra, nel corso della quale il governo di Kiev massacrò un milione di persone, in gran parte russe, e per il resto soprattutto ebree.
Ferry, che tra 20 giorni compirà 74 anni, è docente emerito di filosofia all’Università di Paris-VI.

 

16 aprile 2025

 

IL VIRUS DELLA DEMAGOGIA AMMORBA PURE LA SCIENZA

Se l’intervento del chirurgo deve essere approvato dalla maggioranza degl’infermieri

Cronache di ordinarie, criminali follie, dalla Cina alla Lombardia.

di Scot

In principio era il verbo di Mao e il verbo era sacralizzato dalla conta dei consensi. Chi ne incassava di più aveva sempre ragione. Si sarebbero figurati di mettere ai voti anche la velocità della luce, al diavolo le leggi della fisica. Dalla teoria alla pratica, in una fabbrica di trattori: i nuovi modelli non vengono più progettati dai migliori ingegneri, ma da tutti i lavoratori dello stabilimento, compresi gl’ingegneri. Che sono infima minoranza, perennemente prona alla maggioranza di operai. Che votano per alzata di mano il progetto che gli pare, avulso da valutazioni tecnico-scientifiche, che non sono in grado di formulare, ma espressione di emozioni, come la simpatia verso un dirigente piuttosto che un altro, e come considerazioni di tornaconto: voto il progetto di Liu perché Liu mi ha promesso un avanzamento di carriera.
I successori di Mao, che ne avevano esasperato il pensiero per aizzare il popolo basso per farsene insediare al posto suo, erano furbastri in malafede, ma non stupidi. Per cui, una volta conquistato il timone,  buttarono a mare la scemenza della democrazia in fabbrica, prima che la piaga si replicasse persino negli ospedali, dove a dire l’ultima parola sulla miglior terapia per ogni paziente non sarebbe stato il primario, e neppure l’insieme dei medici, bensì la maggioranza dei lavoratori dell’ospedale. Ogni testa un voto, che a esprimerlo sia un luminare della medicina o un analfabeta. Abbasso la dittatura dei camici bianchi, viva tutti i dipendenti dell’ospedale: infermieri, inservienti, cucinieri, manutentori eccetera. Compresi anche i medici, certo, purché stessero al loro posto di esigua minoranza sempre soccombente. I voti si contano, non si pesano. Purché ‒ ecco il correttivo apportato dai successori di Mao alla democrazia assoluta ‒ gli elettori votino giusto. Cioè approvino le scelte del Partito, che sta alla democrazia autentica come una baldracca al convento. Se voti sbagliato, finisci in carcere o al muro. Con questo sistema la Cina “democratica e popolare” ha fatto un boom economico che continua a rintronarci. È la prima potenza economica mondiale e, le riuscisse di diventarlo anche sul piano militare, dovremmo, anche noi e voi, rassegnarci a studiare il cinese. Chissà, forse saremmo felici in una democrazia perfetta, appagati nella forma, giacché tutti anelli di una catena condivisa.
Esagero? Sentite questo episodio, frutto della più genuina vocazione cronachistica. È accaduto in Lombardia, in un ospedale pubblico. Infermieri, quasi-infermieri e inservienti, nonché ogni altro dipendente non laureato in medicina, sono la stragrande maggioranza. In gran parte sindacalizzata, sparpaglia le adesioni tra una pletora di sigle sindacali, inflazionando l’ospedale di una coorte di sindacalisti la cui esclusiva occupazione consiste nel negoziare in permanenza tutto che i gestori ospedalieri ordinino, propongano, esigano o pretendano. I gestori, che hanno studiato strategia aziendale sui manuali di Mao, profittano di tanta vivacità e stupidità rappresentativa perché consente loro di riscuotere, enfatizzati, i medesimi tornaconti personali che la massa dei dipendenti incassa in dosi omeopatiche. Ne pagano prezzo modesto: qualche aumento salariale, sempre inferiore all’inflazione, occhi chiusi sulle inadempienze dei sindacalisti più caldi e assunzione privilegiata dei figli di quelli caldissimi. La contropartita, per i dirigenti, è cospicua: stipendi da nababbi, interessenze ‒ mai eccepite da magistrato alcuno, sia chiaro, dunque presuntivamente legalissime ‒ sul flusso di denaro destinato alla manutenzione ordinaria e straordinaria del nosocomio.
In questo contesto dove le piaghe dei malati sono maggiorate da mancanze e vessazioni che qualche volta, e sempre con massimo e prudente garbo, la stampa riferisce, e dove i medici s’impinguano di visite a pagamento e ancor più di fughe ‒ in gran parte legalizzate, come certe truffe ‒ prestazionali nelle cliniche private, in questo merdaio sanitario dunque, successe che scoppia il malessere tra gl’infermieri del reparto ortopedia. Scatenato da questo andazzo: un infermiere paga profumatamente i colleghi che accettano di lavorare anche al posto suo, cioè di accollarsi anche il suo turno dopo aver terminato il loro, mentre lui va a lavorare abusivamente in una clinica privata. Così incassa due salari: quello dell’ospedale pubblico e quello della clinica, particolarmente gonfio perché in nero. Gli otto sindacalisti che rappresentano le altrettante sigle del reparto vanno dal direttore dell’ospedale lombardo.
Il direttore li previene:
‒ Sì, ho saputo, avete ragione. Finito di parlare con voi chiamo l’infermiere ubiquo dell’ortopedia e gl’intimo di mollare la clinica privata!
‒ No, non è ciò che siamo venuti a chiedere. Al contrario, vogliamo sia consentito a tutti gli infermieri del reparto di lavorare anche in una clinica privata.
‒ E nel mio ospedale chi ci lavora?
‒ Ecco la nostra proposta: l’orario settimanale degl’infermieri, ora diluito su cinque giorni, viene concentrato in due e mezzo, così per il resto della settimana possono andare a lavorare in cliniche private.
‒ Ma dopo un normale turno di lavoro l’infermiere è stanco, non riesce a reggerne un secondo consecutivo, o comunque non nelle condizioni di attenzione ed efficienza richieste dal dovere e dai diritti del paziente, ancor prima che dal contratto.
‒ Vorrà dire che, durante il secondo turno, ogni tanto andranno a fare un riposino sdraiandosi sui letti del reparto non occupati.
‒ Non ce n’è. Anzi, fuori c’è una lista di malati che attendono si liberi un letto per essere ricoverati.
‒ Vorrà dire che libererete una stanza per riservarla agli infermieri assonnati.
Si tratta, i sindacati ottengono e concedono, nel senso che s’impegnano a non vedere ulteriori sconcezze gestionali; la direzione concede e ottiene, nel senso che avrà licenza di negare ai malati ulteriori prestazioni, o di fargliele pagare. Ovviamente l’intesa è verbale. Non si può mettere nero su bianco che l’ospedale passa agl’infermieri due stipendi, l’uno per lavorare, l’altro per dormire, pardon, per riposarsi.
E durante i due giorni in cui gl’infermieri titolari sono in clinica privata, chi si occupa dei pazienti nell’ospedale pubblico? Infermieri d’accatto, racimolati qui e là, pagati poco e alla chetichella, giacché non si può contrattualizzare regolarmene un lavoratore a rimpiazzo di un altro lavoratore che formalmente è al suo posto.
Sia spiegato a coloro che non hanno mai patito un reparto ortopedico di ospedale pubblico. In condizioni normali, che sono quelle anormali consentite da governi che dai tempi di Berluska non fanno che tagliare risorse agli ospedali pubblici, in questi è di rigore l’emergenza. Un allettato, sofferente e impossibilitato ad alzarsi dal letto, spesso deve invocare a lungo la padella prima che l’infermiere trovi il tempo di portargliela e poi di svuotargliela. Immaginate quanto deve urlare, ’sto poverocristo, colpevole di non-solvenza, per fare la pipì e la cacca senza lordare le lenzuola quando l’infermiere invocato dorme, pardon, si riposa, due stanze più in là, magari con la porta chiusa.
Ho raccontato un eccesso da codice penale, che suppongo ormai mendato, così come lo suppongo compensato da similari porcate, visto che infermieri, micro-sindacati criminali e dirigenti sono rimasti gli stessi, o quantomeno della stessa pasta. Ma resta rivelatorio dei guasti generati dall’adulazione della democrazia popolare, tributata del diritto d’imporsi con la mera forza del numero.
Per questo giorni fa mi ha di nuovo orripilato l’ossimoro Medicina Democratica, sparuto sodalizio fiorito sull’estremismo egalitario degli anni Sessanta. Ma tuttoggi impazzante.
Il 7 aprile una comitiva d’italiani issanti il vessillo di Medicina Democratica è andato in gita a Bruxelles. Appuntamento dinanzi ai quartieri generali della Sanità dell’Unione europea e dell’OMS, propaggine dell’ONU. Missione: invocare maggiori finanziamenti pubblici alla prevenzione e alla cura delle malattie. In dettaglio, i gitanti hanno replicato nella capitale belga quanto da mesi replicano, in coro con quota cospicua di cittadini d’ogni colore politico: è indecente che l’Europa destini 800 miliardi di euro al riarmo invece che alla sanità e ad altro benessere sociale, così condannando alla malacura o alla non-cura milioni di altri malati. Spiegano i Medici Democratici:
‒ A fronte degli eccessi della privatizzazione a oltranza, è ormai non rinviabile l’attribuzione della gestione sanitaria al popolo.
Quale popolo? Quello dei malati che, rincoglioniti dal dolore e dall’urgenza, sono a malapena capaci d’intendere e di volere e che comunque sono d’accordo in tutto e con tutti pur di recuperare la salute? O il popolo dei lavoratori della sanità, disposti a tuttissimo, persino al sonno retribuito, pur di portarsi a casa palanche aggiuntive? O il popolo dei dirigenti sanitari, il cui unico, assillante assillo è gonfiare retribuzioni da supermanager con pluridimore a Parigi, Antille e California? O il popolo dei sindacalisti che loro tiene bordone? O il popolo dei politicanti, virtuosi del saccheggio che hanno profittato persino della pandemia per intermediare allo Stato mascherine e vaccini da macero? O il popolo degli elettori, che per metà non muovono neppure il culo per andare a votare e che per l’altra metà eleggono i ladroni di sempre o i loro famigli?
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13 aprile 2025

 

I PRIMI CINQUANT’ANNI DEL PROCESSO ALLA STRAGE DI BRESCIA

La Nato è uguale per tutti

di Scot

Benché la signora Laura Castelletti, sindaca di Brescia, goda reputazione di normodotata e a 63 anni sia in età di senno maturo, il 3 aprile è salita al balcone del Palazzo Loggia, sede municipale, e, dando spalle alla piazza sottostante e avendo cura di propiziare all’inquadratore televisivo di centrare il portico dove il 28 maggio 1974 una bomba della Nato macellò otto persone, ha plaudito ai trent’anni di galera comminati a Marco Toffaloni, ritenuto il posatore della bomba.
Un encomio suggestivo di disabilità cognitiva. Per questi tre motivi:

1.
Dallo smorire del secolo scorso la comunità scientifica internazionale ha accertato che la strage bresciana fu episodio, neppure tra i più cruenti, di una provocazione sanguinaria ordita dalla Nato in tutt’Europa. Obiettivo: terrorizzare gli elettori e indurli a un riflesso d’ordine, sì da approvare, o quantomeno non contrastare, provvedimenti autoritari e anticostituzionali che altrimenti avrebbero respinto.
La Nato non firmò mai le stragi col proprio nome. Ne appaltò l’esecuzione ai singoli Stati, che a loro volta le subappaltarono a gruppi eversivi di estrema destra. Subappalti formali, a fini di propaganda elettorale. Questi gruppi non erano affidabili, formati com’erano da entusiasti d’accatto, con risibile o nullo addestramento militare e con scarso cerebro. Facevano pasticci anche quando gli si consegnava un ordigno bell’innescato con l’incarico di trasportarlo da qui a là. A Brescia, per esempio e per rimanere in prossimità del teatrino della povera Castelletti, un giovane fascista saltò in aria sulla bomba che trasportava stretta tra le gambe, sul pianale della Lambretta.
Consapevole di quanto questa esibita rete eversiva neofascista fosse da operetta, gli Stati furono costretti ad ammettere che sì, in parte e quando necessario, gli apprendisti terroristi erano coadiuvati e assistiti da terroristi professionisti, dipendenti dallo Stato. Postillando l’ammissione di questa amena correzione: «Formalmente dipendenti dello Stato sì, ma nella sostanza auto-emarginati in corpi separati.»
Corpi separati è locuzione insensata, è ossimoro da popolobue. Infatti fu subito cooptata nel gergo dei politici, dei giornalisti e degli avventori di ogni Bar Sport. Che significa corpi separati? È come se io ti pugnalassi a morte e poi invocassi dinanzi al giudice che a spingere la lama nel torace non sono stato io, bensì la mia mano che ha secessionato dal mio corpo. Arto separato, appunto, che proclamandosi tale fa assolvere il resto del corpo cui appartiene. Il guaio è, come detto, che il popolo, sempre in questua di favole, ha bevuto subito anche questa. E invece di cacciare governi arruolati nel terrorismo Nato, li consolarono: «Su, coraggio, non è colpa vostra se vi ritrovate in pancia i cancerosi corpi separati! Estirpiamoli insieme!»
Il PCI, che non vedeva l’ora di conquistarsi i galloni di partito candidato al governo, fu particolarmente deliziato da questa trovata dei corpi separati. Che locuzione strategica!
Sto narrando leggende? Tutt’altro. Sono acquisizioni scientifiche declinati in sentenze internazionali e documentate in molti tomi, alcuni in versione divulgativa, come quello dello svizzero Daniele Ganser, Gli eserciti segreti della Nato, che passa in rassegna, Stato per Stato, le organizzazioni stragiste organiche alle pubbliche amministrazioni. Altro che separate!
Il libro di Ganser è reperibile anche nelle librerie e nelle biblioteche bresciane.

2.
In cinquant’anni la signora Castelletti non ha mai trovato il tempo di documentarsi sulla strage bresciana, collocandola nel suo contesto internazionale? Lo faccia: eviterebbe di tributare ai giudici il merito di aver punito l’ultimo, per ora, esecutore materiale del delitto. Invece, se si acculturasse e osasse un fremito di coraggio e di coerenza, tirerebbe le orecchie a una giustizia che, in oltre mezzo secolo, non sa altro che incarcerare qualche manutengolo da subappalto. Mai che abbia messo dietro le sbarre i mandanti, cioè i militari della Nato e i loro complici politici, mai che abbia processato almeno un connivente di secondo piano. No, a disdoro di mezzo secolo d’indagini e di riti processuali ha sempre fronteggiato la nostra sete di giustizia col contagocce dei contentini, se l’è sempre presa con marginali d’accatto, figuri di ultimo piano, comparse dello stragismo, se non strumenti inconsapevoli di un disegno che ignoravano nella sua complessità e nelle sue finalità.

3.
La sentenza encomiata dalla povera Castelletti è una presa in giro. Il condannato, Marco Toffaloni, non può scontare la pena. Perché la persona che era nel 1974 non esiste più. Nel 1974 aveva 17 anni. Oggi ne ha 67. È scomparso anche anagraficamente. Da anni ha cambiato identità, assumendo il cognome della moglie svizzera. Il fu Marco Toffaloni si chiama Franco Maria Müller. Da decenni non risiede più neppure in Italia, ma a Igis, frazione di Landquart, nei Grigioni. Né la giustizia italiana ha speranze di ottenerne l’estradizione: perché il delitto ascritto al Toffaloni minorenne, nonché ereditato all’anziano Müller, è prescritto. Diversamente che da noi, oltr’Alpe associano il concetto di giustizia a tempi dignitosi di applicazione. E una sentenza emessa a oltre mezzo secolo dal fatto imputato sta agli antipodi della dignità e dell’equo processo.
Se Herr Müller non può venire in Italia, vada la signora Castelletti da lui. Potrebbe farsi raccontare un fracco di retroscena acclaranti, e imbarazzanti per gli ambienti politici di cui fu intrenseca. Il sabato sera lo trova alla trattoria Krone. Si mangia bene e l’ambiente è ricettivo anche con i disabili, compresi i politici ignavi che al rigore della conoscenza preferiscono lo svacco nella misconoscenza e dell’(in)giustizia di regime, così prodighe di preferenze elettorali. Si troverà a proprio agio.
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12 aprile 2025

 

OMS, ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ / 2

Covid, un grimaldello sociale di cui i potenti della Terra non vogliono privarsi

di Ausilio Negri *
ausilionegri@gmail.com

A integrazione dell’articolo di ieri, firmato con l’accorciativo di Gian Carlo Scotuzzi, annoto quanto segue.
La pandemia di Covid è evento epocale non tanto per le sue implicazioni sanitarie mondiali. Vero che ha infettato 777 milioni di persone; vero che ne ha uccise da 7 milioni, secondo l’ufficialità dell’OMS, a 20 milioni, secondo le stime del suo direttore generale, che non si capisce come possa divergere così abissalmente dai suoi contabili; vero è che è stata talmente malgestita, da ogni governo e da ogni autorità sanitaria (OMS in prima fila), che tutti costoro non si sono ancora messi d’accordo sulla sua genesi né sui vaccini per contrastarla; negligenza questa che, alla luce di un ritorno della pandemia, è inquietante.
Tanto pressappochismo e tanto fallimento nel contrastarla credo si spieghino non tanto con il dispregio del capitalismo globale verso la Sanità, ma con l’esigenza dei padroni della Terra di cogliere la palla al balzo (sicuramente lanciata da loro stessi, forse con esiti preterintenzionali) per picconare i plinti delle conquiste sociali. Non si spiegano altrimenti:
‒ l’indifferenza dell’OMS e compari sulle cause della pandemia;
‒ il terrorismo mediatico, che ha indotto nei popoli resistenza risibile a provvedimenti liberticidi inediti, a cominciare dal confinamento coatto di persone sane;
‒ l’esasperazione dell’imputazione di responsabilità primaria alla Cina (inizialmente assolta, a scapito di untori misteriosi), quando il laboratorio di armi chimiche di Wuhnan, culla del Covid, è una joint-venture tra i militari di Washington e quelli di Pechino, modello espansivo di quelli impiantati in Ucraina da americani ed europei.
Il terrorismo era alimentato da previsioni catastrofiche e dalla reiterazione di statistiche che, non comparate, hanno indotto la pubblica opinione ad accettare, oltre alla reclusione domestica, anche la sospensione di ogni giudizio critico.
Sette o venti milioni di morti in tre anni e mezzo di pandemia sono tanti, su una popolazione di otto miliardi e su quasi 800 milioni di ammorbati. Ma vanno rapportati a morìe che, politicamente, noi ascriviamo al capitalismo genocidario: per esempio, nei 41 mesi di pandemia, cioè da fine 2020 a metà 2023, l’ecumene ha registrato 4,6 milioni di morti in incidenti stradali, 10,5 milioni di omicidi bianchi (caduti sul lavoro), e un consuntivo ancor più nero di accoppati in 35 guerre, che i belligeranti si sono ben guardati bene dal confinare, cioè dal sospendere.
La prospettiva di un revival del Covid, dato per scientificamente certo dal direttore dell’OMS, dice quanto il protagonismo politico delle classi subalterne debba attendersi di essere svogliato, a pretesto di una replicata emergenza sanitaria, dal fare resistenza alla marcia trionfale del neocapitalismo globale, nonché ai nazionalismi emergenti che simulano di contrastarlo.

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Ausilio Negri, docente emerito, giornalista, saggista. Vive e lavora a Vicenza.

 

11 aprile 2025

 

OMS, ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ

I rinfocolai della pandemia delle mascherine

di Scot

‒ Signore, per favore, non mi si avvicini! Sta tornando il Covid!
La donna con la mascherina che incrocio salendo sul tram sbarra gli occhi nella mimica esortatrice a prenderla sul serio. Non è la sola. Da giorni il popolo dei mascherati milanesi s’infoltisce. Colpa ‒ o merito, per gl’ipocondriaci ‒ di un etiope che il 3 aprile scorso ha compiuto i 60 e il cui verbo è sacro per l’ecumene rispettosa dell’ONU e della sua branca sanitaria, l’OMS. Di cui l’etiope è direttore generale. Si chiama Tedros Adhanom Ghebreyesus.
Originario di Asmara, in Eritrea, esibisce credenziali carrieriste cospicue quanto conturbanti. A 21 anni è già ben inserito nella ristretta nomenclatura che dilapida il Paese. A libro paga del governo, trova il tempo di laurearsi in biologia, poi di acchiappare una specializzazione in immunologia a Londra. A 40 anni è ministro della Sanità. Ammiratore del nostro mostro sparagnino Quintino Sella, taglia le modeste spese sin qui destinate alla cura degli etiopi poveri, cioè quasi tutti. Che inondano le strade contestandolo.
Lui manda la polizia a sparacchiarle. Esito: 500 morti e 70 mila arresti. Il capo del governo lo salva dal linciaggio promuovendolo al ministero degli Esteri. Su questa poltrona si fa apprezzare da molti capi di Stato atlantisti, che nel 2017 lo issano alla direzione generale dell’OMS. Dove si limita a sussistere, anzi a ipersussistere, negli agi del suo quartier generale di Ginevra, punteggiati da viaggi dorati in ogni capitale. Con le quote sociali versate dai 193 Stati aderenti all’OMS (l’Italia sborsa 25,5 milioni di dollari l’anno), Tedros spende molto, a giudicare dai consuntivi, ma poco per i malati poveri e per la prevenzione delle malattie. Certo, innalza, nel cuore di un’Addis Abeba corollata da catapecchie, un Palazzo Unicef (branca dell’OMS) lungo cento metri e alto 8 piani, ma buono soltanto a fare da sfondo promozionale al vicino centro congressi. Dove periodicamente fanno una capatina gli ospiti internazionali, alloggiati negli hotel pluristelle che non mancano qui come in ogni altra plaga di miseria del terzomondo, conferma che dove ci sono i miseri accorrono i profittatori corresponsabili della miseria.
Un giorno la stampa mondiale, satura dei gozzovigli e dei safari fotografici offerti dal governo, chiede di corredare le lodi al Palazzo Unicef con qualche foto. No, risponde il funzionario governativo, non si può entrare per ragioni sanitarie.
Bugia: il Palazzo è sbarrato perché dentro non c’è nulla; o comunque niente che abbia a che vedere con il lenimento sanitario delle piaghe dei bambini dell’Etiopia. Dove la fame è endemia consolidata, la mortalità infantile svetta al 3,7% (in Italia: 3,1 per mille!), dove le donne sono sfiancate da 3,8 figli a testa (in Italia: 1,26), dove miseri ospedali offrono 3 letti ogni 10 mila abitanti (in Italia: 31), e via elencando cifre da perenne conflitto bellico.
Per placare i nostri fotografi bloccati fuori dal Palazzo Unicef il governo ordina: Mostrategli il bel camion-frigo-medicale che il nostro Tedros ci ha regalato: serve a portare medici e macchinari diagnostici e farmaci ovunque ci sia bisogno nel Paese.
Ma il camion è impolverato in un deposito: rotto. È fermo da tanto di quel tempo che per farlo ripartire non basta cambiare la batteria. Ordina il funzionario: Caricatelo su un carro-attrezzi e portatelo comunque qui. E piantateci vicino una tenda di pronto soccorso, che si veda ch’è sempre operativo!
Detto fatto: Ecco, cari amici giornalisti, l’orgoglio della nostra puntuale assistenza sanitaria peripatetica. Il funzionario sale la scaletta del furgone, apre la porta posteriore e subito la richiude. Dentro non c’è nulla, salvo un tavolino, una sedia e poco più. Per carità! Che la stampa mondiale non immortali questa beffa!
Niente paura: lo stuolo dei pennivendoli al traino dell’OMS sa bene cosa va relatato e soprattutto cosa va taciuto. Né ride del pretenzioso gazebo a fianco, uguale e preciso a quelli degli alpini e dei leghisti che si esibiscono in piazza a mendicare obolo e consenso.
Gli ordini di Tedros sono sempre perentori. Adora i dittatori. Infatti tra i primi provvedimenti da direttore generale OMS c’è la nomina ad «ambasciatore di pace» (sic!) di Robert Mugabe, il dittatore dello Zimbabwe che negli anni Ottanta fece massacrare 10 mila civili dissenzienti, così guadagnandosi la taccia di genocida; viene scalzato dal palazzo presidenziale soltanto dopo avervi impazzato per quarant’anni.
Quando scoppia la pandemia Covid, Tedros prende una cantonata mostruosa: afferma che è un falso allarme, che la Cina non effonde nel mondo alcun virus e che i governi occidentali sbagliano a chiuderle i loro aeroporti. Non che Tedros si sia convertito al comunismo: è finito anche sul libro paga della Cina. I libri contabili non bastano quando si ha famiglia folta e famelica, in competizione con l’esosità di sostenitori politici senza i quali non muovi passo in alcun palazzo, ad Addis Adeba come a Ginevra.
Ed eccoci all’oggi, cioè all’altr’ieri. L’8 aprile spara Tedros alla stampa mondiale, stavolta comandata a replicare, non a censurare:
‒ È una certezza epidemiologica: prima o poi arriverà la seconda pandemia Covid.
‒ Quando?
‒ Non si sa. Forse tra vent’anni.
Gl’ipocondriaci tirano sospiro di sollievo. Ma Tedros aggiunge:
‒ O forse domani.
Di qui il panico. E lo sfregamento di mani dei politici che dal Duemila si sono arricchiti vendendo allo Stato tonnellate di mascherine, peraltro in gran parte mai distribuite perché malfabbricate. I più callidi pensano di recuperarle dai magazzini e di rivendergliele, al nuovo Stato dissipatore, che paga meglio dei farmacisti.
Che Io li strafulmini, ’sti ladri di passo, insieme ai loro mandanti elettorali.
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8 aprile 2025

 

IL SEDICENTE PARLAMENTO EUROPEO

Disonorevoli passacarte, deputati ad arricchirsi

di Scot

‒ Dimmi, Lucadolfo, perché il tuo babbo, quando non sta in Padania a spendere soldi, fa spesso capatine in giro per il Continente?
‒ Va a procurarseli, i soldi. Fa la comparsa in un parlamento fasullo. Anzi, in due parlamenti: uno a Bruxelles, l’altro a Strasburgo.
‒ È ubiquo o non sa decidersi tra due scranni?
‒ No, fanno tutti così. Un mese si riuniscono in un città, il successivo nell’altra.
‒ Che senso ha questo su e giù?
‒ Boh. Sicuramente ne ha per l’impresa di traslochi. Due volte al mese mette in strada una filastrocca di camion che pare un’occupazione militare. Fa la spola tra i due parlamenti. Sono transumanze bibliche. Pensa che devono imballare e caricare tonnellate di documenti qua e poi sballare e ordinare là. Ogni volta smontano e rimontano gli uffici di migliaia di pendolari d’oro, incluse segretarie, guardie del corpo, portaborse e altra gente che nessuno ha mai capito perché venga strapagata.
‒ Dev’essere stressante…
‒ Sì, gli riconoscono, ai deputati europei e al loro codazzo, due indennità supplementari. L’una per lenire la sindrome del pesciolino rosso nella boccia, cioè dell’andirivieni sempre da un posto all’altro. Un’altra indennità compensa la depressione che attanaglia quanti vengono presi per il culo. Cioè: gli passano un megastipendio da legislatore europeo ma non gli consentono di fare le leggi.
‒ Me le leggi europee ci sono…
‒ Sì, ma mica le redigono né le approvano i parlamentari. Ci pensano i padroni autentici dell’Europa: i colossi della finanza, dell’industria, della spremitura dei contribuenti, dei nuovi colonialisti in virtuale tuta mimetica che pianificano il saccheggio globale…

Tronchiamo qui questa chiacchierata, peraltro datata, fra due giovani fancazzisti lombardi. E veniamo al nocciolo dell’assunto da loro delibato per trovarvi spiega al consolidato e rituale saccheggio delle casse dell’Unione europea da parte di uno stuolo di avvoltoi: dai parlamentari ai partiti politici che li esprimono alle cosche elettorali che li eleggono in cambio di provvidenze sottratte ai bisogni primari di popoli che non capiscono un’acca. O, se qualcosa capiscono, sono indifferenti a devastazioni sociali che indurrebbero ogni cittadino onesto e coerente ad andare per le cattive, visto che con le buone, cioè con le schede elettorali, non glielo consentono. In tanto svacco barbarico dove gli unici a non rubare sono coloro che non sono capaci di farlo o non osano o sono talmente emarginati da non accorgersi neppure dei furti, in questo melmaio, sto dicendo, le Marine Le Pen, che dall’Unione ritirano stipendi per lavori non fatti, sono la regola, non l’eccezione. L’UE è una baldraccona che ogni accaparratore vorrebbe sbattersi. Con una differenza: che Marine si è fatta beccare da asina, perché non ha saputo rispettare quelle regole minime senza le quali neppure una consorteria abborracciata di ladri di polli riuscirebbe a procurarsi i pennuti per l’arrosto. Mentre il grosso degli emicicli (sono due, come detto) sono supermercati del lusso dove gl’inquilini ritirano senza passare alla cassa, sempre però rispettando i canoni della buona creanza complice. Non insaccocciano tutto per sé, l’ho detto: devono pagare i loro elettori, in termini di regalie, provvidenze, leggine, aiuti. Ma questo mal comune non assolve. Al contrario, chiama a correo. L’allevatore della Valcamonica che raccoglie le preferenze per il candidato alle europee e poi ne riceve, in cambio, i soldi per costruirsi una villa ‒ abusiva, ça sans dire ‒ spacciata per stalla, non è meno colpevole di Marine o del babbo di Lucadolfo.  Anche perché il malaffare europeo è dilatazione geografica ed enfasi degli andazzi nazionali, dove impera la regola del tornaconto familista. Per cui, per estirpare il male alla radice, non resta che risanare il merdaio continentale prima togliendo di mezzo la primigenia fonte inquinante, cioè la…
(continua, ma inter nos)
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L’Unione fa la forza del malaffare

di Scot

L’Unione Europea è un sodalizio incostituzionale, alla luce delle Costituzioni di tutt’i Paesi che la compongono. Tali Costituzioni statali si basano infatti su questi tre capisaldi irrinunciabili:
1.
Sono votate dalla maggioranza degli elettori.
Ma la Costituzione Europea (detta anche Trattato Europeo), è stata approvata soltanto dai popoli di tre Paesi:
‒ la Spagna, il 20 febbraio 2005. Con un referendum partecipato dal 42,7% degli elettori, che hanno votato sì al 76,7%. Dunque soltanto il 32,4% degli spagnoli ha approvato il Trattato;
‒ il Lussemburgo, il 10 luglio 2005, dove il sì referendario ha riscosso il 56,62%; affluenza: 90,44%.
(L’entusiasmo dei lussemburghesi, che all’epoca erano in tutto 465 mila, più 80 mila immigrati portoghesi stabili senza cittadinanza e dunque senza diritto di voto, si spiega con l’impegno della UE a conservare al Lussemburgo il segreto bancario, ossigeno in un paradiso fiscale specializzato nel coprire la criminalità finanziaria.)
‒ l’Irlanda, il 2 ottobre 2009; Sì: 67,13%; affluenza: 59%.
(Nel referendum di otto mesi prima gl’irlandesi avevano bocciato il Trattato al 59,61%; il voltafaccia si spiega con una raffica di ricatti governativi, inclusivi di perdita di posti di lavoro conseguenti a delocalizzazione e di smantellamento di ogni assistenza pubblica.)
Il progetto di Costituzione Europea è stato invece formalmente respinto:
‒ dalla Francia: referendum del 29 maggio 2005, dove i No hanno prevalso al 54,68%; affluenza: 69,37%;
‒ dall’Olanda: referendum del 1° giugno 2005, dove i No hanno vinto con il 61,54%; affluenza: 63,3%.
Nei restanti Paesi la Costituzione Europea non è mai stata sottoposta al giudizio del popolo, ma è stata ratificata dai rispettivi parlamenti, che per farlo hanno dovuto declassare la Costituzione Europea a banale intesa intergovernativa, dunque a fonte giuridica di secondo livello, dunque subordinata alla Costituzione nazionale. Ne deriva che ogni norma della Costituzione Europea in contrasto con la Costituzione di un Paese, qui è nulla: ogni cittadino ha il sacrosanto diritto-dovere di non rispettarla, pena incorrere nel reato di alto tradimento della propria Costituzione nazionale.
2.
Il secondo pilastro di ogni Costituzione nazionale, cioè l’unico genere di Costituzione degno di questo nome, è che si articola in tre poteri autonomi: legislativo, esecutivo e giudiziario.
Ma:
2.1. Il sedicente parlamento europeo è monco delle prerogative fondamentali di ogni assemblea legiferante. Infatti.
2.1.1. Non ha potere di iniziativa legislativa. E un parlamento che non legifera è un controsenso.
2.1.2. Non elegge l’esecutivo, e men che meno può revocarlo e controllarlo.
2.2. Il governo dell’UE, cioè la Commissione Europea, oltre a non render conto al parlamento, come visto, non è espressione diretta né indiretta dei popoli dei Paesi membri, ma è insediato dalla comunità affaristica comunitaria, cioè dai cosiddetti Poteri Forti, estranei alla democrazia e al controllo popolare.
Questa mancanza di autonomia tra i poteri, nonché l’assenza delle prerogative minime che a tali poteri spettano, annulla la compatibilità della Costituzione Europea anche con quelle nazionali di Spagna e Lussemburgo e Irlanda, pure basate sulla divisione dei poteri e dove dunque la potestà legislativa è l’essenza del parlamento, unica fonte di legittimità del potere esecutivo.
È sacrosanto dunque affermare che la Costituzione Europea è priva dei tratti costituzionali fondanti di tutt’i Paesi europei.
3.
Ulteriore elemento di incompatibilità tra il Diritto e la Costituzione Europea: non è corollata dagli organi che, nei singoli Stati, garantiscono l’equilibrio fra i tre poteri fondamentali:
‒ un presidente comunitario dotato, in analogia con i presidenti delle singole repubbliche, di potestà di controllo di ogni atto legislativo ed esecutivo, nonché di diritto-dovere di intervento annullativo, ovunque riscontri abuso o eccesso di potere.
‒ una Corte Costituzionale dotata, in analogia con le Corti delle singole repubbliche, di potere censorio e di intervento nei confronti di ogni altro potere dello Stato.
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CORRELATO:

DA LE MONDE DEL 5 APRILE 2005

Marine Le Pen condannata: l’ineleggibilità è l’effetto, il reato la causa

Dopo la sentenza di condanna della leader del Rassemblement National, il partito mette in opposizione democrazia e diritto, denunciando l’impedimento di presentarsi alle elezioni presidenziali del 2027 della propria candidata. Ma questo eclatante effetto non deve mascherare l’illegalità dei fatti giudicati.

Olivier Beaud *
giurista

traduzione di Rachele Marmetti

Come prevedibile, le reazioni alla sentenza del 31 marzo con cui il tribunale di Parigi ha condannato Marine Le Pen si sono concentrate soprattutto sulla pena accessoria dell’ineleggibilità per cinque anni, con effetto immediato. La ragione è evidente: la decisione del tribunale ha per effetto d’impedire alla presidente del Rassemblement National (RN) all’Assemblea Nazionale di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali. La sentenza ha provocato l’ira non solo dell’interessata, ma anche dell’“internazionale populista” (Russia, Ungheria e Stati Uniti), che all’unisono ha denunciato come questa sentenza metta in pericolo la democrazia.
Concentrandosi esclusivamente solo sulla pena accessoria si corre però il rischio di dimenticare la condanna principale: quattro anni di reclusione, di cui due da scontare agli arresti domiciliari, per «sottrazione di fondi pubblici». I cittadini hanno il diritto di conoscerne le motivazioni. La sentenza spiega in dettaglio perché il Front National (FN), nel frattempo diventato Rassemblement National (RN), ha scientemente organizzato, sotto l’egida della sua leader, un sistema di appropriazione indebita di fondi pubblici.
In particolare, la sentenza precisa che il partito ha «posto a carico del parlamento europeo, sotto forma di contratti fittizi di assistente parlamentare, dipendenti che lavoravano in realtà per esso». Da questo punto di vista, i fatti enunciati dai giudici sono schiaccianti e non si vede come la sentenza possa essere riformata in appello.

Rendere efficace la sanzione

La lettura della sentenza è istruttiva in quanto mette in luce il comportamento degli imputati che, da un lato, hanno sistematicamente negato l’evidenza e dall’altro hanno incentrato la difesa sull’idea che ci sarebbe una sorta di immunità (i giudici la chiamano «impunità») della classe politica. In risposta, ed è una delle osservazioni ricorrenti della sentenza, il tribunale ha ripetutamente obiettato che gli eletti, nell’attuale democrazia francese, non godono di alcuna irresponsabilità (l’immunità dei parlamentari, prevista dall’articolo 26 della Costituzione, non è in questo caso applicabile) ma, all’opposto, sono penalmente responsabili, come qualsiasi comune cittadino. Il fatto di essere stati eletti non li pone al di sopra della legge. La difesa degli imputati sosteneva (più o meno apertamente) il contrario, in sostanza rivendicava un trattamento privilegiato rispetto al resto dei cittadini.
Il comportamento degli imputati è stato ritenuto contrario al nuovo diritto politico, che si potrebbe chiamare “diritto costituzionale etico”, che si sta affermando ormai da un decennio. Questo diritto, promosso in particolare dalle leggi Sapin 1 [1993] e Sapin 2 [2016], mira a rafforzare la probità dei rappresentanti eletti e dei governanti, istituendo procedure e organismi – come l’Alta Autorità per la trasparenza della vita pubblica, nata nel 2013 – e punendo più severamente i governanti che commettono reati ascrivibili alla criminalità governativa. Il minimo che si possa dire è che il comportamento dei rappresentanti eletti dell'FN andava controcorrente rispetto a questo orientamento del diritto e che ora ne stanno pagando le conseguenze, senza che il cittadino sensibile al rispetto delle leggi della repubblica ne debba essere turbato.
La fondatezza della condanna all’ineleggibilità, dichiarata immediatamente esecutiva, era evidentemente più delicata da dimostrare. Da un lato i magistrati hanno giustamente ricordato che una delle ragioni dell’esecuzione provvisoria è la necessità di rendere efficace la sanzione. Paradossalmente, non pronunciarsi per l’esecuzione immediata avrebbe comportato che, qualora Marine Le Pen fosse stata eletta presidente della repubblica, la sanzione penale sarebbe rinviata per molto tempo, grazie all’immunità presidenziale nei cinque anni del mandato, quindi sarebbe stata inefficace.

Interpretazione contestabile

D’altro canto, sebbene la sentenza citi la riserva d’interpretazione inserita nella decisione del Consiglio costituzionale del 28 marzo 2025, secondo cui la sentenza d’ineleggibilità non deve pregiudicare in modo sproporzionato «la salvaguardia della libertà dell’elettore», i magistrati l’hanno interpretata in modo discutibile non tenendo conto di questa considerazione, che è tuttavia decisiva per il diritto degli elettori. Inoltre, il fatto di qualificare, come fa la sentenza, la possibile candidatura alle elezioni presidenziali di una persona condannata in tribunale un’«irreparabile turbativa dell’ordine pubblico democratico» può apparire discutibile.
Fatte queste riserve, bisogna tuttavia essere consapevoli che i giudici si sono trovati, loro malgrado, di fronte a un dilemma pressoché insormontabile. Hanno dovuto dirimere un contrasto sorto per l’inaspettato conflitto tra una legislazione inasprita nel senso del controllo dell’esemplarità dei governanti – che dovevano applicare – e il comportamento delittuoso dei leader di un partito politico, marginale all’epoca dei fatti e da allora in piena ascensione – che dovevano giudicare.
È stato il legislatore a stabilire queste pesanti pene di ineleggibilità e ancora lui ha introdotto un’eccezione al principio dell’effetto sospensivo dell’appello, aprendo alla possibilità di un’esecuzione immediata di una sentenza. Non dovremmo prendercela con il parlamento invece che con i magistrati?
In realtà i magistrati del tribunale di Parigi hanno fatto del loro meglio, attenendosi al diritto nient’altro che al diritto. Dire quanto Marine Le Pen ha detto al TF1 il 31 marzo che questa sentenza «è una violazione completa dello stato di diritto» è una stupidaggine. La lezione più importante di questo processo è che la leader dell’RN e i suoi coimputati hanno mostrato durante tutta la vicenda un profondo disprezzo del diritto. Oggi sono all’opposizione. Cosa potrebbe accadere il giorno in cui salissero al potere?

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Olivier Beaud è docente di diritto pubblico all’università Parigi-II Panthéon-Assas. Tra le sue pubblicazioni, Le savoir en danger. Menaces sur la liberté académique [Il sapere in pericolo. Minacce sulla libertà accademica], Presses universitaires de France, 2021.

 

3 aprile 2025

 

DA RÉSEAU VOLTAIRE

Inizia in Francia il disgregamento della democrazia occidentale

di Thierry Meyssan

Nel 2005 i francesi e gli olandesi respinsero con un referendum il Trattato che istituiva la Costituzione per l’Europa. Ma nel 2007 le assemblee parlamentari francese e olandese adottarono il medesimo testo, di poco modificato, rinominatoTrattato di Lisbona. È stata la prima volta, dalla fine della seconda guerra mondiale, che le classi dirigenti, quella francese e quella olandese, hanno manifestato disprezzo per il popolo.
Nei 19 anni successivi la situazione non ha fatto che peggiorare, soprattutto durante l’epidemia di Covid-19 del 2020. All’epoca le classi dirigenti reagirono con un discorso totalmente svincolato dalla realtà: presentava questa malattia come devastante, alla stregua della grande peste, e imponeva un unico medicinale a RNA-messaggero, spacciato per vaccino. Infine i politici decretarono, con il sostegno della comunità medica, il confinamento obbligatorio delle persone sane.
Nel 2022, tre giorni dopo l’inizio dell’operazione militare russa contro i nazionalisti integralisti ucraini, tutti gli Stati membri dell’Unione Europea, tra cui ovviamente la Francia, vietarono il canale televisivo Russia Today, sia via etere sia via internet; una decisione che viola la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In Francia fu in seguito vietata anche la rete C8, colpevole di essere una voce fuori dal coro.
Ora tre giudici francesi hanno deciso di impedire alla favorita per le elezioni presidenzialidi candidarsi. Non è stata certamente una loro iniziativa isolata: l’associazione magistrati li aveva invitati a «bloccare l’estrema destra» e, anche in questo caso in violazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il Consiglio costituzionale aveva convalidato il principio della sospensione provvisoria dei diritti civili in primo grado. Va rilevato che Marine Le Pen è stata condannata per fatti commessi all’epoca da tutti i partiti politici, senza eccezioni.
Con questa sentenza i magistrati hanno manifestato un sovrano disprezzo per il popolo in nome del quale affermano di rendere giustizia.
Sentendo la corda stringersi attorno al collo, i leader francesi protestano contro il pericolo che li minaccia tutti, ma non sono in grado di fare nulla.
Vediamo le reazioni al di fuori della Francia. Il Cremlino ha denunciato una «violazione delle norme democratiche». Il primo ministro ungherese Viktor Orban ha postato sul suo social network: «Je suis Marine»; il vice primo ministro italiano Matteo Salvini ha postato: «Non lasciamoci intimidire, non fermiamoci: avanti tutta amica mia!». Elon Musk, responsabile del Dipartimento per l’efficienza del governo (DOGE), ha lamentato un «abuso da parte del sistema giudiziario». Donald Trump ha dichiarato: «È una faccenda molto seria. Fa pensare al nostro Paese. Sì, evoca molto quanto accade nel nostro Paese».

traduzione di Rachele Marmetti