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da Le Monde 16 giugno 2025 (titolo modificato) |
FRANCIA: DAL RE SOLE ALLA REGINA EUROPA
Dove lo Stato sbaracca, non restano che i samaritani sul camper
Nel massiccio dei Maures (Var) un servizio mobile cerca di aiutare la popolazione locale a sbrigare gli adempimenti burocratici, in un momento in cui molte amministrazioni pubbliche hanno chiuso gli sportelli e le procedure digitali, diventate la norma, trasformano molti cittadini in marginali.
di Sylvia Zappi
traduzione di Rachele Marmetti
Il camper è parcheggiato sotto i platani, non lontano dal monumento ai caduti. Fuori un tavolo da camping e due sedie. In questo pomeriggio di inizio giugno, il camper France Services, gestito dalla Mutualité Sociale Agricole (MSA), è di servizio nella piazza principale di Gonfaron (Var). Uno sportello unico mobile, presidiato da due funzionari, sostituisce ben 11 servizi pubblici, le cui sigle adornano le fiancate del veicolo: Cassa sussidi familiari, Assicurazione pensioni, France Travail, ministero delle Finanze, ministero dell’Interno, ministero della Giustizia, Assicurazione malattia… All’interno, al posto dei letti a castello due ripiani per computer portatili. Sotto le foto di paesaggi, stile cartoline postali, un poster contro le violenze domestiche e un violentometro: un righello graduato per individuare gli indizi di una relazione violenta.
Il camper è qui solo da dieci minuti e già arriva il primo utente: un uomo in tuta mimetica sale a bordo, una cartelletta in plastica sotto il braccio, Albert (le persone che citiamo con il solo nome proprio non hanno voluto darci il cognome), viticoltore di 55 anni, è preoccupato per un contributo previdenziale che ha pagato e che non compare nel suo cassetto fiscale. «Devo fare anche una dichiarazione per gli assegni familiari, ma non so cosa scriverci» spiega, estraendo un fascio di documenti. Il funzionario chiede informazioni sulla moglie, che lavora come stagionale per la spollonatura delle viti: «L’ha dichiarato? Ci serve una fotocopia del libretto di famiglia». Mentre Albert è al telefono per chiedere alla moglie di mandargli la foto del libretto, entra un uomo massiccio, accompagnato dalla figlia con un monopattino.
Naouel è un habitué. Va nel panico davanti al computer: «Ho ricevuto una mail dall’Assicurazione-malattia, ma non capito cosa vogliono. Ho mandato tutto quello che mi hanno chiesto». «Non si preoccupi, le hanno scritto che la sua pratica è stata presa in carico», gli risponde Gabriel Peschaud, dipendente della MSA. L’impiegato mi spiega che Naouel si precipita da loro non appena riceve una mail da un ufficio pubblico: «Si perde in un bicchier d’acqua, come molti che si rivolgono a noi, ha paura di sbagliare».
«Un evidente problema di mobilità»
Una volta ogni due settimane Gabriel Peschaud e il suo collega sono in servizio a Gonfaron per aiutare questi naufraghi digitali. Che si tratti di una lettera del servizio sanitario, di una pratica di pensione, di una dichiarazione dei redditi, di una richiesta di passaporto o di modulo da compilare per ottenere il Reddito di solidarietà attiva (RSA) [prestazione sociale che integra il reddito di una persona indigente o con poche risorse], le richieste sono varie quanto le amministrazioni che lo sportello unico del camper rappresenta. In questa terra di vigneti e di villaggi dai tipici colori del meridione, la popolazione è modesta, anziana e poco preparata all’uso delle nuove tecnologie. Diversi borghi del massiccio dei Maures hanno visto la progressiva chiusura di molti uffici pubblici – un ufficio postale qui, un ufficio delle imposte là – e la diffusione delle procedure digitali ha separato ancora di più i cittadini dal servizio pubblico. Per cercare di tamponare la situazione, nel 2021 la Cassa sussidi familiari e la prefettura hanno deciso di istituire uno sportello mobile, denominato France Services, dove le persone possono ricevere assistenza per le pratiche amministrative.
Per identificare le aree più vulnerabili è stata elaborata una mappa dello «svantaggio sociale». Con un tasso medio di disoccupazione del 14%, con una popolazione anziana (il 37% ha oltre 60 anni) e poco acculturata (il 31% non ha un diploma) è stato facile individuare i bisogni. «Negli otto comuni selezionati esiste un evidente problema di mobilità: molti utenti non hanno l’auto o non possono guidare. Con la disparità d’accesso alle tecnologie informatiche, aggravata dalla digitalizzazione sempre più diffusa, accedere ai diritti è diventato una sfida», spiega Lucille Brigando, responsabile delle relazioni con il pubblico di MSA.
Recarsi a Tolone per un problema che non si è riusciti arisolvere sul proprio computer, a quaranta minuti di macchina o a due ore di trasporti pubblici, è una vera e propria spedizione. Per molti utenti, anche soltanto accedere con una password, ricevere un SMS di conferma per poi navigare tra moduli on-line, è un’impresa. Lo conferma il numero in costante aumento delle persone che ogni due settimane si rivolgono al camper France Services: nel 2024 il personale dello sportello itinerante ha trattato 3.434 richieste, ovvero oltre 18 persone al giorno.
«Ci si sente utili»
Il 5 giugno è una nuova squadra che porta il camper a Carnoules. Sul piccolo spiazzo davanti al modesto auditorium municipale, Eliane Denise, 83 anni, aspetta pazientemente con la borsa della spesa di tela. Non capisce perché il suo account Ameli è stato disattivato. «Volevo comunicare la morte di mio marito un mese fa…» racconta Eliane, sedendosi all’interno del camper. Laurence Audemar, dipendente di MSA, le chiede se ha un cellulare. «No, è mio figlio che mi aiuta, da Parigi». «Lo chiamiamo noi» la rassicura l’impiegata. La pensionata mormora: «Meno male che ci sono loro. Prima non sapevo da chi andare per farmi aiutare».
Una figuretta in jeans chiari e gilet coordinato entra nel camper. Yolaine è venuta a chiedere informazioni sul suo assegno di solidarietà. «È da luglio scorso che mando documenti, me ne chiedono sempre uno nuovo» racconta con voce rotta. L’impiegata le fa notare che ha ricevuto l’estratto conto del suo fondo pensione e che deve salvarlo lasciando aperta la finestra del sito web.
Davanti al suo sguardo smarrito, la dipendente prende il suo telefono per eseguire l’operazione al suo posto; poi le spiega che occorreranno quattro o cinque mesi prima che il sussidio le venga accreditato. «Ma come faccio? Ho una pensione di 199 euro al mese. Non posso lavorare perché non ho soldi per riparare la macchina» si sfoga Yolaine, dettagliando la sua travagliata vicenda lavorativa: segretaria presso un’agenzia immobiliare, estetista, commessa, cuoca, operaia agricola… Laurence Audenar la guarda allontanarsi: «In questi paesi ci sono molto precariato e molte persone sole. Gli assistenti sociali sono sovraccarichi e le indirizzano a noi».
La sua collega, Amanda Icars, è d’accordo: «Qui ci occupiamo di situazioni complicate e abbiamo più tempo che in ufficio. Le persone sono talmente contente che qualcuno le ascolti che sono più indulgenti. Ci si sente utili» sottolinea la trentenne. Arrivano persone tutto il giorno, entrano uno alla volta. Un bracciante nordafricano, accompagnato dal figlio per farsi capire meglio, una decoratrice di ceramiche che si è messa in proprio e non sa compilare la dichiarazione dei redditi, due funzionari tecnici della pubblica istruzione cui mancano dei trimestri di contributi… Sebbene le due funzionarie si dicano felici di essere distaccate al servizio mobile due volte la settimana – si alternano in otto – non possono non constatare che la latitanza della pubblica amministrazione è sempre più estesa sul territorio dove svolgono il servizio: «Il camper è un’alternativa a questa assenza. Se vi si ricorre è perché lo Stato si sta disimpegnando sempre più».
«Società di merda»
A Le Luc il venerdì è giorno di mercato. Di solito è in questa piccola cittadina di 11 mila abitanti che il servizio mobile accoglie più utenti. «Questo camper è il nostro coltellino svizzero. Ne abbiamo davvero bisogno perché il servizio pubblico lascia scoperti sempre più settori, e sono i più fragili a subirne le conseguenze più dolorose. Così lo Stato si affida sempre più spesso alle amministrazioni locali» osserva Dominique Lain (Les Républicains), sindaco di Le Luc. «E questo si aggiunge allo smarrimento che affligge tante persone, soprattutto i pensionati» aggiunge il sindaco.
La frustrazione e la sensazione di essere esclusi sono ricorrenti nelle testimonianze che abbiamo raccolto. Tra gli utenti dei servizi del camper aleggia un sentimento di “era meglio quando si stava peggio”, che trova eco nei discorsi del Rassemblement National (RN) [partito di estrema destra], molto apprezzati in questa cittadina. Il Var è una delle zone in cui l’RN prende più voti. Nelle elezioni legislative di giugno 2024 ha fatto il pieno: sette degli otto seggi della camera sono stati conquistati dall’estrema destra. «Il peso dell’RN qui si sente, soprattutto grazie al suo discorso semplicistico sulla disgregazione della società francese» ammette il sindaco di Le Luc, che si dice «non molto tranquillo per le elezioni comunali del 2026». Il deputato locale dell’RN, Philippe Lottiaux, ha sentito parlare del camper ma lo considera una «misura di ripiego, un succedaneo dei servizi spariti».
Nel camper France Services è entrata Sabine, 70 anni, equipaggiata con una bombola d’ossigeno portatile. Deve cambiare indirizzo sulla sua pratica di riconoscimento di handicap. «Questo servizio mobile è utile, ma prima c’erano piccoli uffici dove ci si poteva informare. Ora centralizzano e chiudono tutto, siamo allo sbando! Viviamo in una società di merda» si sfoga la settantenne. «Non sono razzista, ma non è richiesto di parlare francese per ottenere aiuto» aggiunge un’altra donna appena entrata. Dietro di lei una signora bionda, gestrice di una società di movimentazione terra, sussurra «Oggi c’è meno gente, è la festa dell’Eid [festa mussulmana che celebra il sacrificio di Abramo]. Stanno cucinando le loro cose», l’impiegata finge di non sentire, ormai è immunizzata.
Davanti al camper un marocchino di 54 anni aspetta paziente nella sua camicia bianca. Spiega di essere venuto perché i figli, che sono ancora in Marocco, non hanno ricevuto gli assegni famigliari. «Negli ultimi tre mesi non ha lavorato per un periodo sufficiente» gli spiega con dolcezza l’impiegata. L’immigrato le chiede a voce bassa: «Scrivimelo, per favore».
CONTROCRONACA: OGGI A BOLOGNA
Operai codardi
di Scot e Rac
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da CounterPunch 12 giugno 2025 (USA) |
I campi di concentramento offshore dell’America
di Chris Hedges *
traduzione di Rachele Marmetti
I nostri campi di concentramento per ora si trovano in El Salvador e nella baia di Guantanamo, a Cuba. Ma non aspettatevi che vi restino. Una volta normalizzati, cioè usati non solo per gli immigrati e i residenti deportati dagli Stati Uniti, ma anche per i cittadini statunitensi, migreranno in patria. Il passo per far diventare le nostre prigioni, già zeppe di abusi e maltrattamenti, campi di concentramento – dove i detenuti scompaiono, isolati dal mondo esterno, privati di assistenza legale e ammassati in fetide e sovraffollate celle – è molto breve.
I prigionieri dei campi in El Salvador sono costretti a dormire sul pavimento, o segretìgatiin isolamento, al buio. Molti hanno la tubercolosi, soffrono di infezioni fungine, scabbia, malnutrizione grave e malattie digestive croniche. I detenuti, tra cui oltre 3.000 bambini, vengono nutriti con cibo rancido. Subiscono percosse. Secondo Human Rights Watch, vengono torturati, anche con il waterboarding [annegamento simulato], o immersi nudi in barili di acqua gelida. Nel 2023 il Dipartimento di Stato descrisse la detenzione in El Salvador «pericolosa per la vita» già prima della dichiarazione dello «stato di emergenza» da parte del governo salvadoregno, a marzo 2022. La situazione si è notevolmente «esacerbata», osserva il Dipartimento di Stato nel citato rapporto, in conseguenza dell’«aumento di 72 mila detenuti successivo alla dichiarazione dello stato di emergenza». Secondo l’organizzazione locale per i diritti umani Socorro Jurídico Humanitario, dallo stato di emergenza dichiarato dal presidente salvadoregno Nayib Bukele nell’ambito della «guerra alle bande», circa 375 persone sono morte nei campi di detenzione.
Questi campi – il Centro de Condinamiento del Terrorismo (Centro di Confinamento del Terrorismo), noto come CECOT, dove gli Stati Uniti mandano i loro deportati, ospita circa 40 mila detenuti – questi campi, dicevo, sono il modello, l’avvertimento di quanto ci aspetta.
Il metalmeccanico e sindacalista Kilmar Ábrego García, rapito il 12 marzo 2025 [negli Stati Uniti] davanti al figlio di cinque anni, è stato accusato di essere membro di una gang e spedito in El Salvador. La Corte Suprema conferma la sentenza del giudice distrettuale Paula Xinis, che ha ritenuto la deportazione di García «atto illegale». I funzionari dell’amministrazione Trump l’attribuiscono a un «errore amministrativo». Xinis ordina all’amministrazione Trump di «facilitare» il rientro del metalmeccanico. Ma questo non significa che García rientrerà negli Stati Uniti.
«Spero che non mi stiate suggerendo di fare entrare di contrabbando un terrorista negli Stati Uniti», ha dichiarato il presidente salvadoregno Bukele alla stampa, in occasione dell’incontro con Trump alla Casa Bianca. «Come potrei farlo entrare clandestinamente? Come potrei riportarlo negli Stati Uniti? Come se potessi introdurlo clandestinamente negli Stati Uniti! Beh, ovviamente non lo farò… la richiesta è assurda».
Questo è il futuro. Quando un segmento della popolazione viene demonizzato – compresi i cittadini statunitensi che Trump etichetta «criminali autoctoni» – quando viene privato della sua umanità, quando lo si considera incarnazione del male, nonché una minaccia esistenziale, il risultato è che questi «contaminanti» umani vengono rimossi dalla società. La colpevolezza o l’innocenza riconosciute dalla legge sono irrilevanti. Nemmeno l’essere cittadini statunitensi offre protezione.
«Il primo passo essenziale sulla via verso il dominio totale è uccidere la persona giuridica nell’uomo» scrive Hannah Arendt in Le origini del totalitarismo. «Questo è stato fatto.Da un lato mettendo certe categorie di persone al di fuori della protezione della legge e forzando allo stesso tempo, attraverso lo strumento della denazionalizzazione, il mondo non-totalitario a riconoscerne l’illegalità. Dall’altro collocando i campi di concentramento fuori dal sistema penale e selezionando i detenuti fuori dalla normale procedura giudiziaria, ove un reato definito comporta una pena prevedibile.»
Chi costruisce campi di concentramento costruisce società basate sulla paura. Diffonde incessantemente allarmi su pericoli esiziali, sia che provengano dagli immigrati, dai mussulmani, dai traditori, dai criminali comuni o dai terroristi. La paura si diffonde lentamente, come un gas sulfureo, fino a contagiare le interazioni sociali e provocare paralisi. Ci vuole tempo. Nei primi anni del Terzo Reich, i nazisti gestivano dieci campi con circa 10 mila detenuti. Ma dopo essere riusciti a schiacciare tutti i centri di potere concorrenti – sindacati, partiti politici, stampa indipendente, università, chiesa cattolica e chiesa protestante – il sistema dei campi di concentramento esplose. Nel 1939, quando scoppiò la seconda guerra mondiale, i nazisti gestivano 100 campi di concentramento con circa un milione di detenuti. Dopo furono i campi di sterminio.
Chi crea questi campi sa anche propagandarli efficacemente. Sono progettati per intimidire. La brutalità è il loro punto di forza. Dachau, il primo campo di concentramento nazista, non fu, come scrive Richard Evans in The Coming of The Third Reich [La nascita del Terzo Reich, Mondadori, 2019] «una soluzione improvvisata a un problema inaspettato di sovraffollamento delle carceri, ma una misura pianificata da tempo, immaginata dai nazisti sin dall’inizio. Ampiamente pubblicizzata anche attraverso la stampa locale, regionale e nazionale, servì da severo monito a chiunque contemplasse l’idea di resistere al regime nazista».
Agenti dell’Immigration and Customs Enforcement (ICE), in borghese e su auto-civetta, rapiscono residenti legali come Mahmoud Khalil. Sono rapimenti identici a quelli di cui sono stato testimone nelle strade di Santiago del Cile, sotto la dittatura di Augusto Pinochet, o di San Salvador, capitale di El Salvador, durante la dittatura militare.
L’ICE si sta rapidamente trasformando nella versione locale della Gestapo o del Commissariato del Popolo per gli Affari interni (NKVD) sovietico. Supervisiona 200 strutture di detenzione. È una formidabile agenzia di sorveglianza interna che ha accumulato dati sulla maggior parte degli americani, secondo un rapporto del Center of Privacy & Technology della Georgetown University.
«Accedendo agli archivi digitali statali e locali, nonché acquistando database con miliardi di dati da aziende private, l’ICE ha creato un’infrastruttura di sorveglianza che gli consente di raccogliere dossier dettagliati su pressoché chiunque e in ogni momento» si legge nel rapporto. «Per arrestare e deportare, l’ICE ha avuto accesso, senza alcun controllo giudiziario, legislativo o pubblico, a database contenenti informazioni personali sulla stragrande maggioranza delle persone che vivono negli Stati Uniti, semplicemente perché hanno chiesto la patente, guidato sulle strade pubbliche o si sono registrate per ottenere servizi pubblici locali come riscaldamento, acqua ed elettricità.»
Le persone rapite, tra cui una cittadina turca, dottoranda alla Tufts University, Rümeysa Öztürk, sono oggetto di accuse generiche, come «attività a sostegno di Hamas». Sono furbizie, accuse non più reali dei crimini inventati sotto lo stalinismo, dove alcuni erano accusati di appartenere al vecchio ordine sociale – kulaki o membri della piccola borghesia – altri, come i trotskisti, i titoisti, gli agenti del capitalismo o i sabotatori, chiamati «demolitori», erano condannati per aver complottato contro il regime. Quando una categoria viene presa di mira, i crimini di cui vengono accusate le persone che vi appartengono, ammesso che ci si prenda il disturbo di accusarle, sono quasi sempre inventati.
I detenuti dei campi di concentramento vengono isolati dal mondo esterno. Non esistono, sono cancellati. Addirittura, è come se non fossero mai esistiti. A quasi tutti i tentativi di ottenere informazioni su di loro la risposta è il silenzio. Anche la loro morte, quando muoiono durante la detenzione, è anonima, è come se non fossero mai nati.
Quelli che gestiscono i campi di concentramento, come scrive Hannah Arendt, sono persone senza curiosità o prive della capacità mentale di formarsi un’opinione. «Non sanno cosa significhi maturare una convinzione» osserva la filosofa: sanno solo obbedire, condizionati ad agire come «animali perversi». Sono inebriati dall’onnipotenza di trasformare esseri umani in greggi di pecore impaurite.
L’obiettivo di qualsiasi sistema di campi di concentramento è distruggere ogni caratteristica individuale, plasmare le persone in masse spaventate, docili e obbedienti. Le prime strutture operative sono campi di addestramento per guardie carcerarie e agenti dell’ICE. Qui imparano le tecniche brutali progettate per infantilizzare i detenuti, un’infantilizzazione che presto deformerà l’intera società.
Ai 250 presunti membri di una gang venezuelana spediti in El Salvador, in spregio a una sentenza della corte federale, è stato negato un processo equo. Sono stati frettolosamente caricati su aerei, che hanno ignorato l’ordine del giudice di inveeertire la rotta; una volta arrivati a destinazione i deportati sono stati spogliati, picchiati e rasati a zero. Il cranio rasato è una caratteristica di tutti i campi di concentramento. La scusa sono i pidocchi. Ma ovviamente è un modo per spersonalizzarli, infatti indossano anche uniformi e sono identificati da numeri.
L’autocrate si crogiola senza remore nella propria crudeltà. «Non vedo l’ora di vedere quei criminali terroristi e psicopatici ricevere 20 anni di carcere per quello che stanno facendo a Elon Musk e a Tesla» ha scritto Trump su Truth Social. «Magari potrebbero scontare la pena nelle prigioni di El Salvador, di recente diventate famose per le loro condizioni davvero piacevoli!»
Coloro che costruiscono campi di concentramento ne vanno fieri. Li esibiscono alla stampa, o almeno agli adulatori che si spacciano per giornalisti. La segretaria alla Sicurezza interna, Kristi Noem, che ha pubblicato un video di se stessa in visita alla prigione salvadoregna, ha usato i detenuti a torso nudo e con la testa rasata come comparse per dimostrare quanto possono far male le sue minacce contro gli immigrati. Se c’è una cosa che il fascismo sa fare bene, è lo spettacolo.
Prima gli immigrati. Poi gli attivisti con visti per studenti stranieri nei campus universitari. Poi i titolari di green card. Poi i cittadini statunitensi che combattono il genocidio israeliano o il fascismo strisciante. Poi sarà il tuo turno. Non perché hai infranto la legge. Ma perché la mostruosa macchina del terrore ha bisogno di un costante rifornimento di vittime per alimentarsi.
I regimi totalitari sopravvivono combattendo eternamente minacce mortali ed esistenziali campate in aria. Una volta eliminata una minaccia, ne inventano un’altra. Si fanno beffe della legalità. I giudici, almeno fino a quando non vengono epurati, hanno la possibilità di denunciare l’illegalità, ma non hanno alcun meccanismo per far rispettare le loro sentenze. Il Dipartimento di giustizia, affidato alla servile Pam Bondi, fedele sostenitrice di Trump, è, come in tutte le autocrazie, organizzato per impedire l’applicazione della legge, non per facilitarla. Non ci sono più ostacoli legali a proteggerci. Sappiamo dove tutto questo porterà. Lo abbiamo già visto. E non è niente di buono.
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Chris Hedges è stato capo dell’ufficio mediorientale del New York Times. Ha fatto parte del team di giornalisti del New York Times insigniti nel 2002 del Premio Pulitzer. Parla arabo, per sette anni ha coperto il conflitto tra Israele e Palestina, per la maggior parte del tempo da Gaza. Ha scritto 14 libri, i più recenti sono: The Greatest Evil Is War (non tradotto);A Genocide Foretold: Reporting on Survival and Resistance in Occupied Palestine (Un genocidio annunciato: Storie di sopravvivenza e resistenza nella Palestina occupata, Fazi Editore, 2025).
MILANO DA SBALLO
4,6 minuti a testa
di Scot e Rac
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TUTTI A WASHINGTON PER LA PARATA MILITARE
Sfila anche la Brigata degl’Italiani che Viaggiano a Sbafo
di Scot
Marceranno o faranno le belle statuine 6.600 soldati. Romberanno 150 veicoli da guerra. I carrarmati Brahams e altri cingolati grattugeranno l’asfalto, il cui ripristino contribuirà per un terzo ai 45 milioni di dollari (39 di euro) del costo della sfilata. In cielo frulleranno 50 elicotteri tra Apache e Black Hawk. Poi uno stormo di jet. Spunteranno a quota nana, ricalcando medesima, discreta, infida rotta: da sud-sud-est a nord-nord-ovest lungo la quale 24 anni fa il babbo di un pilota odierno tirò un missile sul Pentagono. Lo centrò sul lato della Marina, opportunamente svuotato perché gl’inquilini non si facessero male. Evacuazione replicativa di quella pure ordinata la vigilia alle Torri Gemelle. Vi lasciarono poco più di mille inquilini sui 50 mila che vi risiedevano ogni giorno lavorativo alle 9 del mattino, quando i timer della Cia cominciarono a detonare la sequela di bombe che avrebbe collassato, in verticali perfette, tre grattacieli costruiti a prova di schianto aereo. Eppure è a due aerei cargo, telecomandati e vuoti e coi finestrini finti pitturati sulle carlinghe, che la messinscena governativa imputò il crollo. Ma si afflosciò anche un terzo grattacielo, che non fu colpito da alcun aereo, semplicemente perché quello a ciò programmato non era riuscito a decollare. Lo nascosero subito in un hangar fuorimano, vi cancellarono i finestrini e lo rimandarono a fare il mestiere di fattorino. Addio sogni di gloria postuma al cimitero dei velivoli-martiri.
Idem al Pentagono. Anche qui il ministero della Propaganda diede la colpa a un aereo passeggeri. Fantasma. Alcun testimone lo vide mai, che nessuna telecamera riprese, ma che nessun argomento scientifico e razionale mai sarebbe riuscito a sbugiardare agli occhi del popolo dei creduloni. Com’è possibile che un aereo di linea, largo una sessantina di metri, abbatta cinque edifici lasciandoci un tunnel di due metri e mezzo? E dove sono i suoi rottami? Domande inudibili per popoli emozionoidi, cioè allocchiti da emozioni antagoniste della ragione. Sarebbe come eccepir loro che il signor Cristo non resuscitò Lazzaro, né moltiplicò ‒ per partenogenesi? per clonazione? fulminee ‒ pani e pesci né sgorgò ettolitri di vino da brocca vuota, sennò da duemila anni non ci sarebbero coltivatori di grano né mugnai né pescatori né vignaiuoli.
Eppure è il 250° compleanno delle forze armate dei massimi bugiardi e terroristi del mondo moderno, che allestirono gli auto-attentati dell’11 settembre 2001, che domani si festeggia a Washington. Concediamo che, tra il folto dei creduloni patologici, si siano insinuati resistenti alla follia, e che eccepiscano: «D’accordo, l’11 Settembre fu hollywoodata indispensabile a far accettare a popoli tendenzialmente pacifisti, per non dire codardi irresponsabili, guerre di aggressione che i politici responsabili ritenevano necessarie. Ma adesso le cose sono cambiate: lo Zio Sam e la sua sfilza di nipotini in Europa hanno smesso di fare birichinate e imputarle ai nemici. Non ordiscono più quelle che i militari e i politici con le stellette chiamano Operazioni di False Flag, cioè sotto falsa bandiera».
Balle. La Nato ha scatenato i mercenari ucraini ad aggredire la Russia, che se ne è difesa; la Nato ha dinamitato i metanodotti marini (costruiti da Russia, Germania e altri Paesi europei) per importare dall’Est metano a buon mercato; la Nato (compreso il governo Meloni, ovvio) continua a fornire a Israele le armi che gli hanno sinora consentito di massacrare 64 mila palestinesi, in ritorsione a un attentato (7 ottobre 2023) di False Flag, cioè che il governo israeliano propiziò, se non direttamente pilotò per «risolvere la questione palestinese» così come il nazismo volle risolvere quella ebraica: Hitler deportando gli ebrei in Madagascar o altrove, il governo Netanyahu deportando i palestinesi in Egitto, Giordania o altrove…
Vi percepisco irritati e scalpitanti: Ma dove sto andando a parare? che c’entra questa sgradita filippica rievocativa delle nefandezze storiche e odierne dell’Occidente? Cos’ha a che vedere con la parata di domani a Washington?
Niente. Le torme di italioti che hanno trovato il modo di farsi spesare dal governo Meloni o dalle amministrazioni locali la trasferta nella capitale degli Stati Uniti pretestando «dovere di presenza politica», in realtà vi fanno presenza godereccia. Cosa non si farebbe per volare in prima classe, sparapanzarsi in alberghi a 50 stelle, famiglia al seguito e tutto gratis, spesati in ristoranti sontuosi nei quali la maggioranza del popolo statunitense non ha dollari per metter piede! E poi sono lì a incettare quattrini e sinecure. Complice la rituale corte sciacquina di pennivendoli, i nostri Viaggiatori a Sbafo, Mendicanti di Lusso, cercheranno d’insinuare, sottotraccia in un comunicato qui, in un’intervistina là, profferta d’ulteriore servaggio. In cambio di prebende per sé, per la famiglia, per i famigli e giù giù, ma proprio in fondo, per elettori a ciotola tesa verso ogni sperata brocca di Cana.
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Se Renzi cerca lavoro
Un giornalista francese, peraltro autore di libri d’inchiesta che hanno svelato misfatti politici e militari di portata ecumenica, nonché conduttore di primario sito internazionale di controinformazione, un giorno si rese conto che i suoi scritti on-line erano molto letti e condivisi. Ma non redditizi. Ogni volta che tentava di aggiogare i lettori a un abbonamento pagante, li perdeva. Pretendevano disporre gratis di buona stampa. Allora l’Autore, che senza indipendenza economica non avrebbe avuto di che permettersi quella giornalistica, si risolse a offrire i propri servigi professionali ai governi che gli erano ideologicamente vicini, o quantomeno accettabilmente lontani. Lo faceva accusando gli agognati committenti di non saper fare il loro lavoro o di non saperlo fare bene; lavoro che invece lui, il questuante, conosceva benissimo. E che dunque ‒ sottinteso ‒ lui avrebbe potuto aiutarli a svolgere meglio, se non svolgere completamente al posto loro. In questo modo, ottenne consulenza sul teatro bellico della Jugoslavia invasa, poi da Gheddafi, entrando addirittura nel governo biblico come esperto mediatico, indi dal governo siriano.
All’oggi: non ho idea dove questo Autore, che peraltro continua a produrre a un alto livello qualitativo, reperisca i soldi per tirare avanti.
È a questo grande giornalista francese che nei giorni scorsi ho pensato quando, a Milano, ho ascoltato un breve comizio teatrale di Matteo Renzi, già primo ministro romano in conto atlantico.
Renzi ha reiterato la catena concettuale che sintetizzo: «Ho grande rispetto per il governo Meloni; purtroppo Meloni non sa fare politica estera; io ho dimostrato e continuo a dimostrare di saperla fare; io sono disposto a collaborare con il governo Meloni».
Persino io, che non sono un’aquila della politica, mi sono sentito autorizzato a sospettare che Renzi aspiri a una di queste cose: o farsi cooptare da Meloni nel governo, o farsi assumere come consulente, o farsene ascoltare come consigliere disinteressato, o farsene preporre alla guida di qualche ente protagonista della politica internazionale, o farsene sponsorizzare la nomina in analogo organismo europeo.
Ma, chiedo a me e a voi: uno con i trascorsi e le entrature di Renzi possibile che, per inoltrare una domanda di lavoro o una raccomandazione a Meloni, abbia bisogno di fittare un teatro milanese? E, aggravante: c’era bisogno di prendere la scusa di esprimere solidarietà ai palestinesi, macellati da un governo israeliano con il quale Renzi è sempre stato, e continua a essere, pappa e ciccia?
(gcs) |
MERCATINO DEI VOTI
Urina e giornali
di Scot
I ladri pavidi hanno solo un modo per campare: derubare chi non può impedirglielo. Le Asl della grassa padania tagliano i fondi ai malati deboli. Per esempio hanno sfoltito la provvista mensile di pannoloni agli anziani incontinenti e poveri, quelli che non hanno i quattrini di comprarsene quanti ne servono. Così da tre pannoloni al giorno si è scesi a due. Uguale a condanna a macerarsi per 12 ore nel piscio le parti intime. Scrivo volgare, vero? Roba da prendermi a sberle, pensate cosa farei io a questi politicanti dell’Als e peggio agli elettori che li hanno messi lì o che li tollerano.
In vista dell’annunciata Terza Grande Guerra, altri soldi saranno trasferiti dalla sanità pubblica alle forze armate. Obiettivo: spendere in armi il 5% del PIL, cioè due volte e mezza di quanto il governo Meloni spende oggi. Per racimolare tanti quattrini dovranno affondare le mani nelle tasche di chissà quanti povericristi, tutti incapaci di difendersi, chiaro.
Ma se una mano ruba, l’altra dona: lo stesso governo Meloni ha stanziato 65 milioni di euro per fare contenti edicolanti, distributori di giornali ed editori. In dettaglio: 13 milioni a chioschi e simili, 4,5 a quanti vi recapitano i giornali, il resto per arrivare ai 65 milioni va agli editori. Tutti beneficiari in gran parte bari, perché le edicole vendono soprattutto grattaevinci, giochini, ricordini, biglietti dei mezzi pubblici, cibi e bevande. Sembrano i bazar dei terzomondo, dove trovi di tutto. Quanto ai distributori, che cavolo trasportano alle edicole, visto che il grosso dei pochissimi lettori rimasti è abbonato on-line? Ma i più imbroglioni sono gli editori, che sparano diffusioni multiple di quelle reali. È già da masochisti leggere gazzettini ridotti a cronacare sesso, sangue e sport, nonché a far eco alla propaganda di regime; pagare per questa robaccia è martellarsi in testa. Masochismo peraltro da semianalfabeti, visto che i cronisti più miserandi arrivano a guadagnare, per ogni articolo, il valsente di una birra. Che cultura e indipendenza volete vantino questuanti di così basso conio?
Sì, edicole e redazioni di giornali olezzano più dei cronicari e delle solitudini domestiche a corto di pannoloni.
Handy Flotilla
Da due anni e 8 mesi in Palestina avvampa una guerra che ha già provocato 55 mila morti. Finirà quando Israele avrà deportato un bel po’ di palestinesi in Egitto, in Giordania e ovunque altrove qualcuno sia disposto a mantenere un’etnia che da tre generazioni si fa mantenere dalla comunità internazionale. La quale ha portato in Palestina centinaia di tonnellate di cibo e medicinali, in gran parte bloccate come arma di guerra dai militari di ambo gli schieramenti. Nessun Paese al mondo ha sinora imposto sul serio la distribuzione di queste risorse, figurarsi la pace.
Ed ecco che un gruppetto di diportisti-esibizionisti da catastrofe carica su una barca a vela un paio di quintali tra pelati e sardine in scatola, acqua minerale e aspirine, nonché una ragazza autistica da anni sfruttata da genitori indegni come fenomeno da baraccone. I pennivendoli mondiali si lasciano convocare da questo gruppetto, che proclama in mondovisione: «Andiamo a salvare i palestinesi che muoiono d’inedia». I pennivendoli li prendono sul serio, il popolobue d’ogni latitudine pure.
Per fortuna di tutti questi irresponsabili, i soldati israeliani non lo sono e salvano la ciurma dalle bombe. Impacchettano la signorina handy e la spediscono ai genitori, astenendosi dal liquidare il resto dell’equipaggio come da due anni e 8 messi stanno facendo con i terroristi e con gli zingari locali che li esprimono e sostengono.
(gcs) |
articolo riservato
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da CounterPunch 5 giugno 2025 (USA) |
No, non abbiamo bisogno di un altro Progetto Manhattan per l’IA
di Eric Ross *
traduzione di Rachele Marmetti
«La storia si ripete sempre due volte: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa». L’aforisma di Marx sembra oggi più che mai profetico.
La settimana scorsa il Dipartimento per l’Energia degli Stati Uniti ha lanciato un appello sciovinista sui social media per un «nuovo Progetto Manhattan». Obiettivo: vincere la cosiddetta corsa alla supremazia nell’intelligenza artificiale.
Ma il Progetto Manhattan non è un modello da imitare. Al contrario, deve essere un avvertimento, un ammonimento di ciò che accade quando la scienza viene messa al servizio del potere dello Stato, quando la libera ricerca cede il passo alla rivalità nazionalistica e il culto del progresso viene scisso dalla responsabilità etica. Dimostra come la segretezza propaghi la paura, corroda la fiducia del cittadino ed eroda le istituzioni democratiche.
Il Progetto Manhattan può essere considerato, come affermò il presidente Harry Truman, «il più grande azzardo scientifico della storia». Ma rappresentò anche una sfida alla continuità della vita sulla terra. Portò il mondo sull’orlo dell’annientamento, un abisso sul quale oggi ci affacciamo di nuovo. Un altro progetto di questo tipo potrebbe spingerci oltre il limite.
I parallelismi tra le origini dell’èra atomica e l’ascesa dell’intelligenza artificiale sono sorprendenti. In entrambi i casi, proprio i ricercatori all’avanguardia nell’innovazione tecnologica sono stati tra i primi a lanciare l’allarme.
Durante la seconda guerra mondiale gli scienziati atomici manifestarono preoccupazioni per la militarizzazione dell’energia nucleare, ma il loro dissenso fu represso grazie alle rigide restrizioni imposte dalla segretezza bellica. Furono indotti a continuare a lavorare al progetto dall’imperativo di costruire la bomba prima della Germania nazista. In realtà, quando il Progetto Manhattan prese slancio, la minaccia era ormai fortemente ridimensionata, giacché la Germania stava abbandonando gli sforzi per sviluppare un’arma nucleare.
Il primo studio tecnico che valutò la fattibilità della bomba concluse che essa poteva certamente essere costruita, ma avvertì che «a causa della dispersione di sostanze radioattive dovuta al vento, la bomba non potrebbe probabilmente essere utilizzata senza causare la morte di un gran numero di civili; il che la renderebbe impropria come arma…».
Quando nel 1942 gli scienziati teorizzarono che la prima reazione a catena atomica avrebbe potuto incendiare l’atmosfera, Artur Holly Compton ricorda di aver pensato che se tale rischio si fosse dimostrato reale, allora «queste bombe non dovrebbero mai essere costruite… meglio subire la schiavitù dei nazisti che correre il rischio di calare il sipario sull’umanità».
Leo Szilard redasse una petizione per esortare il presidente Truman a non utilizzare la bomba atomica contro il Giappone. Avvertì che questi bombardamenti sarebbero stati moralmente indifendibili nonché strategicamente miopi: «La nazione che per prima usa a fini distruttivi queste nuove forze della natura appena liberate» scrisse «potrebbe doversi assumere la responsabilità di spalancare le porte a un’èra di devastazione su scala inimmaginabile».
Oggi non possiamo nasconderci dietro il pretesto di una guerra mondiale. Non possiamo nemmeno invocare lo spettro di un avversario esistenziale. Gli ammonimenti sull’intelligenza artificiale sono chiari, pubblici e inequivocabili.
Nel 2014 Stephen Hawking avvertì che «lo sviluppo di un’intelligenza artificiale compiuta potrebbe significare la fine della razza umana». In anni più recenti, Geoffrey Hinton, definito il “padrino dell’IA”, si è dimesso da Google adducendo preoccupazioni sempre più fondate sul «rischio esistenziale» rappresentato dallo sviluppo incontrollato dell’IA. Poco dopo, un sodalizio di ricercatori e leader del settore hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano che «mitigare il rischio di estinzione causato dall’IA dovrebbe essere una priorità mondiale come per altri rischi globali, quali pandemie e guerre nucleari». Nello stesso periodo, oltre un migliaio di esperti e decine di migliaia di altre persone hanno firmato una lettera aperta per chiedere una pausa temporanea nello sviluppo dell’IA al fine di riflettere in quale direzione stiamo andando e sulle conseguenze a lungo termine.
Tuttavia la corsa allo sviluppo di un’intelligenza artificiale sempre più potente non si ferma, implacabilmente spinta più dalla paura che dalla lungimiranza: fermarne lo sviluppo potrebbe significare restare indietro rispetto ai rivali, in particolare alla Cina. Ma di fronte a rischi esiziali, ciascuno dovrebbe chiedersi: ma qual è la vera posta in palio?
Riflettendo su analogo fallimento rispetto ai pericoli rappresentati dal progresso tecnologico del proprio tempo, Albert Einstein ammonì: «Il potere scatenato dell’atomo ha cambiato tutto tranne il nostro modo di pensare; ci stiamo lasciando trasportare verso una catastrofe senza precedenti». Queste parole oggi suonano imperiose quanto allora.
La lezione dovrebbe essere ovvia: non possiamo permetterci di ripetere gli errori dell’èra atomica. Evocare il Progetto Manhattan come modello di sviluppo dell’IA non solo significa ignorare la storia, è anche politicamente sconsiderato.
Ciò di cui abbiamo bisogno non è una nuova corsa agli armamenti alimentata dalla paura, dalla competizione e dalla segretezza, ma del contrario: di un’iniziativa globale per democratizzare e smilitarizzare lo sviluppo tecnologico, per dare priorità ai bisogni umani, per fare di dignità e giustizia il fulcro per promuovere il benessere collettivo di tutti.
Oltre trent’anni fa, Daniel Ellsberg, già pianificatore di guerre nucleari, diventato in seguito voce di denuncia, propugnò un diverso tipo di Progetto Manhattan: non per costruire nuove armi, ma per rimediare al danno causato dalle prime e per smantellare le macchine apocalittiche già nelle nostre mani. La sua idea permane l’unico "Progetto Manhattan" razionale e moralmente difendibile che valga la pena perseguire.
Non possiamo permetterci di prenderne atto e di agire a posteriori, come fu per la bomba atomica. Joseph Rotblat, l’unico scienziato che si dimise dal Progetto Manhattan per ragioni etiche, riflettendo su quello che riteneva un fallimento collettivo, scrisse:
«L’èra nucleare è un vivaio di scienziati… formati nel totale disprezzo dei principi fondamentali della scienza: apertura e universalità. È stata concepita segretamente e, ancor prima della sua nascita, usurpata da uno Stato per conquistare il dominio politico. Con tali difetti congeniti, e per di più alimentata da un’armata di dottor Stranamore, non c’è da stupirsi che si sia trasformata in un mostro… Noi, gli scienziati, abbiamo molto di cui rispondere.»
Se la strada che abbiamo imboccato porta al disastro, la risposta non è accelerare. Come avvertirono i medici Bernard Lown ed Evgeni Chazov al culmine della corsa agli armamenti, durante la guerra fredda: «Quando si corre verso un precipizio, il progresso è fermarsi».
Dobbiamo fermarci non già per opporci al progresso, ma per perseguire un tipo di progresso diverso: un progresso radicato nell’etica della scienza, nel rispetto per l’umanità e nell’impegno per la nostra sopravvivenza collettiva.
Se prendiamo coscienza delle minacce dell’intelligenza artificiale, dobbiamo abbandonare l’illusione che la sicurezza consista nel precedere i nostri rivali. Come hanno ammonito coloro che questa tecnologia la conoscono dall’interno, in questa corsa non ci possono essere vincitori, perché è solo un’accelerazione verso una catastrofe comune.
Fin qui siamo sopravvissuti per un soffio all’èra nucleare. Ma se non ne traiamo insegnamento e rinunciano all’intelligenza umana, potremmo non sopravvivere all’èra dell’intelligenza artificiale.
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Eric Ross è organizzatore, educatore, ricercatore e dottorando presso il Dipartimento di Storia dell’Università del Massachusetts Amherst. È coordinatore nazionale del Teach-In Network, sponsorizzato dal RootsAction Education Fund.
INCIPIT & INCIPOT
«Vieni a Toppelo, scriveremo la tua favola»
di Scot
Sul serio: l’invito viene dalla Lega dei Biografi Toppelesi (LeBit). Sono corporazione talmente folta che quando vanno all’annuale messa di ringraziamento a Caravaggio riempiono tre corriere granturismo. Del resto ti basta risalire Via dei Torchi ed è tutt’un susseguirsi d’insegne professionali della medesima congrega: Lo scrivano, Studio di scrittura e di edizioni, La casa della biografia, Visto si stampi, Profumo d’inchiostro, Penna d’oca e calamaio, Cronache famigliari, A futura memoria, Storia di casati e parentele, Dalla parola alla stampa, La tua autobiografia... Le vetrine sono stazioni di una mostra permanente che allinea i capolavori di tipografie dai guizzi arditi, che elevano a opera d’arte anche le 22 pagine che dànno conto del passaggio terreno di Nicolsandro Vernacci, deceduto a due anni. Le sue gesta, per quanto cronaca puntigliosa di lallazioni sempre uguali, non potrebbero issarsi in palco in alcun soggiorno se non fossero incise su carta di grammatura pontificia, con inchiostro millesimato certificato leggibile per un millennio e non fossero rilegate con pelle di vitello lattonzolo rutilante di borchie, dorsi, angoli e punzonature in oro o comunque in princisbecco lustrato a zecchino. Obietterete che tanto scialo di materie prime pregiate non intride di letteratura le esternazioni di un Nicolsandro ch’è misero progetto-di-uomo allo stadio di afonia belluina; ma ce l’hanno eccome se il supposto dire del duenne è interpretato dalla Prima Penna di Toppelo, al secolo Gualtiero Gofressa, non a caso sollecitatissimo da sfilza di committenti. Sì, perché a Toppelo non meno degli artigiani del torchio eccellono quelli della penna: sono costoro a mettere ordine razionale e grammaticale nelle esternazioni confuse e quasi sempre smargiassate dei clienti, che in copertina si esibiranno come gli autori delle proclamate autobiografie.
Prima di metterti in viaggio per Toppelo e sognare di bearti delle invidie che la tua biografia susciterà, due avvertenze. La prima: su molte mappe, comprese quelle che ti orientano sul cellulare e sul cruscotto, il paese si palesa col vecchio nome. Motivo: cambiarlo è procedura laboriosa e lenta, che a volte persino s’inceppa e ristà sino ad arrugginire, per cui se non ne lubrifichi gl’ingranaggi non riparte più. E sia bandita ogni allusione che associa l’olio al denaro, anche se il Gofressa ha chiesto e ottenuto dal sindaco «lo stanziamento di somma adeguata per sveltire la pratica di riconoscimento del nuovo toponimo». E comunque, anche ove il novello Toppelo riuscisse a riscattarsi anche formalmente dal plebeo Toppealculo (pazienta, sto per spiegare), con cui appunto ancora si sconvenia sulle mappe, è un fatto che è con questo nome che devi cercarlo.
Ma chi fu tanto cattivo, nei secoli scorsi, da appioppare a questo borgo pur così piangente (ti spiego anche questo) un nome che a pronunciarlo ti arriccia le labbra di sgradevolezza? Tu sei benestante più che agiato, stai pensando di farti confezionare una biografia o un’autobiografia su misura manco fossi un berluskino che commissioni le gesta santificate di babbo. Hai orrore del vólgo, massime di quello propeso alla sudditanza: l’antico Toppealculo non scimmiottava i sanculotti, implicando analoghe benemerenze ghigliottinarde (si fa per dire, immagino tu stia col Re Sole, similia similibus palanche). Il motivo della scelta battesimale fu proprio quella che pronuncia agre suggerisce: la gente del borgo era talmente povera da promenarsi con le toppe sulle brache. I latifondisti cavavano poco da questi campi e pagavano pochissimo chi li lavorava. I senzabrache, come anche dileggiavano quelli di Toppealculo, erano in gran parte ridotti al mendicantato. A piedi, e poi in bici e in motorino e in auto (negli anni Settanta una brava manotesa postata a ridosso di chiesa o di fiera, a fine giornata aveva insaccocciato anche 60 mila lire, quando un operaio della grande fabbrica metalmeccanica della città ne guadagnava 15 mila), quelli di Toppealculo erano mandria pezzente che transumava per l’intera provincia. E oltre: tra le loro mete di caccia svettava Caravaggio. Ecco perché i toppelesi che oggi hanno il culo rivestito armani vanno volentieri ancora lì.
Al secondo avvertimento ti ho già preparato: che tu decida di farti biografare o autobiografare, il conto sarà salato. Quando distribuirai a parenti e amici le copie del “tuo” libro forse la ruota del pavone letterato non li incanterà, ma sicuramente riscuoterai invidia per quanto avrai speso per girarla.
©
(1 - continua - Testo integrale nella raccola Prima di spegnere la luce, vol. II, 2025)
MOLTO DI NUOVO SUL FRONTE OCCIDENTALE
Figliolo, ti toccherà lavorare
di Scot e Rac
Nell’articolo sotto Alfredo Jalife-Rahme offre un saggio di quanto il Partito della Guerra sia ovunque attivo, di là e di qua dell’Atlantico.
Secondo l’Internazionale dei Falchi urge sconfiggere innanzitutto la Russia. Con una disfatta che la inginocchi e rattrappisca, proseguendo la medesima offensiva verso Est ch’era nei piani del III Reich e che Stalin gli mandò a monte. Sconfitta la Russia, si passerà alla Cina. Per poi (ma questa è narrazione nostra, non di Jalife-Rahme) smembrarla in regioni autonome chiamate Stati intermedi, seguendo lo stesso copione collaudato negli anni Novanta all’indomani dell’invasione della Jugoslavia. Cascame produttivo della vittoria occidentale su Pechino: si rimetterà in riga anche Tokio, che non potrà più accampare di dover tenere buoni rapporti con la Cina per non obbedire puntualmente e del tutto agli ordini della Nato Globale, sulla quale appunto e finalmente non tramonterà mai il sole.
Se registi delle due prossime spallate conclusive anti-Russia e anti-Cina sono Washington, capocordata, seguita da Londra, Varsavia e Parigi, la guerra mondiale arruolerà nel ruolo di ascari anche Stati minori, a cominciare dall’Italia. Che è anni-luce dall’avere i quattrini per pagare la propria caratura di conto. Ma siccome in un modo o nell’altro si è impegnata a saldarlo ‒ con la dissennatezza d’indebitarsi in bianco ‒ vediamo quali sgradite sorprese i governi nostrani preparano a un popolo che peraltro si è meritato gli uni e le altre.
Per tratteggiarle, muoviamo da due premesse:
1. Dal punto di vista economico la sovranità di ogni Stato europeo è ormai da anni trasferita a organismi sovrannazionali, ancorché sostanzialmente para-statunitensi, quali il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e via elencando. Anche nell’ipotesi, puramente accademica, che la maggioranza del popolo si converta al pacifismo, ormai è tardi per riconquistare la dignità e la libertà perduta.
2. Sostenere il primo riarmo europeo per attaccare di brutto la Russia e un secondo per sistemare la Cina richiede di spendere in armi assai più del 5% del Pil ipotizzato dai Signori della Guerra, quota peraltro più che doppia rispetto al 2% cui Meloni ci ha già portato e che basta e avanza a immiserire schiere di famiglie. Anche se Meloni e compari smagrissero all’osso il bilancio della Stato, resecando a mannaia le spese sociali, schizzando l’inflazione e creando poveri e morituri a milionate, molto peggio di quanto fu costretta a fare la Grecia anni fa, non sarebbero neppure a metà raccolta.
Allora dove drenare il resto delle risorse per vincere la III guerra mondiale in entrambe le sue offensive? Non resta a Meloni e compari che assaltare il più gigantesco, il più sin qui intoccabile forziere del Paese. Quello che assorbe il 20% del Pil, costituisce il 60% dell’intero patrimonio nazionale e che ha sinora garantito sonni tranquilli e privilegi medievali alla borghesia più vorace, privilegiata, immeritevole ed egotista; talmente barbara da negare alla costituzione repubblicana quello che dovrebb’esserne caposaldo e suggello etico: Tutti nascono economicamente uguali. Parliamo dell’eritocrazia (accorciativo di ereditocrazia, analogamente al francese héritocratie): cioè della casta degli ereditieri, che stanno alle repubbliche del XXI secolo come i nobili stavano alle monarchie del XVIII. Questa eritocrazia è destinata a finire sulla ghigliottina della Storia, così ovviando a una dimenticanza della Rivoluzione francese.
Avvalendoci anche dei contributi di quell’unico comparto dell’intelligenza artificiale che le giustifica l’aggettivo, cioè la sua prodezza predittiva, vi introduciamo ai ribaltoni sociali al cui cospetto quello del 1789 farà figura di scaramuccia marginale.
(1 ‒ L’analisi completa è riservata)
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da La Jornada (Messico) 28 maggio 2025 |
La sinofobia della Trappola di Tucidide di Graham Allison… prescinde dall’intelligenza artificiale
di Alfredo Jalife-Rahme*
traduzione (dal francese) di Rachele Marmetti
È nell’ambito dell’università di Harvard, oggi afflitta da gravi problemi e roccaforte del partito Democratico, che l’ottantacinquenne geopolitico Graham Allison, ex direttore della Harvard Kennedy School, ha ideato il banalissimo schema della sinofobaTrappola di Tucidide, un’inconsistente garanzia concettuale pergli Stati Uniti di fronte all’irresistibile ascesa della Cina.
Graham Allison è consulente del Pentagono dagli anni Sessanta ed è stato consigliere speciale del segretario alla Difesa Caspar Weinberger; ha inoltre diretto il think tank militarista Belfer Center. A causa del suo DNA accademico, il suo celebre libro Destined For War: Can America and China escapeThucydide’sTrap?, Mariner Books, 2017 (Destinati alla guerra, Possono l’America e la Cina sfuggire alla Trappola dei Tucidide?, Fazi editore) è uno strumento di propaganda militarista geopolitica più che una ricerca rigorosa, perché sottende l’inevitabilità di una guerra tra Stati Uniti e Cina.
La propaganda militarista travestita da ricerca accademica di Allison è evidente. In un articolo pubblicato nel 2012 sul Financial Times, poi sviluppato nel libro citato, c’era un’osservazione che oggi, a 13 anni di distanza, è più che mai attuale: determinante per l’ordine mondiale dei prossimi decenni sarà la risposta alla seguente domanda: la Cina e gli Stati Uniti riusciranno a sfuggire al fatale ingranaggio dellaTrappola di Tucidide? È il problema posto dal giornalista kazako ultrabellicista Gideon Rachman ad Allison.
La tesi di Allison presenta molte lacune, sia sul piano cronologico sia su quello della realtà attuale, caratterizzata dalla nuova leadership nelle tecnologie critiche. Estrapola infatti allegramentedal celebre racconto di Tucidide (V secolo a.C.), La guerra del Peloponneso,il conflitto tra una potenza marittima emergente (Atene) e una potenza terrestre dominante (Sparta).
Atene prese il controllo della Lega Delio-Attica: una vasta alleanza navale che dominava il Mar Mediterraneo e accerchiava Sparta [1]. Ma avvenne un fatto accuratamente nascosto dalla propaganda kazaka dominante in Occidente: nel 405 a.C. la flotta ateniese fu distrutta dalla flotta spartana di Lisandro, che aveva ricevuto aiuto dai persiani! Per questa ragione Hollywood non mostrerà mai la sconfitta di Atene da parte della coppia Sparta/Persia.
Allison estrapola la battaglia tra Atene e Sparta per fare emergere la fragilità della situazione e portare acqua al proprio mulino: in 12 casi analoghi su 16 la rivalità è sfociata in guerra, ragion per cui Cina e Stati Uniti oggi si trovano in rotta di collisione verso la guerra.
L’esempio matrice di Allison non è pertinente: Sparta sconfisse Atene, ma oggi, praticamente in ogni campo, con l’eccezione di quello militare – che potrebbe essere anch’esso molto discutibile per l’alleanza di Russia e Cina –, Pechino è la potenza emergente di fronte alla potenza dominante statunitense, oggi in pieno declino. È esattamente il contrario della teoria che promuove Allison! A meno che non sottenda in modo subliminale chela potenza emergente di oggi, la Cina, soccomberà alla potenza tuttora dominante, gli Stati Uniti.
Il riduzionismo militarista ideologizzato impedisce ad Allison di vedere la realtà circostante: non tiene conto dell’inesorabile ascesa dell’intelligenza artificiale e ragiona basandosi su una fragile trasposizione storica dal V secolo a.C. in un contesto del XXI secolo d.C., che segna l’inizio del regno dell’IA.
Questa banalizzazione della dicotomia tra potenze emergenti e potenze dominanti è confutabile perché in molti settori,e secondo i criteri con cui vengono analizzati, la Cina sembra già essere la potenza dominante. Fa eccezioneil settore militare, come detto, dove ancora predominano gli Stati Uniti; ma Pechino è già in vantaggio nell’IA – un dato boicottatodalle classifichestatunitensi, in particolare dal fallace indice commerciale di Stanford. È rivelatorio che un ex direttore della cybersicurezza del Pentagono abbia rassegnato le dimissioni a causa del ritardo militare di vent’anni nel settore che sta trasformando, o trasformerà, il volto umano del pianeta.
C’è di peggio. Il libro di Allison è molto in voga in Occidente: è un invito all’inevitabilità della guerra in un momento in cui le ricerche accademiche e i think tank dovrebbero formulare teorie innovative per preservare la vita di tutti gli esseri viventi nella biosfera e nella noosfera.
[1]
Lega Delio-Attica: alleanza di isole e città costiere di Grecia e Asia Minore strettasi attorno ad Atene nel 478 a.C. per continuare la lotta contro la Persia. Si trasformò gradualmente in un impero di Atene. Ebbe fine con la guerra del Peloponneso (431-404).
*
Professore di Scienze politiche e sociali all’Università nazionale autonoma del Messico (UNAM). Dottore honoris causa dell’università pontificia di San Francesco Xavier di Chuquisaca.
PUNITI I VECCHI CHE DISERTARONO, I MATURI CHE TRADIRONO E I GIOVANI CHE NON SI ARRUOLARONO MAI
Chi pagherà il conto della guerra e del fallimento dello Stato
inchiesta riservata
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da Le Monde 11 marzo 2022 |
E se l’eredità non fosse scontata?
inchiesta di Anne Chemin
traduzione di Rachele Marmetti
Dagli anni Settanta l’eredità è tornata a essere fattore determinante del patrimonio. Si discute della sua tassazione, ma il dibattito non è acceso quanto le discussioni del XIX secolo, quando molte correnti intellettuali contestavano il principio stesso della trasmissione ereditaria.
Nei libri di testo scolastici, ma anche nelle opere accademiche, la filippica è passata alla storia con il nome di Lezione di Vautrin. Nel Père Goriot [Papà Goriot] di Balzac (1835), Vautrin, affabulatore senza scrupoli, spiega all’ambizioso provinciale Rastignac come fare rapidamente fortuna. È inutile studiare, dice subito al giovane studente di giurisprudenza: dopo battaglie estenuanti e senza requie, i concorrenti finiscono sempre per «divorarsi reciprocamente come ragni in un vaso». Poiché l’onestà serve a niente, conclude Vautrin, è meglio «arrivare a ogni costo», «giocare alla grande» sposando una ricca ereditiera.
È una scena che fa sorridere i lettori del XXI secolo: l’universo cinico della società di rentiers ritratto da Balzac sembra molto distante dagli ideali egualitari e meritocratici della Francia contemporanea. «Chi consiglierebbe oggi a un giovane studente di legge di abbandonare gli studi per seguire la strategia di scalata sociale suggerita da Vautrin?» si chiede Thomas Piketty in Le Capital au XXI siècle (Seuil, 2013) [Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani 2018]. Nessuno, senza dubbio – cosa che non è necessariamente segno di lucidità. «Nella Francia di questi anni d’inizio secolo, l’eredità non è lontana dal riacquistare l’importanza che aveva all’epoca del Papà Goriot», continua l’economista.
I dati sono inconfutabili: in uno studio pubblicato a dicembre 2021, il Conseil d’analyse économique mostra che dagli anni Settanta la quota di ricchezza ereditata rispetto alla ricchezza totale è passata dal 35% al 60%. «Dopo un riflusso delle disuguaglianze e una forte mobilità economica e sociale nella seconda metà del XX secolo, l’eredità è tornata a essere un fattore determinante nella formazione del patrimonio, che sta alimentando una dinamica di rafforzamento delle diseguaglianze patrimoniali, basate sulla nascita», affermano Clément Dherbécourt, Gabrielle Fack, Camille Landais e Stefanie Stantcheva.
La Francia non è ancora tornata la società di ereditieri del XIX secolo o della Belle Époque, ma negli ultimi cinquant’anni la ricchezza dipende sempre più, non dal talento, dall’impegno o dal lavoro, ma dalla casualità della nascita. In una società che promuove l’uguaglianza delle opportunità, questo nuovo stato di cose dovrebbe alimentare aspre controversie intellettuali. Non è così. Sebbene talvolta si discuta della tassa di successione, l’«immaginario filosofico sull’eredità si è impoverito» osserva Mélanie Plouviez, docente all’Università della Costa Azzurra.
L’eredità è stata a lungo un problema filosofico
Questa apatia non è sempre stata la regola. «Dalla Rivoluzione francese fino agli inizi del XX secolo l’eredità è stata un problema filosofico pervasivo» continua Plouviez. «All’epoca era inconcepibile affrontare la questione sociale senza interrogarsi sulla legittimità della trasmissione ereditaria. Le posizioni erano molto differenziate, nonché molto radicali: i discepoli di Saint-Simon, Bakunin e Durkheim sostengono che l’eredità deve essere abolita; alcuni liberali radicali difendono un’assoluta libertà di testare; John Stuart Mill auspica invece la definizione di un tetto dell’eredità; secondo Eugenio Rignano si devono differenziare i lasciti di prima e seconda generazione.»
Per quale motivo questi dibattiti sulla fondatezza del principio della trasmissione ereditaria sono scomparsi? Perché nel XX secolo l’eredità ha smesso di alimentare vivaci dispute filosofiche? «Probabilmente perché le grandi questioni legate all’eredità sono state risolte durante la Rivoluzione francese e nel XIX secolo, risponde Patrick Savidan, docente di filosofia politica all’Università Paris-Panthéon-Assas. Questo periodo storico è stato il laboratorio delle nostre istituzioni democratiche: in tema di eredità e protezione sociale ha cercato di inventare istituzioni ispirate al paradigma egualitario della Rivoluzione francese.»
Durante gli sconvolgimenti del 1789 i rivoluzionari rimettono infatti in discussione i privilegi trasmessi di generazione in generazione. «Incarnano una modernità politica fondata sulla preminenza del merito rispetto alla nascita, continua il filosofo. Questa idea, nata nel Settecento, è al centro dell’alterco del 1726 tra Voltaire e il cavaliere di Rohan: al nobile che gli chiede se abbia un nome, Voltaire, che aveva costruito il proprio sul merito invece che sull’appartenenza a un lignaggio, risponde: “Il mio nome, io lo comincio, voi il vostro lo finite”. La stessa idea ispira nel 1778 Beaumarchais, quando fa dire a Figaro che il conte si è semplicemente limitato a “prendersi la briga di nascere”.»
Sebbene alla fine del XVIII secolo i rivoluzionari abbiano abolito molti privilegi legati alla nascita, primo fra tutti la trasmissione ereditaria del potere politico, non hanno abolito del tutto l’eredità. In materia di successione hanno infatti istaurato un regime di «libertà controllata», secondo le parole della sociologa Anne Gotman. L’eredità viene mantenuta e imposta, ma la ripartizione dei beni è sottoposta a una regola egualitaria «draconiana»: i figli minori ricevono quanto i maggiori, le sorelle quanto i fratelli.
Questi principi segnano una rottura con le pratiche dell’Ancien régime: «In nome della perpetuazione del lignaggio, della conservazione del patrimonio e della lotta contro la frammentazione fondiaria, il padre, in particolare nelle regioni di diritto romano della Francia meridionale, aveva il diritto di testare, cioè di privilegiare uno dei figli, il più delle volte il maggiore dei figli maschi» continua Gotman, autrice di Hériter (PUF, 1988). «Nel 1789 i rivoluzionari, la cui parola d’ordine è uguaglianza, pongono fine alla libertà di testare: ora il padre ha le mani legate.»
Nel 1791 questo attacco all’autorità paterna suscita un acceso dibattito all’Assemblea nazionale. Il padre deve restare «il primo magistrato della famiglia», sostiene il deputato Josep Prugnon. Se la legge «sottrae alla sottomissione figliale» uno dei suoi pilastri e nega al padre il diritto di «ricompensare la buona condotta» dei figli, sorgeranno gravi disordini, avverte il deputato Riffard de Saint-Martin. Non è forse, aggiunge, «una sorta di barbarie proibire ai padri liberalità che giustizia e umanità impongono, legare loro le mani così strettamente da non poter venire in soccorso» di alcuni dei loro figli?
Contestazione del diritto di primogenitura
Morto alla vigilia di questo dibattito, Mirabeau, in un discorso letto da Talleyrand, ribatte che l’uguaglianza, «uno dei principi della nostra eccellente Costituzione», deve vigere sia nella famiglia sia nella nazione. «Non ci sono più figli maggiori, non ci sono più privilegiati nella grande famiglia che è la nazione» proclama Mirabeau «non ce ne devono più essere nelle piccole famiglie che la compongono». Anche Robespierre combatte con convinzione il diritto di primogenitura: a suo parere, il principio di uguaglianza nella suddivisione della proprietà permetterà di mettere fine all’autoritarismo paterno, un legato che paragona al dominio dei padroni sugli schiavi.
Dopo due testi abortiti – il primo nel 1793 e il secondo nel 1794 – la legge 4 Germinal, anno VIII, pone fine nel 1800 alla libertà testamentaria del capofamiglia. Quattro anni dopo, il principio di uguaglianza tra fratelli e sorelle viene sancito dal Codice civile di Napoleone: tutti i figli «indipendentemente dal sesso e dalla primogenitura» sono eredi. «Questo testo assoggetta l’eredità a un diritto unico ed egualitario ispirato alla Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Fissa le linee generali della legislazione dei successivi due secoli» sottolinea la sociologa Gotman.
I regimi politici che si succedono tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX impongono una divisione egualitaria dell’eredità tra i figli, ma al tempo stesso rafforzano la legittimità dell’eredità. «Avallando il principio dell’eredità, sancendo il carattere assoluto della proprietà, la legge del 1800 e poi il Codice civile del 1804 confermano e addirittura consolidano l’istituto dell’eredità» continua Gotman. Tanto che, nella Francia del XIX secolo, l’eredità ha svolto un ruolo «strutturante», per usare il termine di Piketty, come dimostra la rilevanza delle dispute ereditarie negli scritti di Maupassant, Zola e, soprattutto, di Balzac.
Papà Goriot è senza dubbio, secondo Piketty, «l’espressione letteraria più compiuta» del ruolo centrale svolto dalla trasmissione ereditaria nel XIX secolo, ma anche altri romanzi della Commedia umana sono dedicati alla captazione dell’eredità. In Ursule Mirouet (1841), alcuni eredi rubano i titoli di rendita che un medico aveva destinato alla sua pupilla e ne Il cugino Pons (1847), avidi parenti cercano di appropriarsi della collezione di quadri di un vecchio musicista. Da attento osservatore del suo tempo, Balzac esplora minuziosamente le conseguenze della gerarchia patrimoniale su speranze e disgrazie dei contemporanei.
Onnipresente nella letteratura, nel XIX secolo l’eredità è anche al centro di accese controversie filosofiche. «Nel corso dell’intero secolo la questione della libertà testamentaria si ripresenta come un leit motiv tra i difensori dell’autorità paterna, che desiderano ammorbidire, se non abolire, l’obbligo di divisione imposto dal Codice civile del 1804» analizza Gotman. «Anche i fautori dell’uguaglianza si mobilitano, ma la loro riflessione si sposta rispetto al periodo rivoluzionario: non si interrogano più sull’uguaglianza tra i figli della stessa famiglia, ma sull’uguaglianza tra tutti i cittadini.»
Nonostante nel Codice napoleonico sia solennemente inscritto il principio dell’uguaglianza, i sostenitori dell’autorità paterna continuano a chiedere per tutto il XIX secolo il ripristino della libertà testamentaria. In un mondo dove il capitale economico transita essenzialmente all’interno delle famiglie, costoro antepongono a ogni altro principio quello di proprietà, che deve consentire al padre di godere pienamente dell’uso dei propri beni, anche dopo la propria morte, nonché della difesa della famiglia che, secondo loro, non può trovare migliore interprete della figura onnipotente del padre.
Il più attivo oppositore della «divisione forzata» tra i figli imposta dal Codice civile è senza dubbio Frédéric Le Play (1806-1882). Nel 1864, in La Réforme sociale en France, questo ingegnere, antropologo, economista e consigliere di Stato afferma che i disordini sociali di cui soffre la Francia sono frutto di quattro mali: l’ateismo, la teoria della bontà originaria di Rousseau, la perdita del rispetto per la donna e… la divisione egualitaria dell’eredità. Poiché la famiglia è il fulcro dell’ordine sociale, conclude, «il governo di quest’ultimo risiede nell’autorità paterna, la sua durata dipende dal modo di trasmissione dei beni».
Ispirati da questa tradizione familista, nel XIX secolo sono stati formulati diversi progetti per ripristinare la libertà testamentaria. Tuttavia, come ha osservato nel 1973 lo storico Philippe Ariès, essi si scontrano con un’«insormontabile ripugnanza dell’opinione pubblica». Se l’unicità della discendenza e il diritto di primogenitura sono ritenuti retaggio del passato, è perché rimandano alla famiglia aristocratica dell’Ancien régime, dove il padre è, secondo Tocqueville, l’«organo della tradizione, l’interprete dele consuetudini e l’arbitro dei costumi». La famiglia «democratica» del XIX secolo, fondata su legami affettivi, è estranea, ritiene Ariès, a questa «preoccupazione per l’onore della stirpe, l’integrità del patrimonio e la perpetuazione del nome».
Nel XIX secolo si registra quindi un progressivo consenso sulla divisione egualitaria del patrimonio tra i figli, ma anche il principio su cui si fonda l’eredità è oggetto di aspri dibattiti. Da Karl Marx a Mikhail Bakunin, dagli eredi di Saint-Simon a John Stuart Mill, i pensatori dell’epoca criticano questa istituzione che è riuscita a sopravvivere al 1789. «La Rivoluzione ha abolito la trasmissione ereditaria del potere politico, ma non quella del potere economico, sottolinea Mélanie Plouviez. I risvegli insurrezionali del 1830 e del 1848 possono del resto essere interpretati come reazioni al mantenimento delle disuguaglianze nella ripartizione della ricchezza.»
Per questi filosofi del XIX secolo, la trasformazione dell’eredità non è un dettaglio tecnico o una questione incidentale, bensì, continua Plouviez, una «potente leva di trasformazione sociale. Secondo questi pensatori, riformare o addirittura abolire l’istituto dell’eredità dovrebbe consentire di mettere in discussione non soltanto la ripartizione della ricchezza tra le famiglie, ma anche, più in profondità, le strutture della società. Il teorico sociale Eugenio Rignano vi vede anche un’opportunità d’inventare forme ibride di proprietà, né private né collettive; e il sociologo Emile Durkheim un modo per attribuire nuovi diritti economici e sociali all’insieme dei lavoratori».
«Patente dell’ozio»
In questo clima di effervescenza intellettuale, molti pensatori sostengono la necessità di abolire l’eredità. Gli eredi di Saint-Simon vogliono abolire del tutto questa «patente dell’ozio». Nel 1829-1830 Prosper Infantin e Saint-Amand Bazar scrivono: «Basterebbe stabilire per legge che l’uso di un’officina o di uno strumento industriale passi sempre, dopo la morte o il pensionamento di chi lo usava, nelle mani dell’uomo più capace di sostituirlo. Sarebbe per le società civilizzate altrettanto razionale quanto lo era la successione per diritto di nascita per le società barbare.»
Bakunin (1814-1876), che si oppone a Marx al Congresso della I Internazionale del 1869, condivide la stessa aspirazione abolizionista. Questa l’analisi dell’economista André Masson, pubblicata nel 2018 sulla rivista l’Observatoire français des conjonctures économiques (OFCE): «Per Bakunin il diritto all’eredità è la causa principale della disuguaglianza sociale, della perpetuazione delle disuguaglianze e delle differenze di classe. Bakunin raccomandava quindi l’abolizione dell’eredità “ad eccezione dei beni personali di scarso valore”. Per Marx invece il diritto all’eredità era un semplice effetto della proprietà privata, un sintomo della sua distribuzione ineguale, che sarebbe stato risolto dalla collettivizzazione dei mezzi di produzione.»
Alcuni decenni dopo, anche Emile Durkheim (1858-1917) teorizza l’abolizione dell’«arcaismo» della successione. «Oggi è inammissibile si possano lasciare in eredità per testamento titoli e dignità conquistate o le funzioni occupate durante la vita, scrive. Perché la proprietà dovrebbe essere invece trasmissibile?» Il fondatore della sociologia moderna propone che alla morte di un individuo i suoi beni siano trasmessi al «gruppo professionale» cui apparteneva – una corporazione che riunisce coloro che esercitano lo stesso mestiere, sia datori di lavoro sia dipendenti.
Più modestamente, John Stuart Mill (1806-1873) propone, in nome dei principi meritocratici, di limitare il valore dei beni che un cittadino può ricevere in eredità nel corso della sua vita. «Ognuno deve avere il diritto di disporre di tutte le sue proprietà, ma non di elargire e arricchire l’individuo oltre il massimo necessario per una comoda indipendenza» scrive nel 1848 in Principles of Political Economy. Secondo il filosofo inglese, questo tetto permetterebbe di combattere la povertà e di evitare la proliferazione di rendite, nonché la perpetuazione delle grandi ricchezze.
La svolta della tassazione progressiva
Queste febbrili controversie intellettuali cessano improvvisamente all’inizio del XX secolo. È stato grazie all’introduzione nel 1901 di un’imposta progressiva di successione in sostituzione di quella semplicemente proporzionale? L’economista Nicolas Frémeaux, autore di Nouveaux Héritiers (Seuil, 2018), risponde: «Questa nuova legge ha svolto effettivamente un ruolo importante. All’inizio del secolo i sostenitori di un’elevata tassa di successione, che avevano fatto sentire la loro voce nel XIX secolo senza successo, alla fine prevalgono. Questa riforma fiscale cambia la situazione: per tutto il XX secolo il dibattito sull’eredità passa in secondo o addirittura terzo piano.»
La questione sembra ancor meno rilevante se si considera che nel XX secolo, flagellato dalle guerre mondiali e dall’inflazione, l’ammontare e il flusso delle eredità si riducono notevolmente. «I grandi pensatori si disinteressano della questione dell’eredità, prosegue Frémeaux. Continuano ovviamente a discutere di questioni tecniche sull’imposta di successione, ma le grandi controversie di principio spariscono. John Meynard Keynes si dedica più alla crescita e all’occupazione, meno alle disuguaglianze e all’eredità. E fino alla fine degli anni Ottanta il rapporto tra pubblicazioni accademiche sulla disuguaglianza di reddito e sulle disuguaglianze di patrimonio è di 20 a uno!»
Nella seconda metà del XX secolo anche la sociologia trascura il dibattito sulla successione. Mélanie Plouviez osserva: «Seguendo le orme di Pierre Bourdieu, la sociologia si è concentrata sul ruolo dell’eredità culturale nei meccanismi di trasmissione dello status sociale. Pone l’accento sul ruolo della famiglia e della scuola nella perpetuazione delle disuguaglianze, ma distoglie lo sguardo dalle trasmissioni economiche». A tal punto, afferma la filosofa, che il XX secolo finisce per «essenzializzare», persino «naturalizzare» l’eredità, come se fosse un fatto immodificabile e ineluttabile di tutte le società umane, «un’evidenza che non si mette più in discussione».
Un dibattito che si rinnova
Solo all’inizio del XXI secolo le cose cominciano a cambiare. «La questione dell’eredità è entrata nel dibattito pubblico con la pubblicazione nel 2013 del libro di Piketty e con il lavoro accademico che ne è seguito» osserva Frémeaux. Dimostrando che il flusso delle successioni, dopo aver raggiunto un picco nel XIX secolo, è diminuito nel XX secolo, per poi risalire dagli anni Settanta, Piketty dimostra agli scettici che l’eredità sta tornando in auge, il che non è una buona notizia in una democrazia fondata su principi meritocratici.
Dopo un’eclissi di oltre un secolo, il dibattito sulla fondatezza del principio della trasmissione ereditaria sta gradualmente risorgendo dalle sue ceneri. Il fervore e il radicalismo delle polemiche ottocentesche non sono più consuetudine – nessuno propone più l’abolizione totale di questo privilegio di nascita – ma l’eredità è di nuovo messa in discussione, soprattutto dagli economisti. Alcuni propongono di istituire un’«eredità per tutti» – una dote di alcune decine di migliaia di euro per tutti i giovani adulti –, mentre altri propongono un forte aumento della tassazione, altri ancora di fissare un tetto al numero di eredità che si possono ricevere nel corso della vita.
Sebbene il dibattito contemporaneo sull’eredità sia quasi sempre di natura tecnica, esso si basa anche, come nel XIX secolo, su convinzioni filosofiche. «I sostenitori dell’eredità attingono a una serie di fonti morali per sostenere la loro posizione, sottolinea il filosofo Patrick Savidan. Secondo costoro, l’eredità è un atto virtuoso perché costruisce una continuità tra generazioni e mira a garantire il futuro dei propri cari. E nella tassazione vedono un pregiudizio alla libertà di scelta del donatore: rendendo l’eredità più costosa del consumo, si contravviene, secondo i liberali più radicali come Milton Friedman, a un ideale morale».
Anche i loro avversari collocano il proprio pensiero in una prospettiva filosofica. «Poiché, in una società fondata dalla fine del XVIII secolo sul merito, il reddito da eredità è meno legittimo del reddito da lavoro, dovrebbe essere tassato più pesantemente, continua Savidan. L’eredità per tutti nasce anche da una convinzione morale: socializzando i diritti di successione, il meccanismo indicizzerebbe l’eredità non sulla base della solidarietà famigliare (i miei figli), ma sulla base di una solidarietà impersonale e universale (i miei concittadini).»
Per Mélanie Pluviez, tuttavia, il dibattito contemporaneo è carente di creatività. «La nostra epoca è segnata da un confinamento dell’eredità nella sfera economica e dall’abbandono della riflessione nella sfera intellettuale» afferma. Con l’eccezione di alcuni libertari di destra o di sinistra, questa istituzione è oggi rarissimamente messa in discussione in filosofia, anche nell’ambito delle riflessioni teoriche sulla giustizia, quella parte della filosofia sociale e politica che, sulla scia di John Rawls, si occupa della linea di demarcazione tra disuguaglianze sociali giuste e ingiuste.» Per contribuire a colmare questa lacuna, Plouviez ha lanciato un progetto di ricerca interdisciplinare per esplorare gli scritti del XIX secolo, nella speranza, dice di «fecondare il nostro immaginario».
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