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LETTURE
DA LE MONDE ODIERNO
José “Pepe” Mujica
di Denis Merklen *
traduzione di Rachele Marmetti
Il 13 maggio l’ex presidente dell’Uruguay, José “Pepe” Mujica, 89 anni, è morto per un cancro all’esofago. Lo ha annunciato il presidente attuale, Yamandu Orsi. Ex guerrigliero, Mujica fu uno dei leader più ascoltati, più rispettati, nonché più popolari dell’America Latina. Le riforme che ha contribuito a realizzare negli anni della sua presidenza (2010-2015) hanno segnato l’ingresso dell’Uruguay nel XXI secolo.
José Mujica Cordano nasce il 20 maggio 1935 in una zona semi-rurale della parte occidentale di Montevideo. Figlio unico di una famiglia di contadini, a otto anni perde il padre. Trascorre buona parte dell’infanzia e della giovinezza dedicandosi al ciclismo e alla coltivazione di fiori nel piccolo appezzamento di terra che lavora insieme alla madre, fiori che vengono venduti nei mercati della capitale. Ma José prosegue gli studi fino al diploma, poi si iscrive a un corso preparatorio in diritto dell’Istituto Alfredo Vazquez Acevedo, liceo pubblico situato dietro l’Università della Repubblica, dove frequenta la giovane intellighenzia uruguaiana degli anni Cinquanta.
Il Paese ha già un sistema di istruzione pubblica esemplare, vi insegnano i migliori intellettuali del Paese, tra cui molti spagnoli fuggiti dalla Guerra civile. Il giovane Mujica milita nell’ala più progressista del Partito Nazionale (centro-destra), che lascia nel 1962 per fondare l’Unione Popolare, in alleanza con il Partito socialista. Un anno dopo partecipa alla fondazione di una delle guerriglie più famose dell’America Latina, il Movimento di liberazione Nazionale Tupamaros, di cui diventerà uno dei principali esponenti.
Con una popolazione di 2,7 milioni di abitanti, all’epoca l’Uruguay rappresenta nella regione un’eccezione, grazie alle riforme del presidente José Batlle (1903-1907 e 1911-1915). La pena di morte è abolita nel 1907, il divorzio legalizzato nel 1913, la Chiesa viene separata dallo Stato nel 1917, il diritto di voto alle donne riconosciutonel 1917. Grazie alla considerevole rilevanza della protezione della forza lavoro, rappresentata da oltre tre quarti della popolazione attiva, e a un tasso di urbanizzazione superiore all’80%, già dagli anni Trenta l’Uruguay ha un modello sociale che farà dire al sociologo Alain Touraine che questo Paese ha inventato la social-democrazia ben prima dell’Austria o della Germania.
Tuttavia, a partire dal 1950, l’Uruguay scivola verso una congiuntura sempre più difficile. L’economia ristagna, l’inflazione e la disoccupazione sono incontrollabili. I due partiti al governo (Nacional e Colorado) si dimostrano incapaci di imprimere una nuova direzione alla piccola repubblica. I giovani hanno la sensazione di vivere in un Paese senza futuro, piagato dalla corruzione, dove povertà e disuguaglianze sono ormai insopportabili.
Mujica e i suoi compagni giungono alla conclusione che la “Svizzera dell’America Latina” sta inevitabilmente dirigendosi verso una dittatura. Si organizzano per resistere all’autoritarismo e per eliminare le ingiustizie. Una recente ricerca negli archivi diplomatici rivela che questa diagnosi è condivisa dagli ambasciatori francesi che si succedono a Montevideo: diversi settori dell’esercito cospirano dal 1962, sostenuti dalle amministrazioni nordamericane. I giovani abbandonano le organizzazioni partitiche della sinistra socialista, comunista e cristiana e prendono le armi: assumeranno il nome di Tupamaros, in riferimento ai gauchos ribelli dichiarati fuorilegge dal governo coloniale spagnolo. Pongono come urgente necessità la «rivoluzione».
Fidel Castro e i suoi compagni cubani hanno dimostrato che la volontà politica può vincere dittatori, imperi e inerzia conservatrice. Altri esempi sono il Vietnam e l’Algeria. Ma questa gioventù istruita dell’Uruguay, che si sente capace di prendere in mano il proprio destino, non seguirà alcuna ricetta, né quella del foco (i nuclei di guerriglia rurale di Che Guevara), né quella maoista dell’accerchiamento delle città da parte delle campagne: la loro lotta sarà urbana.
Il ritorno della socialdemocrazia
Grazie alla creatività, i Tupamaros diventano un esempio per decine di gruppi armati nelle capitali di tutto il mondo. Nel 1971, 111 guerriglieri, tra cui Mujica, evadono attraverso un tunnel dal carcere maschile di Punta Carretas, dove erano detenuti. Alcune settimane prima decine di donne Tupamaros erano fuggite dal carcere femminile di Cabildo. Nello stesso anno i Tupamaros smascherano l’agente della Cia Dan Mitrione, esperto in tecniche di tortura e contro-insurrezione, e lo giustiziano. A questo fatto storico si ispira il film di Costa Gavras État de siège [uscito in Italia con il titolo di L’Amerikano], con Yves Montand nel ruolo della spia. I Tupamaros rapiscono e in seguito liberano ministri, ambasciatori e diplomatici.
In un testo intitolato Apprendre d’eux [Imparare da loro], lo scrittore Régis Debray scrive nel 1971: «In questo momento (…) è in corso una lotta violenta che potrebbe agitare le avanguardie rivoluzionarie di tutto il mondo. La potenza esplosiva della lotta che i Tupamaros conducono contro l’oligarchia del proprio Paese supera di gran lunga, per la portata, i confini dell’Uruguay. Non per le azioni sensazionali – rapimenti, espropri, attacchi militari, evasioni di massa – che fanno (…) i titoloni dei giornali. Ma per una ragione meno spettacolare e al tempo stesso più decisiva: semplicemente perché hanno inaugurato con successo un nuovo modo di intraprendere la rivoluzione socialista».
Il timore di un contagio tra i giovani delle capitali occidentali è tale che venerdì 16 giugno 1972 il Consiglio della Nato si riunisce a Bruxelles per studiare il caso dei Tupamaros, avvalendosi di un’analisi commissionata a Geoffrey Jackson, ambasciatore del Regno Unito in Uruguay, detenuto per otto mesi nella Prigione del Popolo.
Alla fine del 1972 la guerriglia è definitivamente sconfitta dall’esercito. I suoi leader e molti suoi quadri sono messi in prigione, gli altri vanno in esilio. La dittatura militare, che prende il potere con il colpo di Stato del 1973, dichiara «ostaggi» nove leader dei Tupamaros, tra cui Mujica, e li tiene prigionieri in condizioni terribili di isolamento totale e di tortura per quasi 13 anni, in segrete spesso allestite in pozzi clandestini di caserme. Con il ritorno della democrazia, nel marzo 1985, i Tupamaros sono liberati, grazie a un’amnistia generale di tutti i prigionieri politici.
Quattro anni dopo, nel 1989, Mujica e i Tupamaros fondano il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), che entra nell’alleanza di sinistra Frente Amplio. A tutt’oggi l’MPP detiene il più nutrito gruppo di parlamentari del Paese e dalle sue fila proviene l’attuale presidente Yamandu Orsi, eletto il 24 novembre 2024. Mujica si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1995 e viene eletto deputato. Nel 2000 è senatore, nel 2005 ministro dell’Agricoltura, nel 2010 presidente della repubblica e nuovamente senatore nel 2015 e nel 2019. Durante i tre governi del Frente Ampio, tra il 2005 e il 2020, il piccolo Paese dell’America Latina recupera il proprio passato socialdemocratico, o battlista. Approfittando di una congiuntura favorevole all’esportazione di prodotti agricoli, l’Uruguay rianima l’economia e spezza la dipendenza energetica investendo massicciamente in fonti rinnovabili: oggi produce il 98% dell’elettricità senza emissioni di carbonio.
Il lavoro dipendente è tornato la norma, grazie a una riduzione del lavoro in nero e al ripristino dei “consigli paritari” abrogati dalla dittatura. La povertà è dimezzata e quella estrema è ridotta all’1% della popolazione; il sistema sanitario è riformato e garantisce un accesso equo all’assistenza sanitaria attraverso un mix pubblico-privato.
Sotto la presidenza di Mujica, l’Uruguay legalizza l’aborto (2012), il matrimonio omosessuale (2013) e regolamenta la produzione e il consumo della cannabis nel 2014. In questo stesso anno sono approvate una legge che modernizza la procedura penale e una legge per limitare gli effetti monopolistici nella stampa. Tuttavia, le conseguenze della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008 si fanno sentire. L’economia frena, l’inflazione riparte e i posti di lavoro diminuiscono. L’invecchiamento dei quadri politici di sinistra, tra cui Mujica, che al momento delle elezioni presidenziali del 2019 ha 84, anni fa il resto. Con un margine ristretto di 30 mila voti, la sinistra perde le elezioni. Il vecchio dirigente è criticato per le sue frasi mordaci, che sembrano lanciate senza riflettere e spesso feriscono parti dell’elettorato. I governi del Frente Amplio sono criticati soprattutto per le carenze in tema di sicurezza.
Resta comunque il fatto che, ancor prima di diventare presidente della repubblica, l’ex guerrigliero ha conquistato un’immensa autorità all’interno della sinistra latino-americana. Una reputazione che poggia sull’immagine dell’Uruguay come società democratica ed egalitaria, su quella del Frente Amplio, ammirato per la capacità di preservare dal 1971 l’unità della sinistra, e su quella dei Tupamaros, guerriglieri che non sono mai stati ossessionati dalla violenza e hanno saputo sottrarsi a radicalismi e settarismi.
La BBC e gran parte della stampa internazionale non mancheranno di lodare l’integrità morale con cui l’uomo descritto come «il presidente più povero del mondo» ha esercitato il potere. Un’etica che ha segnato un’intera vita costantemente vissuta con frugalità, viaggiando con la compagna, Lucia Topolansky, sul Maggiolino Volkswagen ungo le strade sterrate che portano al palazzo presidenziale dalla sua piccola fattoria, la chacra, dove, dopo una giornata di esercizio del potere, lo si può vedere curare le piantagioni di margherite e la sua cagna a tre zampe, Manuela, e intrattenere autorità, giornalisti e celebrità di tutto il mondo sulle sedie di plastica del giardino.
Regalava il 90% dello stipendio
Il 6 dicembre 2024 il presidente del Brasile, Lula, e della Colombia, Gustavo Pedro, si sono recati alla chacra per consegnare a Mujica, già molto malato, il Cruzeiro do Sud e la Cruz de Boyaca, le massime onorificenze dei rispettivi Paesi. Per l’intera durata del mandato presidenziale, Mujica ha donato il 90% della sua retribuzione ad associazioni.
Forte della propria immagine, Mujica ha tenuto due discorsi che hanno avuto risonanza planetaria. L’uomo che non ha un account Twitter, né Facebook, nemmeno uno smartphone, parla nel 2012 a Rio de Janeiro al vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile, poi nel 2013 alla 68^ Assemblea delle Nazioni Unite a New York. Suscita in entrambe le occasioni un’immensa ondata virale sulle reti sociali.
Le sue numerose interviste e i suoi video hanno contabilizzato decine di milioni di visualizzazioni e a lui sono stati dedicati innumerevoli articoli, reportage e documentari, tra cui El Pepe. Una vita suprema (2018), di Emir Kusturica, e fiction come Compañeros (2019), di Alvaro Brechner. Su di lui sono stati scritte decine di libri; il primo risale al 1971: Les Tupamaros. Guérillaurbaine en Uruguay, di Alain Labrousse, Seuil [I Tupamaros. La guerriglia urbana in Uruguay, 1971, Feltrinelli].
Il vecchio militante attribuisce poca importanza allo stare al potere perché, per lui, «è solo una circostanza», vuole lasciare «una barra» (una banda) di giovani attivisti, capaci di portare avanti nuove energie di trasformazione sociale. Come un fedele discepolo di Hannah Arendt, Mujica associa la libertà alla politica e ripete ai giovani: «Non sei una formica o uno scarabeo: hai una coscienza. Invece di adagiarti su un destino preordinato, su una tradizione, o di condurre una vita priva di senso, puoi fare qualcosa insieme al mondo in cui vivi. Prendi in mano la vita e costruisci un progetto collettivo».
Poi, come seguisse i Manoscritti del 1844 del giovane Karl Marx, mette in guardia dai pericoli dell’alienazione sociale. «Non sprecare il tuo tempo a lavorare per guadagnare denaro, avrai solo sprecato la la tua vita, che vale la pena condurre soltanto se condivisa con altri… Devi vivere come pensi, o finirai per pensare come vivi!» E a chi lo definisce povero ribatte: «Non sono povero, non mi sottometto all’obbligo di sprecare il mio tempo per guadagnare denaro. Conservo la libertà di stare con gli altri».
Nel 2020 Mujica lascia la carica di senatore e rinuncia a ogni responsabilità per fare posto ai giovani. Nel suo ultimo libro di interviste con gli scrittori Carlos Martell e Mario Mazzeo, Semillas al viento [Semi nel vento, non tradotto] dice: «A cosa serve un albero se non lascia filtrare la luce affinché nuovi semi possano crescere grazie al suo fogliame?».
Quest’uomo ordinario e i suoi compagni potrebbero forse averci mostrato come sventare i trabocchetti della storia.
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Denis Merklen
Sociologo, direttore dell’Istituto di Alti Studi per l’America Latina.
LA PARABOLA DI UN MONACO CORROTTO, DALLA’HIMALAYA ALLA SVIZZERA
Sul Tetto del Mondo, dove i cinesi si sono liberati da santoni schiavisti e da secessionisti made in Usa
di Scot e Rac
Il 6 luglio prossimo il signor Tenzin Gyatso, cinese nato discosto dal Tibet ma che ha fatto fortuna spacciandosi come tibetano, compirà 90 anni. Chiaritevi bene questo dettaglio, sennò non potrete seguirmi fin dove vi sto portando: Tibet, regione della Cina. Come la Lombardia lo è dell’Italia. Con la grande differenza che la Lombardia è da sempre la più ricca del nostro Paese, mentre il Tibet è stata a lungo la più povera della Cina. Piagata da miseria endemica duplice. Per cominciare, l’incombenza delle cime più alte del mondo, con la loro penuria di risorse naturali: oltre una certa altitudine non si coltiva né si alleva alcunché. Poi una popolazione per secoli prona a una teocrazia che la voleva schiava, condannata ad affamarsi per il benessere dei monaci, talmente esigenti da sottrarre ai sudditi i figli minori. Letteralmente: i rampolli più promettenti, per robustezza e attitudine servile, venivano sequestrati dai monaci e cooptati nel monastero, vasto come cittadella e ricco come reggia di faraone.
Negli anni Cinquanta, quando Mao Zedong prese il potere in Cina e v’insediò il comunismo che tutt’oggi perdura, spazzò dalla regione tibetana sia il servaggio di matrice monastica sia i teocrati che ne godevano. E rimpiazzò il medioevo con la modernità, il sottosviluppo con il progresso. Presto si rese conto che anche in Tibet, come storicamente in gran parte del resto del pianeta, gli schiavi molto abbrutiti erano i primi a opporsi alla fine della schiavitù, che per loro era sinonimo di stabilità e di quella rassegnata tranquillità che dispensa dalla libertà, così gravida di riflessioni, di decisioni, di scelte. E di rischi e di errori, giacché sbagliare è proprio di chi fa. Per cui il governo cinese, oltre a mettere mano all’ammodernamento tecnologico e all’acculturamento della regione più arretrata del Paese, si risolse a popolarla d’immigrati evoluti, stimolati a traslocare in Tibet. Si rivelò un metodo efficace per evolvere un territorio altrimenti condannato a perseverarsi nell’età del nomadismo, della caccia e delle guerricciole perenni fra tribù, ad arco e freccia.
All’inizio di questo programma governativo mirante a redimere il Tibet medievale e sottosviluppato, il cinese della nostra storia – Tenzin Gyatso – abitava a Lhasa, aveva 23 anni, nutriva mire carrieristiche nella casta monastica e ambizioni di percorrerla in fretta. Come? Collaborando con un governo che, all’epoca, era infinitamente più ricco e potente e invadente, persino in Tibet, di quello cinese: il governo degli Stati Uniti. Che aveva dichiarato guerra alla rivoluzione anticapitalista di Mao, ben prima che questi vincesse e liberasse la Cina, nell’interezza del proprio territorio, dunque anche della regione tibetana.
Per farla corta, quando Tenzin Gyatso divenne capo dei monaci, bardandosi, non diversamente dal nostro monarca vaticano, coi panni cerimoniali del predestinato, e assumendo lo pseudonimo di Dalai Lama, gli Stati Uniti ne fecero il loro agente politico in Tibet. La sua missione: convertire i tibetani alla santa causa della secessione dalla Cina. Vi si dedicò con le infinite risorse fornitegli dagli Usa. Ordì contro il governo cinese centinaia di congiure e provocazioni. Non ne imbroccò mai una che una. Tante inconcludenza e pasticcioneria alimentarono il sospetto, che noi non condividiamo, di doppiogiochismo. E che evidentemente non ha intaccato il governo Usa, visto che continua a mantenere sontuosamente il proprio agente, sia direttamente, sia sostenento i di lui arricchimenti in proprio.
La secessione comandata a Gyatso fu un fiasco. Sin dall’inizio. Il governo regionale tibetano, repubblicano e ostile alla secessione da Pechino almeno quanto avverso alla teocrazia, quando seppe delle mire di Gyatso non lo arrestò, come pure la gravità dei reati avrebbe più che giustificato: arruolarsi nell’organizzazione clandestina di un Paese nemico teso a sbrindellare il proprio conduceva dritto alla pena di morte, ovunque sul globo. Ma si limitò ad ammonirlo. Più che sufficiente per un pavido. Che fuggì in India. Così, a 23 anni, Gyatso continuò a lavorare per i servizi segreti Usa al di qua del confine cinese. Sempre fallendo nella sua santa campagna di conversione dei tibetani alla rivolta.
A distanza di 67 anni Gyatso è sempre allo stesso punto, ch’è quello di partenza. Il Tibet continua a essere una regione della repubblica popolare cinese. I tibetani, ormai in gran parte costituiti da immigrati dalle altre regioni del Paese o dai loro discendenti, si godono i frutti della vertiginosa crescita economica e culturale della repubblica. Che tiene il Tibet in sommo conto. Ha costruito persino una ferrovia elettrificata che sfida il massiccio montagnoso più alto del mondo per trasportare cinesi e turisti da Pechino a Lhasa, il capoluogo regionale. E siccome lo sviluppo della Cina è anche militare, gli Stati Uniti hanno rinunciato da un pezzo alle loro mire di scatenarvi una secessione. Ma non di usare anche il sogno di un Tibet amerikano a scopi propagandistici.
L’affaristica mondiale è esito di competizione nella quale è prassi ricorrere alle rodomontate propagandistiche, che quantomeno alimentano il consenso interno. Ecco perché, in vista del 90° compleanno dell’agente Cia Tenzin Gyatso, si preparano a enfatizzarne «l’eroica resistenza alla colonizzazione del Tibet da parte del governo di Pechino». Per il quale Gyatso altro non è che «un esule politico impegnato in attività separatiste anti-cinesi ammantate di religiosità».
Anzi: era. Dal 2018 Gyatso ha definitivamente abbandonato il proprio quartier generale con vista sull’Himalaya, in territorio indiano, e si è trasferito in una delle sue sontuose residente, in Svizzera. Attualmente è in cura ospedaliera per un cancro alla prostata. Ma non per questo l’ologramma del Dalai Lama, proiettato dai suoi mandanti, ha inceppato la sua «attività separatista», che ogni organo di stampa atlantista diffonde in ogni angolo del mondo.
Per cui, cari lettori, preparatevi alla prossima, rinnovata ondata di beatificazione del Dalai Lama. La contrastiamo proponendovi il profilo a suo tempo redatto dal compianto filosofo e storico Domenico Losurdo. Conservatelo, e confrontatelo con i coccodrilli, cioè con gli encomi che ogni giornale atlantista si prepara a pubblicare, nel timore che il beato perda in anticipo sul 6 luglio la sua ultima battaglia, contro la prostata.
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CORRELATO, DA LA SMONDA, CONTROGIORNALE ETICO AZIENDALE DELL'ARNOLDO MONDADORI EDITORE
DIRETTO DA GIAN CARLO SCOTUZZI. 1° NOVEMBRE 2003
GUERRE MEDIATICHE
La Cina, il Tibet e il Dalai Lama
di Domenico Losurdo
Cinefili e vacuofili
Scopro che anche a Milano c’è un Circolo Nautico dei Caphornisti. Cioè di velisti che hanno doppiato Capo Horn, riuscendo dove nel 1788 fallì il comandante del Bounty. Massì che ve lo ricordate: l’avete visto in due film, uno con Marlon Brando e il successivo con Mel Gibson, Gli ammutinati del Bounty, appunto.
Consapevole che la follia sgrana rosario infinito, ho mestato nel medesimo sacco, cavando il Club di Coloro Che Hanno Stretto la Mano a Silvio Berlusconi. Che sembra una scemata non implicante privilegio alcuno, giacché abbordava manine e manone di chiunque reputasse suo elettore potenziale, e invece è adagio universale che italianizza e dilata quello lanciato da Elliott Gould in uno dei suoi tre Ocean, là ove si allude all’insieme di quanti hanno stretto la mano a Frank Sinatra.
Poi sono incappato nel Circolo degli Ascensionisti dell’Himalaya, scoprendo che, soltanto nel Milanese, i membri sono svariate centinaia. Tra di loro una 78enne, che conquistò la vetta l’anno scorso, e uno sciapode, che alla domanda su come sia riuscito a superare gli ottomila metri con una gamba sola, mi ha replicato: «Sono rimasto ben attaccato al seggiolino-zaino che una coppia di sherpa si someggiava a turno, cinquemila dollari tutto compreso».
Non sto a farvi l’elenco dei sodalizi bislacchi che ho scovato in 40 minuti di ricerca in internet e con due telefonate a pettegoli della Whiskeria Sorelle Della Giovanna e della Spritzeria Paradise, templi primari del chiacchiericcio meneghino. Ma vale la pena segnalarvi, viatico di speranza anche per smarriti poverelli, la confraternita delle Adottive Morali dei Falchi Giò e Giulia, che da due lustri hanno nido istituzionale, allestito e manutenuto dalla Regione, sul tetto del Pirellone. La loro quotidianità, inclusiva di cove ed emancipazione dei pulli, è trasmessa in diretta perenne da due webcam, per la delizia delle 24 mila Adottive che, ai ceppi di cellulari e pc, non perdono un frullo né uno schizzo.
Curiosità: il circolo più a buon mercato è quello delle falcofile, ad accesso libero e gratuito; il più caro quello degli stringitori di manosanta, che da quando è mano morta ha condannato il circolo a consunzione anagrafica.
(gcs) |
ALGORETICA E DINTORNI
Socialismo o barbarie, ultima chiamata
di Scot e Rac
Da sempre e ovunque l’intelligenza, la conoscenza e la ricchezza sono barriere che separano il popolo comune, fortemente maggioritario, dalla minoranza privilegiata. Che ovviamente detiene il potere. L’avvento della cosiddetta IA (intelligenza artificiale), insieme all’innesto nel corpo umano di dispositivi meccanici ed elettronici che strapotenziano muscoli e cervello hanno elevato talmente queste barriere che il popolo minuto non ne scorge neppure il sommo. Nel senso che, se un tempo la superiorità di una persona super-intelligente, super-colta e straricca era palese, oggi le super-persone non sempre si distinguono dalla massa inerte. Con la quale anzi tendono a confondersi, vuoi per convenienza a mimetizzarsi, vuoi perché – viceversa – un ignorantone ben vestito e ben pasciuto e spendaccione può essere scambiato, fin che non apre bocca, per un godereccio membro della casta superdotata.
Abbiamo aggettivato l’IA di cosiddetta perché d’intelligente ha poco o punto: non è che vivaio di logaritmi condannati a replicare, con le infinite varianti da caleidoscopio ciclopico, le istruzioni (algoritmi) che un umano vi semina. L’IA può semmai definirsi una di queste due cose o le due insieme: da un lato, un automatismo di calcolo-archivio-replica; dall’altro, un surrogato di quelle capacità logiche e creative standardizzate che difettano a molti cervelli umani. Esempio: un semianalfabeta aspirante giornalista riesce, inserendo nel computer tutt’i dati relativi a un incidente stradale (luogo, ora, veicoli coinvolti, feriti eccetera), a demandarne lo sviluppo cronachistico all’IA, programmata per incastrare tutti i dati in una narrazione rispettosa della grammatica, della sintassi e della successione temporale degli eventi (esempio: il tassello il conducente ha riportato gravi ferite va inserito prima del tassello il conducente è morto poco dopo all’ospedale). Ma l’IA non può redigere un articolo di qualità superiore, generato da riflessioni che la macchina non può produrre. L’IA non può competere con la prosa di un Dino Buzzati o di un Giorgio Bocca o di un Italo Calvino, né palesarsi visionaria come un George Orwell, sennò non di IA staremmo parlando, bensì di un robot-umano, cioè di un neo-umano meccanico o, se in carne e ossa, di un neo-umano generato da un robot capace di selezionare i migliori gameti, di abbinarli al meglio e di sviluppare embrioni e feti in uteri e placente artificiali, estraendone esseri umani talmente superdotati ed evolventi da escludere anche quella penosa caricatura dell’uguaglianza tra esseri umani che chiamiamo democrazia universale egalitaria.
Siamo ancora lontani da questo futuro possibile, dove un’umanità che persistesse a orientarsi con la bussola del profitto e del dominio della forza condurrebbe alla barbarie. Ma è questa la rotta lungo la qualela sedicente IA, pur nei suoi balbettii d’abbrivio, associata ad altre prodezze tecnologiche (come i chip di memoria incistati nel cervello o gli esoscheletri di stampo androide) ci stanno avviando.
Come imporre sviluppo etico a questo maremoto scientifico e tecnico? Come affermare la civiltà, ch’è saldezza di valori morali vivificata da visionarietà umanistica, sul tornaconto individuale, sull’egotismo familista, sulla novella legge della giungla regressista? In estrema sintesi: come sottrarre l’algoretica ai ladri di neologismi, che pretendono negarci persino razionalità lessicale e dunque sviluppo e condivisione di pensieri all’altezza dell’emergenza e dei tempi?
La risposta può essere la replica aggiornata di quella fornita da Cornelius Castoriadis (filosofo greco naturalizzato francese) mezzo secolo fa, quale ricetta per contrastare le derive del capitalismo tecnologico dell’epoca. Disse in sostanza: Visto che il Partito del Profitto Individuale, comunque camuffato, ha preso il potere in ogni latitudine e visto che pretende pilotare in esclusiva la scienza e deciderne le declinazioni pratiche (bombe atomiche invece di laser atomici che debellano il cancro, per esempio), premesso tutto questo dunque, a noi anticapitalisti non residua che una scelta obbligata: il socialismo. E Castoriadis fondò la rivista e il movimento Socialisme ou barbarie. Continuiamo ad alimentarlo.
Siamo alla vigilia di una Nuova Èra dove il pio mantra Tutti gli uomini sono uguali, palpitante sogno natalizio su ogni albero di natale costituzionale, sarà irriso anche fisicamente, platealmente, da uomini dal fisico e dalla mente potenziati, tendenzialmente sostituiti da IA che, fuor d’ossimoro, saranno terminali delle scelte, operative e programmatiche, decise nelle più alte e smilze torri elevate sopra la cittadella oggi riservata ai naturalmente superdotati, ancorché già corroborati da innesti e protesi avveniristici.
Delle due l’una: o noi umanisti ci appropriamo della gestione della comunità e imponiamo una riserva di Stato sullo sviluppo e sull’uso delle scoperte scientifiche, massime di quelle che già hanno iniziato a gerarchizzare irreversibilmente l’umanità, oppure ci rassegniamo a smorire al di qua d’ogni mura, dove i nuovi signori della Terra mirano a relegarci, Untermenschen e servi perenni, salva l’opzione di una più conveniente Soluzione Finale.
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A Brescia la cinquantesima replica del Vedovo Inconsolabile
La tragedia e la fortuna hanno bussato insieme alla sua porta il 28 maggio 1974, quando una bomba ha ucciso sua moglie e altre sette persone radunate da una manifestazione sindacale sotto la pioggia in Piazza Loggia a Brescia. Parliamo di Manlio Milani, all’epoca impiegato del municipio nonché sindacalista della Cgil e successivamente presidente a vitalizio dell’Associazione parenti delle vittime. Da quel giorno di 51 anni fa ha virtualmente cambiato mestiere per dedicarsi all’elaborazione del lutto e alla proclamata «ricerca dei colpevoli della strage».
E per 51 anni nessuno che abbia mai avuto l’ardire di richiamarlo a due decenze: primo, è l’unico, tra i 700 mila italiani orbati della moglie, ad aver pretestato la vedovanza per proclamarsi supercassintegrato a vita. Secondo rimarco: con un diploma di terza media preso alle serali non aveva titolo né scienza per affiancare lo stuolo d’investigatori assai più competenti e legittimati di lui, dalla polizia giudiziaria ai magistrati ai giornalisti d’inchiesta, che all’epoca c’erano. Macché, lui ha continuato a issarsi su qualche palco, a esibire se stesso e il suo personale «eterno dolore» dinanzi a scribacchini e auditori vocati alla replica perenne di un cordoglio mediatico sempre più estraneo alla maggioranza dei suoi concittadini. Che, alla luce dell’oggi, nel 1974 forse non erano neppure nati, visto che nel 2025 l’età media dei bresciani è 46 anni.
Eppoi sarebbe ora che il Primo Vedovo d’Italia recuperasse, a 87 anni suonati, un minimo di senso delle proporzioni e di rispetto per le maggiori stragi odierne: soltanto in Palestina e nell’ultimo anno e mezzo i sionisti hanno macellato oltre 50 mila residenti, di cui 18 mila bambini. Che sono, a cospetto, gli otto (8!) morti bresciani di 51 anni fa? Certo, Milani continua a spacciarsi come un eletto stimolatore di una giustizia che, oltre a non avere ancora finito di punire tutti gli esecutori della strage, non ne ha mai indagato i mandanti. Che sono risaputi a quanti hanno acclarato, nonostante e contro il regime, la genesi di questo e di altri più sanguinosi macelli perpetrati su ordine dalla NATO, ancorché a volte appaltati a fascistelli. Un regime, sia rimarcato per inciso, di cui Milani è peraltro intrinseco e beneficiario, con le sue incette di encomi e benemerenze culturali: siamo nel Paese dove una laurea onorifica si concede a chiunque sia abbastanza noto da rifletterla su chi gliela regala. Se n’è presa una persino un giovinotto soltanto perché correva forte in moto.
Il bilancio del processo della strage di Piazza Loggia è fallimentare. Persino Milani riconosce che «non si è adeguatamente indagato sui mandanti». Ma allora in cosa è consistito il suo millantato stimolo alla ricerca della verità? Come si può tollerare lo scandalo di processi penali che si trascinano oltre il mezzo secolo?
Tra 16 giorni i bresciani dovranno sorbirsi, sugli schermi e sugli stampati d’ogni risma servile, la cinquantesima replica della rituale sceneggiata, starring il Supervedovo e i politicanti col turibolo: Oh! che dolore, «Voi non potete immaginare lo strazio di perdere l’amata moglie» (registrata a Milano, durante uno show in Via Della Signora), Sia lode alla Verità di Stato, Sia lode alla Giustizia di Stato che prima o poi riuscirà a mettere dietro le sbarre non già i burattinai delle stragi, sia mai!, bensì altri
burattini. O le loro ceneri, visto il bradiposo incedere dei sedicenti cacciatori di stragisti.
(SeR) |
Da Le monde datato 11-12 maggio 2025
SCHIAVITÙ ANTICA E MODERNA
«La Francia deve 30 miliardi di euro ad Haiti e dovrebbe cominciare a discutere delle modalità di restituzione»
di Thomas Piketty *
traduzione di Rachele Marmetti
Nel 1825 lo Stato francese impose ad Haiti un tributo per risarcire i proprietari di schiavi per la perdita delle loro proprietà. Questo debito, che il fragile Stato haitiano dovette faticosamente pagare fino agli anni Cinquanta del secolo scorso, ha pesantemente ostacolato lo sviluppo del Paese, oggi uno dei più poveri del mondo.
Tutti i regimi francesi che si sono succeduti in questi duecento anni (monarchie, impero, repubbliche) hanno continuato a riscuotere queste somme, scrupolosamente versate alla Cassa Depositi. Sono fatti ben documentati e non contestati.
Sgombriamo il campo da malintesi: la Francia deve circa 30 miliardi di euro ad Haiti e dovrebbe immediatamente avviare una discussione sulle modalità di restituzione. L’argomentazione che la Francia non ha i mezzi finanziari per farlo non regge. L’importo è notevole, ma è inferiore all’1% del debito pubblico francese (3.300 miliardi di euro) e solo lo 0,2% del patrimonio privato (15.000 miliardi): rappresenta lo spessore di una linea.
Se si teme che il denaro possa venire utilizzato in modo improprio, si può ipotizzare di collocarlo in fondi destinati a infrastrutture essenziali per l’istruzione e la salute dell’Isola, come propongono in modo esplicito i Paesi della Comunità dei Caraibi (CARICOM) sin dal 2014.
Questa proposta è stata approfondita in un importante rapporto pubblicato nel 2023 dal Centre for Reparation Research dell’università di Kingston (Giamaica) e dall’American Association of International Law (Associazione americana di diritto internazionale). Coordinato da Patrick Robinson, ex presidente del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, nonché giudice giamaicano presso la Corte internazionale di giustizia, questo rapporto va oltre il caso di Haiti ed è senza dubbio il documento più importante fino a oggi pubblicato sulla questione dei risarcimenti post-schiavitù.
Correggere le ingiustizie del passato
Le conclusioni in cifre di questo rapporto sono state ufficialmente approvate dalla Comunità dei Caraibi e dell’Unione Africana. Il fatto stesso che siano state così poco discusse nei Paesi occidentali è testimonianza del preoccupante scollamento tra Paesi del Nord e del Sud, caratteristico dell’epoca attuale.
In questi tempi difficili, in cui il trumpismo cerca di resuscitare la più brutale ideologia coloniale estrattivista [1], la Francia avrebbe tutto l’interesse ad adottare l’approccio opposto, mostrandosi capace di assumersi la responsabilità delle ingiustizie commesse nel passato e di correggerle, cominciando dal caso specifico, ma altamente simbolico, di Haiti.
Nel XVIII secolo Santo Domingo è la perla delle colonie francesi, la più redditizia, grazie alla produzione di zucchero, caffè e cotone. Gli schiavi trasportati dall’Africa rappresentano il 90% della popolazione dell’isola e alla vigilia del 1789 raggiungono il mezzo milione. All’epoca è la più alta concentrazione di schiavi dell’area atlantica. Nel 1791-92 gli schiavi si ribellano e prendono il controllo dell’isola. Sotto la loro pressione, nel 1794 la Francia abolisce la schiavitù.
I proprietari di schiavi si mobilitano e nel 1802 riescono a far ripristinare la schiavitù in tutte le altre isole schiaviste francesi (Martinica, Guadalupa, Riunione, dove la schiavitù si protrarrà fino al 1848). Nonostante ripetuti tentativi, la Francia però non riesce a riprendere il controllo di Santo Domingo, che nel 1804 proclama la propria indipendenza, con il nome di Haiti.
La palla al piede del debito
Lo Stato francese riconoscerà Haiti nel 1825, imponendo però un tributo di 125 milioni di franchi-oro. All’epoca l’importo è pari a circa il 300% del reddito nazionale di Haiti, ovvero tre anni di produzione. È impossibile pagare in un’unica soluzione. Un consorzio di banchieri francesi anticipa la somma, da restituire con gli interessi. Haiti si trascinerà la palla al piede di questo debito fino al 1950.
Nel 1904 le autorità della III Repubblica si rifiutano di partecipare alle cerimonie del centenario dell’indipendenza per protesta contro i ritardi nei pagamenti. Nel 2004, in un contesto molto diverso, Jacques Chirac rinuncia a partecipare al bicentenario, temendo richieste di restituzione. Cosa si farà nel 2104?
Per volturare il tributo del 1825 nell’equivalente importo del 2025, il modo più trasparente è applicare la stessa proporzione rispetto al reddito nazionale di Haiti: ne risulta una somma minimale dell’ordine di 30 miliardi di euro, tenuto conto delle remissioni del debito. Se indicizzassimo la somma iniziale non sulla crescita nominale dell’economia ma sul rendimento medio del capitale, otterremmo un importo cinque o dieci volte superiore! L’indicizzazione minimalista qui proposta si avvicina a quella adottata nel Rapporto Robinson del 2023.
Tuttavia quest’ultimo sfocia in somme complessive di gran lunga superiori (diverse migliaia di miliardi di dollari di risarcimenti post-schiavitù nel caso della Francia, e circa 100 mila miliardi su scala globale), perché comprendono non solo il tributo del 1825 ma anche, e soprattutto, una stima dei salari non pagati agli schiavi durante la schiavitù, nonché [il danno biologico] una valutazione dei maltrattamenti da loro subiti (un importo paragonabile ai salari). L’approccio regge e viene spiegato con molta chiarezza nel rapporto.
Si può anche ritenere che il mero calcolo matematico dei risarcimenti non sia risolutivo e che la discussione dovrebbe entrare in un dibattito più generale sulla riforma del sistema economico e finanziario internazionale e sulle sfide sociali e climatiche del XXI secolo. Questo è anche lo spirito del Rapporto Robinson.
A mio avviso, il caso di Haiti merita subito una restituzione diretta, in quanto ci sono versamenti interstatali ben documentati, sebbene su un piano più generale sia indubbiamente meglio privilegiare un approccio in termini di giustizia universalistica e di prospettiva, che di fatto si concretizzerà in somme almeno pari a quelle calcolate nell’ottica della giustizia riparativa. Quel che è certo è che i Paesi occidentali non potranno evitare all’infinito di limitarsi a dibatterne, pena il definitivo isolamento dal resto del mondo.
[1] Che riguarda o che pratica lo sfruttamento delle risorse naturali di un Paese o di una località o che mira alla massimizzazione del profitto attraverso l’appropriazione di risorse anche immateriali (Treccani, neologismi) [ndt]
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Thomas Piketty è direttore degli studi presso l’Ècole des hautes études en sciences sociales di Parigi.
CIRCENSES
La mala marcia
di Scot e Rac
È un drone di 55 centimetri di diametro, capace di rimanere sospeso in aria per ore. Il gendarme lo innalza un centinaio di metri a perpendicolo su Viale Venezia a Milano, per esempio, e ve lo stabilizza e pilota tutto il tempo necessario a vigilare il raduno di manifestanti politici. E poi, mano a mano che questi s’inoltrano verso Piazza Duomo, il drone li segue, modulando la quota per ottenere inquadrature ottimali alla vastità del campo di ripresa.
E se il biscione umano si sfilaccia in bisciolini che si diramano nelle viuzze e negli slarghi contermini? In tal caso altri gendarmi decollano droni aggiuntivi. Ce n’è a iosa, giacché il regime, sparagnino su altro fronte contabile, non ne lesina. E sono discreti, perché i manifestanti hanno occhio esclusivo agl’immediati dintorni e se per caso, nello sgolare la lattina di birra, arrovesciano il capo e un oggetto tanto piccino – circa mezzo metro librato oltre i 108 della Madonnina! – non ci badano: l’acume non sfila in processione.
Ma a che pro dilettare i gendarmi con un eligioco? Che senso ha fare i guardoni guatando un popolo che, poverino, non fa nulla di male marciando innocuo al ritmo di Bellaciao o Cubalibre o Vinobuono o Culolibero? Per le ottime ragioni che elenco.
Innanzitutto, il primo comandamento, iscritto sin dalle direttive d’ordine dello Statuto Albertino e poi cardine dell’ordine repubblicano è: prevenire meglio che reprimere. Reversibile in caso di maltempo sociale: reprimi meglio se prima hai ben prevenuto, cioè ben vigilato. Le manifestazioni politiche non sono sempre soltanto festaiole. Capita, ancorché sempre più di rado, che degenerino in sceneggiate evocative di quasi sommosse, dai picchi quasi insurrezionali, ancorché localissimi, miserrimi e innocui sino al simbolismo. Ci fichiamo i quasi per eccesso di rigore sintattico, consapevoli che l’inconcludenza, premessa del mancato raggiungimento dell’obiettivo proclamato, è insita in ogni agire piazzaiolo. Ma si sa mai: i disastri o i miracoli possono arrivare all’improvviso. Per questo, nella pancia dei nostri droni da 55 centimetri sono stivate telecamere e rilevatori termici e laser e sensori olfattivi e chissà quant’altro, sono sature di prodezze elettroniche che adesso vi delibo e che reggono la seconda ragione che li motiva e che dilegua ogni tentazione di classificarli tra i ludi. Ecco cosa può fare, dalla sua consolle a terra, il pilota del drone.
Innanzitutto, e senza bisogno che una qualsivoglia illegalità lo scateni, attiva sul drone il programma contapersone. Il tempo che vi è servito a leggere quest’ultima frasetta è lo stesso usato dal drone per censire i crani di quanti popolano, per esempio, Piazza Duomo, e di sommarli a quelli che prima ha detectato a partire da Porta Venezia, dove la processione è nata. No, non corre il rischio di contare due volte il medesimo sfilante, giacché il software esclude i doppioni; sì, poiché il drone non smette mai di contare, il censimento si aggiorna di minuto in minuto e quindi i vigilanti disporranno di un diagramma che mostrerà la mobilitazione popolare lungo tutto l’arco della sua durata. Anticipo la vostra ovvia obiezione: Ma ogni spasseggiata di popolo è contornata e incistata da stuoli di poliziotti e carabinieri che la tengono sott’occhio, pronti anche a tenerla in briglia se necessario: ebbene, come escludere dalla conta i servitori dello Stato? Risposta: i gendarmi si portano addosso, quantomeno sul lavoro, un chip che li palesa. Per cui il drone, campione di evoluzione tecnologica, sbranca i vigilanti dai vigilati. Il saldo partecipativo è sempre al netto.
I coordinatori delle forze dell’ordine, connessi al pilota e al suo drone, ricevono in cuffia, per esempio, questa comunicazione: «Forze potenzialmente ostili in Piazza Duomo: 15.725; forze neutrali [cioè gli spettatori, i passanti casuali, i turisti] 9.212; forze amiche [le forze dell’ordine, appunto, in senso lato] 850.» Non allarmatevi: se il software del drone ricorre al termine ostili, che sembra rafforzarsi al successivo uso del suo contrario, amiche, è perché così lo hanno programmato per esigenze di computo, e non riflette alcuna valutazione socio-politica, ci mancherebbe, siamo tutti liberi di manifestare per la città senza per questo essere schedati come ostili!
E prevengo anche questa vostra ovvia e sacrosanta obiezione: Ma adesso che i rappresentanti dello Stato hanno gli strumenti per precisarci all’unità quanti, ieri pomeriggio, manifestavamo in centro, perché già ieri sera alla tivù e oggi sui giornali stampati ascoltiamo e leggiamo il solito ritornello: «Alla manifestazione hanno partecipato 80 mila persone, secondo gli organizzatori; 20 mila secondo la questura»?
Perché questa aleatorietà è indispensabile a fornire speranza messianica a ogni manifestazione simbolicamente contestativa. Se dei sudditi, incapaci e in gran parte anche nolenti di contestare sul serio, si pascono di una processione e/o dell’ascolto di un comizio e dei suoi contorni consumistico-goderecci, e altro non reclamano, perché chiuder loro quest’infima valvola di sfogo? La politica popolare – tristo ossimoro – si contenta di un’elemosina. Dell’illusione di esser parte di una massa che, quando si raduna, è ancora capace di tenere in rispetto il potere. Siamo pur sempre in grado di riempire Piazza Duomo, no?
Che ne sa, il popolino, quanto può contenere una piazza rimpicciolita con gli stessi trucchi di Piazza San Pietro, dove la sapiente geometria delle transenne contrae gli spazi destinati ai fedeli al punto di enfiarli, nella percezione dei telespettatori, a moltitudine?
Ma risaliamo sul furgone, accanto ai piloti dei droni. E lasciamoci aggiornare sulle loro prodezze. E diamo per scontato che voi teledipendenti siate a giorno di come i software di riconoscimento facciale possano redigere l’elenco di tutt’i manifestanti.
In caso di disordini esondativi che le forze a terra non riuscissero a contenere, il drone scende di quota, approssimandosi alle aree violente, apre gli ugelli sotto il ventre e spruzza sui manifestanti gas inodore e incolore, ma narcotizzante e irritante. Poi, se questa pioggia afflosciante non basta, il drone sgancia nugoli di sferette riempite di Dna. Cioè di un marcatore codificato che lascia sulla pelle e sugli abiti dei manifestanti chiazze invisibili a occhio nudo ma che gli ultravioletti della polizia possono scovare anche dopo due giorni. E registrare che tu, il tal giorno alla certa ora ti trovavi fra Piazza Duomo e l’imbocco di Via Torino.
In tale scenario, dove i manifestanti sono colti da improvvisa sonnolenza e si grattano dappertutto, notereste che i poliziotti non indossano maschere antigas. Non ne hanno bisogno, perché respirano aria purificata dalla visiera aderente, e dal cristallo lucido terso da sembrare nuovo: è fabbricato con un nuovo materiale resistente agli urti violenti e alle scalfitture. Altra novità tecnologica, celata dai loro gilet tattici, e ovviamente antiproiettile: incistano un giroscopio che rivela al comandante sul campo e alla centrale operativa remota quando chi lo indossa è colpito o cade a terra. Ma a sorprendervi sarebbe il loro scudo, massiccio e puntuto di accessori. Può reggere 28 chili ed è sorretto da un braccio meccanico avvinghiato, quasi una protesi, al braccio umano.
Ormai vi siete fatti un’idea di quanto sarebbe arduo tracimare i confini tra la processione pacifica, pur animata da tollerati svacchi goliardici, e gli eccessi intollerati, anche perché i piloti dei droni possono oscurare i satelliti a servizio dei cellulari. I vostri cellulari, ovvio. Il che vi negherebbe l’unica soddisfazione che solitamente potete permettervi: farvi un selfi e inoltrarlo agli amici.
Donde viene questo nostro sapere? Da Saint-Astier, in Dordogna, dove ai margini del paese c’è il centro addestramento del BAAP, Bureau analyse, anticipation et pédagogie. Soltanto nell’ultimo anno la Gendarmerie vi ha svolto 118 esercitazioni per collaudare le mirabilia antisommossa di cui abbiamo relatato modesto scampolo.
(1 - continua)
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APPALTI PUBBLICI E DABBENAGGINE POPOLARE
Il miracolo di Santa Expo si rinnova
di Scot
Lo stamburamento è iniziato il 1° maggio. Va scemando ma non si spegne del tutto, ogni tanto un colpo di mazza a perdurare il rincoglionimento del popolobue. A scatenare il ritmo sono i massimi gestori della metropoli, che ai pennivendoli ordinarono: Parlare e scrivere bene, anzi benissimo, dell’Expo 2015.
Come? E perché?
Cominciamo dalla difficoltà di obbedire.
Arduo lodare una delle più dispendiose e inutili baraonde della storia della città. Fu un saturnale folle che si protrasse per sei mesi, dal 1° maggio al 31 ottobre di dieci’anni fa. Obiettivo proclamato di Expo: allestire una fiera campionaria che dilagasse, su un milione di metriquadri, cioè su un palcoscenico lungo un chilometro, il meglio dell’operosità e dell’inventiva mondiali, a maggior sboccio e gloria e profitti dell’imprenditoria ecumenica, massime di quella italica. No: italiota. Cioè la peggior declinazione, affaristica e incompetente e squallida, del Paese nostro. Expo 2015 fu pretesto per spalancare una voragine che, con almeno un anno d’anticipo sulla data di inaugurazione, cominciò a inghiottire vagonate di milioni di euro dei contribuenti. Deviati dai flussi destinati alla sanità, all’istruzione e ai trasporti pubblici. Fu spreco biblico, talmente ridondante e scandaloso da obbligare persino i magistrati a metterci becco. Si rilegga, sotto: L’Italia che viene esibita a Expo 2015.
Con largo anticipo sulla data dell’inaugurazione, molti milanesi s’indignarono per gli sprechi e la mancata partecipazione di espositori di vaglia, dunque del suo fallimento partecipativo. I politicanti fiutarono aria di torbidi. Per disinnescarli e prevenire crisi politiche e disordini, ne organizzarono di loro propri, ricorrendo alla millenaria tecnica di commettere infamie allo scopo d’imputarle all’avversario e squalificarlo. Si rilegga, sotto, la nostra cronaca coeva: Primo maggio dei miracoli.
Per accudire la Superfiera Espositiva, come i politicanti ardirono battezzarla, furono arruolati, in aggiunta al personale professionale (dai costruttori agli addetti) anche 20 mila mercenari. Assiemati col criterio della prebenda ai raccoglitori di voti. Servitori d’accatto, inadeguati e fuoriluogo. Ne siano emblemi queste due scenette, cui assistetti.
Alla stazione di Porta Garibaldi arriva il treno da Parigi. Sbarca una filastrocca di forestieri anglofoni, che fanno risacca all’Ufficio Informazioni Expo 2015 allestito alla fine del binario, coi mercenari in divisa marziale a fronteggiare i turisti. Una capocomitiva chiede, in inglese, a una divisa:
‒ Dove prendiamo la navetta per Expo?
L’uomo fa una smorfia d’incomprensione, alza la mano a pigna e sbotta, in tono indignato e volgendosi di trequarti ai colleghi:
– Ma che cazzo di lingua parla ’sta stronza?
Risata dei mercenari. L’indignato riporta lo sguardo sulle foreste:
‒ Aho! Qui siamo in Italia. Se volete parlare la vostra lingua state a casa vostra.
Altra risata collettiva.
Seconda scenetta in Via Mengoni, spartiacque tra Piazza Duomo e Piazza Mercanti. Vi sostano i taxi e uno schieramento di suv neri coi vetri oscurati e la pecetta metallica della flotta allestita da Expo per scarrozzare gli espositori in visita gratuita alla città. Ma gli espositori latitano, come detto. Così questo plotoncino di giovani e prestanti autisti, ben fasciati nell’abito nero incravattato d’ordinanza, ristanno accanto ai suv con la portiera aperta, aggrumandosi e scambiandosi confidenze.
‒ Io ho depositato qui dei francesi, preferiscono andare a piedi, hanno detto che rientreranno in albergo per conto loro.
‒ Io aspetto la famiglia di un sottosegretrio di Stato, gente di Roma...
‒ Ah! Quelli meglio perderli che trovarli, mica ti scuciono mance, i ministeriali!
‒ Perché non chiediamo a queste belle turistotte qua se vogliono farci un giro?
Milano invaso dai suvotti neri, le vie della spendita come Saigon dove però i turisti siedono sugli Ape scoperti e la corsa se la pagano. Invece questi ospiti, istituzionali o poveracci incettati che siano, sono a nostro carico.
Per garantire la tranquillità di tanto scialo e di tanta transumanza festaiola sostitutiva della mancata frequentazione affaristica, Expo 2015 ha messo a nostro libropaga 2.300 vigilanti.
Ma chi sono i somari che hanno voluto o propiziato o consentito e comunque prolungato, tra preparativi e sbaraccamenti, questa mostruosità per quasi tre anni? Elenchiamoli per nome, a nefasto di quelli che furono stravolti come fasti che oggi i media proni risusciatano:
Giuliano Pisapia, sindaco sinistro di Milano; Roberto Maroni, presidente della Regione; Matteo Renzi, ilare quanto letale capo del governo romano; Giuseppe Sala, factotum della baraccopoli foranea, indi commissario unico della medesima, diligente esecutore dei primi tre e dunque traslocato in seguito sulla poltrona di sindaco.
Ed eccoci al giorno dell’inaugurazione, appunto il primo maggio di due lustri fa. Spettacolo osceno: la fiera disertata da molti degli invitati, schifati da tanta approssimazione associata a dissipazione, a inefficienza e dunque ad azzeramento dei tornaconti sperati: che è il solo aspetto che interessa ai signori del denaro. Persino la plebe lombarda, pur sempre incline a stiparsi in ogni postribolo festaiolo, riluttò a prendere il treno per sbarcare in un luna-park che impallidiva a cospetto di Gardaland. I facitori di Expo colsero il fallimento in anticipo: se una fiera si limita a essere ignorata dagli espositori ci si può mettere una pezza simulatoria, dinanzi alla telecamere, e si può far scrivere ai pennivendoli che gli espositori non è che manchino, ci sono eccome, però si notano poco. Ma un’invasione di visitatori entusiasti non si può inventare. Così corsero ai ripari, ricorrendo ai mezzucci che il loro scarso cerebro concedeva. Innanzitutto cominciarono a smagrire il prezzo del biglietto d’ingresso, da 32 euro a cranio in giù. Sino ad azzerarlo. Anzi, sino a pagarli, i visitatori, cui giunsero a offrire trasferta, panino e bibita gratis. Ma, di nuovo: lombardi appena appena normodotati riluttarono a farsi scorrazzare e spesare in quel misero accampamento rutilanti di luce e basta, irto di baracconi da Cinecittà e gravato dalle putride esalazioni dei malaffari che, giusta lode a censure dei magistrati che la stampa non potè ignorare, connotavano Expo di sottobosco malavitoso dove non era prudente inoltrarsi.
Allora degli expo-furboni ebbero questa bella pensata: quella di calamitare alla fiera i vecchi, i poveracci, gli handicappati e via elencando marginali e povericristi che a un pomeriggio fuoriporta, spesato e festato, non dicono di no: è pur sempre un lenitivo a trista routine. Anche un ritardato in transito al tornello di Expo 2015 fa scattare il contapersone. Anche uno sfigato fa numero e voto. Che raddoppiano e anche si triplicano se questa corte dei miracoli ce la promeni due o tre volte. Come nelle leggende dove pani e pesci si moltiplicano e l’acqua si fa vino, la conta degli accessi a Expo 2015 si gonfiò nei rendiconti dei contabili e dei loro pennivendoli.
Ci chiedevamo: a che pro comandare oggi ai pennivendoli di regime la celebrazione di una ricorrenza che un clemente senso di vergogna dovrebbe ricacciare nell’oblio? Per due motivi. Il primo è cautelativo: i presunti reati di corruzione, appropriazione indebita e via elencando malaffare arraffoso sollevano onda lunga suscettibile di montare tsunami giudiziario anche a distanza di lustri. Meglio far diga con tutto che capita, provvida anche una rinnovata campagna di stampa incensatoria di quei comportamenti che qualche magistrato caparbio persegue come reati sospetti. Ecco perché, in questa primavera 2025, si continuano a lodare i lasciti di Expo 2105: innanzitutto un’area dove lo sviluppo sperato continua a non esserci: vi languono investimenti, occupazione, iniziative, innovazione, ma dove i miracoli potrebbero accadere, se si stimola adeguatamente la creduloneria popolare, catalizzatore indispensabile per riversare altre camionate di milioni di euro. Tantopiù che ulteriori dissipazioni sono in corso, sempre su quel che resta di Expo, nonché sul fronte dei circenses tipo olimpiadi invernali. Dove politicanti e titolari di appalti pubblici vincenti hanno buoni motivi di temere l’impegno di magistrati inquirenti lungi dal rassegnarsi, di nuovo, al ruolo di perdenti.
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CORRELATO DEL 28 APRILE 2015
L’Italia che viene esibita a Expo
Chi si scaglia esclusivamente contro la corruzione, i ritardi e la pochezza della fiera campionaria milanese non ha capito nulla della missione che gli affaristi le hanno affidato. E che i facitori dell’esposizione hanno perfettamente compiuto. Con la complicità di tutt’i partiti e l’indifferenza del popolo sovrano.
di Gian Carlo Scotuzzi
Expo 2015 ha quattro facce. Nella prima è una fiera periodica in cui tutt’i paesi capitalisti (o che comunque praticano il capitalismo ritenendolo l’unico mezzo per approdare al socialismo, come la Cina) mettono in mostra ciò che hanno da vendere e danno un’occhiata a ciò che potrebbero comprare. La differenza tra un’expo e un mercato è che in quest’ultimo si scambiano merci o servizi in cambio di denaro, cioè si compra e si vende sul serio, mentre in un’esposizione si passano in rassegna campioni di merci o servizi, riservandosi di acquistarli e venderli in seguito, raramente ordinandoli subito. In un’expo si fanno pochi affari immediati, ma si pongono le premesse per concluderne in seguito.
Un’exposition (expo) si proclama uno scambio internazionale di conoscenze basato sulla pubblicità dimostrativa, dove gli espositori sfoggiano i prodotti migliori, materiali o intellettuali (know-how) con l’intento di trasformare i visitatori, nonché gli altri espositori di prodotti complementari, in futuri clienti.
In questa faccia, gli unici visitatori funzionali sono appunto i potenziali acquirenti dei prodotti e servizi esposti. Gli altri, cioè quelli che vanno all’expo per curiosare o per godersi la spettacolarità d’un evento che, effetto marginalissimo, è anche una giustapposizione di baracconi effimeri e da lunapark viaggiante, sono assimilabili ai turisti di Gardaland o ai fanciulloni della movida; la loro spendita (biglietto d’ingresso, cibo, ninnoli e quant’altro) è considerevole. Ma cascame produttivo: fruitori goderecci e vacanzieri della seconda faccia della fiera.
La terza faccia è il tornaconto di chi l’allestisce: politici, altri pubblici amministratori non elettivi, costruttori, banchieri, mercanti e, a servizio di tutti costoro, una serque d’intermediari, consulenti, procacciatori di consensi, opportunisti. Questa fauna di politicanti e portaborse s’impingua a spese del bilancio dello Stato e del verde lombardo. Scioriniamo qualche numero, tratto da Excelsior, il gran ballo dell’expo, di Gianni Barbacetto e Marco Maroni (ed. Chiarelettere, Milano, marzo 2015).
1.000.000 di metriquadri
terreni da cementizzare (metà in area Expo, metà alla Cascina Merlata, lì di fianco). Una piastra di asfalto, bitume e acciaio gravida di fabbricati di cui Milano non ha bisogno, oberata com’è di edifici invenduti o sfitti. Un diluvio di calcestruzzo che sottrarrà ossigeno agli abitanti e, negando ai terreni la funzione d’assorbire le piogge, prometterà inondazioni.
10-20 euro al metroquadro
valore iniziale dei terreni agricoli prima di Expo
150 euro a metroquadro
prezzo dei terreni agricoli pagati da Expo
14 milioni di euro
prezzo di acquisto dei terreni Expo nel 2002
50,8 milioni
valore dei medesimi terreni risultante dal bilancio 2009 di Expo
430.000 euro
compenso a Giuseppe Sala, amministratore delegato di Expo subentrato a Lucio Stanca (che ne prendeva 450.000)
750.000 mila euro
compenso a Germano Celant per dirigere la mostra Arts & Foods, prevista dal 10 aprile al 1° novembre alla Triennale di Milano in ambito expo
A cogliere i frutti minori della fiera, ci sono quanti vi traggono un salario o uno stipendio modesti, in armonia con gli esiti del picconamento delle conquiste retributive operato dagli ultimi governi e ulteriormente rimpicciolite dal mancato rispetto persino di quel che resta dei diritti dei lavoratori.
70.000
posti di lavoro promessi da expo
da 12.000 a 15.000
posti di lavoro realizzati secondo i sindacati
3.442
posti di lavoro realizzati secondo l’Osservatorio sul mercato del lavoro della Provincia di Milano
La quarta faccia del circo espositivo è il dopo-fiera, cioè i proventi del suo smantellamento: smontaggio o demolizione di molti edifici, conversione ad altri usi di quelli destinati a durare nel tempo, cessione delle aree alla speculazione edilizia.
Ad avvolgere le quattro facce della fiera c’è la mafia, che a Expo 2015 ha il volto della sua componente più in auge, la ʼNdrangheta, seconda solo a Cosa Nostra.
68
le interdittive (cioè il divieto di partecipare a bandi pubblici) emesse dalla prefettura di Milano a carico di aziende in odor di mafia ammesse a realizzare opere connesse a Expo
Expo 2015 è tutto questo e nient’altro. I partiti politici che l’hanno connotata di benemerenze sociali e culturali, proclamandola strumento per migliorare la vita a tutti prospettando un modello di sviluppo basato sull’ottimale sfruttamento delle risorse naturali, sulla salubrità ambientale, su abitazioni e trasporti pubblici decenti, insomma tutti coloro che hanno scomodato termini e locuzioni abbaglianti come ecosostenibile, a misura d’uomo, meno cemento e più verde e via elencando la panoplia elettorale per conquistare i gonzi, hanno detto menzogne al fine di conquistarsi, appunto, il consenso dei gonzi. Propaganda elettorale. E ve lo dimostriamo, passando in rassegna i prodotti e i servizi realmente esibiti da Expo 2015 — soprattutto dietro o addirittura lontano dai baracconi che dal primo maggio saranno saturati in gran parte da milanesi o quantomeno da lombardi — e perché alcune di queste mercanzie già si sono rivelate profittevoli per gli organizzatori della fiera e perché frutteranno molti quattrini agli espositori nonché ai visitatori affaristici.
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CORRELATO DEL 1° MAGGIO 2015
Primo Maggio dei miracoli
Cronaca delle manifestazioni per la festa dei lavoratori e di quella per avversare la fiera campionaria. E delle prevedibili, spettacolari e scarsamente contrastate scorribande dei Black Bloc.
di Gian Carlo Scotuzzi
Piazza Fontana è un rettangolo di 50 metri per 60, dentro cui è incistata una sottopiazzola alberata di circa 35 metri di diametro. La piazza è prediletta dai micro-raduni. Piace al potere, perché, pur in centrissimo, è defilata dal flusso principale dello shopping e degli affari; piace agli organizzatori con scarso seguito perché bastano poche persone a saturarla, in modo da spacciare alla stampa un numero di partecipanti multiplo di quelli reali. Tempo fa, a una manifestazione contro la guerra in Siria, Piazza Fontana era uno sventolìo di bandiere rosse. Contai i partecipanti: 43, me compreso. Tutti concentrati nella sottopiazzola, a corolla della fontana centrale, che ha un diametro di 6 metri. Togliete gli alberi e altri ostacoli, come la pensilina delle fermate dei tram e i parcheggi di moto e bici, e avrete un’idea della superficie calpestabile di Piazza Fontana. Cioè di quante persone ci stanno. I numeri sono indispensabili per valutare una manifestazione politica. Anzi, sono il dato essenziale, come la conta dei voti in una competizione elettorale.
La manifestazione che oggi è approdata in Piazza Fontana è stata organizzata da Cgil-Cisl-Uil. Sodalizi dai numeri piccini: messi insieme, dichiarano cinque milioni d’iscritti, un lavoratore su cinque. Però oltre la metà degli iscritti sono pensionati, cioè ex lavoratori, che conferiscono al sindacato un alone consensuale ma scarso potere negoziale. I pensionati non scioperano. E dei restanti 2,5 milioni d’iscritti non si sa quanti siano i disoccupati o gli occupati che non hanno rinnovato l’iscrizione. Per dire che, se va bene, Cgil-Cisl-Uil rappresentano un lavoratore su dieci.
Niente male, se questo decimo fosse tosto e combattivo. Ma è tutto il contrario: fa quasi sempre il crumiro. Non si disturba neppure per partecipare al più importante e storico appuntamento annuale: la festa del primo maggio, occasione per mostrare i muscoli del movimento operaio e combattere con piglio i rinnovi contrattuali e le ristrutturazioni aziendali che creano disoccupazione e peggiorano le condizioni di lavoro.
Se così non fosse, se cioè anche soltanto un decimo dei lavoratori si fosse mantenuto saldo in quegli ideali che per oltre un secolo hanno perseguito ideali egualitari ed emancipativi, stamane Piazza Fontana sarebbe zeppa. Quella di stamane è una manifestazione regionale, perbacco, per la quale il sindacato si è mobilitato alla grande, noleggiando parecchi pullman per fare arrivare qua gli operai da lontano. Dovrebbero esserci almeno centomila persone, ovviamente non qui, in questo ghetto, ma in una piazza adeguata, per esempio Piazza Duomo.
Invece sono poche centinaia, aggrumate nello spicchio di piazza a ridosso del portone del vescovado, dinanzi a un palco presidiato dai vigili col gonfalone municipale. I dirigenti sindacali vi si accalcano, inconsapevole esibizione d’impotenza, analoga a quella dei micropartiti che testimoniano gli ultimi rantoli del comunismo italiano; le truppe hanno disertato ma il quartier generale resta affollato di generali.
Per rigor di cronaca segnalo la stima partecipativa confidata da un funzionario di polizia: meno di un migliaio. «Ma prima che il corteo si dividesse in due, erano molti di più, forse poco meno di 10 mila», aggiunge. Dove sono finiti tutti gli altri?
Alla manifestazione di Cgil-Cisl-Uil ha aderito una decina di sigle politiche, tra le svariate che sopravvivono nel Milanese. Alcune hanno dimensioni ultralillipuziane: ci sono partitelli con meno di dieci militanti. Ma Cgil-Cisl-Uil non possono permettersi di discriminare sigla alcuna, neppure la più dimensionalmente infima o grottesca nella pomposità dei suoi dirigenti. Né di respingere adesioni incoerenti. Per esempio quelle di Rifondazione Comunista e del Partito Comunista d’Italia, i cui vessilli garriscono, oltre che qui, anche nelle altre due manifestazioni odierne di cui stiamo per dire e le cui parole d’ordine sono antitetiche, quando non antagoniste, rispetto a quelle dei tre sindacati confederali. Qui si inneggia ‒ pur con riserva ‒ all’Expo, considerata un’«occasione per Milano» e dunque è bene, là si sostiene che «Expo è uguale a mafia» e dunque è male. Ebbene, come possono questi due partitelli (che alle ultime elezioni non hanno raggiunto la soglia minima di voti per entrare in parlamento), dire qui, in Piazza Fontana, il contrario di ciò che affermano in altre piazze della città?
Il corteo sindacale è partito circa due ore fa da Porta Venezia, a meno di due chilometri da qui. Ma a tre quarti del percorso si è biforcato: il troncone guidato da Cgil-Cisl-Uil ha fatto rotta verso il palco davanti al vescovado, l’altro, composto da sigle solidali con i lavoratori ma critiche verso Expo, è approdato in Largo Richini. I plotoni di Rifondazione e del Partito Comunista d’Italia si sono a loro volta divisi in plotoncini: gli uni hanno seguito la processione di Cgil-Cisl-Uil, gli altri si sono imbrancati in quella di Lotta Comunista e altri sodalizi dissidenti dai sindacati.
Restiamo in Piazza Fontana. Poche centinaia, come detto a stima mia (o meno di un migliaio, a stima del funzionario statale): in ogni caso c’è da dubitare che tutti i passeggeri dei pullman noleggiati dal sindacato (e parcheggiati a pochi passi, in via Larga) abbiano ricambiato la cortesia degli organizzatori, che offrono viaggio e pranzo.
Gli oratori si alternano nella reiterazione di slogan che non sembrano entusiasmare l’uditorio. Sì all’Expo – dicono – che è una grande occasione per Milano e l’Italia, però «ricordiamo a Renzi che questa fiera campionaria non è stata realizzata da lui, bensì da tutti i lavoratori…» E poi appelli all’unità, alla mobilitazione contro il disegno del padronato, alla lotta in difesa del posto di lavoro…
L’uditorio presto si frammenta in conversazioni, passeggiatine, capatine alla fila di tre gazebo che coprono gli scaldavivande e una tavolata con pile di piatti di plastica. Dietro la tovaglia bianca cuochi e camerieri in divisa professionale, grembiule viola. Niente volontari bonari e malvestiti, stile Festa dell’Unità, ma servitori-dipendenti (da una società di catering) ligi alla consegna. «No, è presto per mangiare, serviremo all’ora stabilita. No, non è gratis, bisogna presentare il buono.»
Gli oratori ricorrono a tutte le consumate tecniche istrioniche per emozionare la platea: dal repentino innalzamento di voce al richiamo all’orgoglio per gli antichi fasti del sindacato, dalle rispettose frecciatine al potere alle battute di spirito. Macché: i battimani sono rari e mosci. «Abbiamo pur sempre un governo di sinistra, no?» sbotta un anziano a due giovani irridenti il «berlusclone Renzi».
Una donna accarezza la chioma candida del marito in carrozzina, gli si china all’orecchio, gli racconta quel che succede, come se lui fosse ipovedente o ipoacusico. Altri anziani e anzianissimi assentono di condivisione verso il palco, rigidi in posture riflessive, gli occhi immagoniti. È dura, per chi per una vita ha affidato al sindacato tante speranze di emancipazione e riscatto, vederlo ridotto così. Sì, i vegliardi sono tristi, sembrano a un funerale più che a una festa. E siccome gli anziani qui sono maggioranza, ecco spiegato il mortorio generale.
Finalmente i grembiuli in viola iniziano a ritirare buoni-pasto e a riempire piatti. Le panchine sono rare, si mangia in piedi, spasseggiando il piatto di plastica per gli ampi slarghi deserti della piazzetta.
Il troncone dissidente del corteo si è aggrumato a circa mezzo chilometro da qui, in linea d’aria, nell’appendice asfaltata di Largo Richini, dinanzi alla chiesa di San Nazaro Maggiore. È uno slargo lungo 70 metri e vasto, nel suo spancio maggiore, circa 25 metri. Tenuto conto che è in buona parte vuoto, la superficie residua non può accogliere più persone di quante se ne siano stimate in Piazza Fontana.
In Largo Richini stanno ora ascoltando un oratore dall’accento straniero, che sostiene la causa degli immigrati. Dice che sono indispensabili al nostro Paese perché si adattano alle mansioni disdegnate dagl’italiani. In ogni caso, argomenta, gl’immigrati ripagano, con i loro contributi previdenziali e assicurativi, quanto lo Stato sembra regalargli.
Il ponte vacanziero ha transumato gran parte dei milanesi benestanti nelle seconde case o in alberghi esotici: lo dicono i passaggi ai caselli autostradali e le partenze dalle stazioni ferroviarie e dagli aeroporti. Quando i milanesi rimasti in città vanno a pranzo non c’è più traccia della manifestazione di Cgil-Cisl-Uil. Piccina di per sé, si è svolta dietro la cortina di strade sbarrate, lungo percorsi resi defilati. La stragrande maggioranza dei milanesi e di quanti transitano per le vie cittadine non desertificate dal passaggio dei manifestanti, non se n’è neppure accorta.
E questo è il primo miracolo che il buon dio della diserzione sociale ha concesso al capitalismo: il sindacato è morituro, anzi morto, giacché quel che ne rimane è provvido antidoto al sorgere di sodalizi anticapitalisti. Dinanzi a queste prove di debolezza del sindacato, lorsignori si confermano liberi di abbattere, dopo l’articolo 18, ogni altra tutela dei lavoratori. E possono farlo senza bisogno di spendere risorse per foraggiare i sindacalisti che tenevano in briglia i lavoratori.
La manifestazione No-Expo parte da Piazza 24 maggio, cioè da Porta Ticinese, alle 14. Vi partecipano decine di partitelli, associazioni, gruppi folcloristici e sodalizi d’accatto, alcuni provenienti dall’estero. Sono accomunati dal giudizio negativo sulla fiera campionaria, il cui logo, Expo 2015, è stato graficamente deformato in Mafia 2015.
Gli slogan dei manifestanti e le concioni agli altoparlanti e ai megafoni sono unisoni e cristallini: l’Expo è l’esatto contrario di quel che si proclama. Lungi dal nutrire il pianeta, lo saccheggia; lungi dal prospettare un nuovo approccio con la natura, conferma e accentua quello di sempre. Un’Expo al servizio delle multinazionali dello sfruttamento umano, del saccheggio ambientale, dell’ulteriore impoverimento dei poveri.
I Noexpo hanno concordato con la questura una festa itinerante di circa tre chilometri. Aggirerà il centro cittadino per un quarto di cerchio e grossomodo ricalcando il percorso degli antichi navigli che i faraonici progetti idraulici di Expo avevano promesso di scoperchiare. I faraoni ‒ che almeno in 18 sono finiti in manette con l’accusa di corruzione e reati contermini ‒ avevano annunciato la trasformazione di Milano in una specie di Venezia: ramificata di canali; si prende il battello invece dell’autobus, intasamento del traffico e smog addio. Una bella favola. I media ci hanno creduto. Creduloneria mercenaria: Expo ha riversato camionate di euro su giornali e tivù.
Predissero quelli di Expo e amplificarono i “loro” giornalisti: vedrete, v’imbarcherete alla Darsena e i nostri battelli vi faranno navigare sino al porto di Expo.
Il grosso dei milanesi ha preso in burletta sia gli affabulatori dell’Expo sia i pennivendoli che gli tenevano bordone. Ed è per questa ragione che oggi nessuno si scandalizza se la mitica Città d’Acqua si riduce all’allungamento simbolico (cento metri?) della Darsena.
Anche le Vie d’Acqua si sono rivelate un progetto rimasto nel noumeno dei sogni, espressione delle smanie di grandezza di un’Expo che giganteggia soltanto nella corruzione. La Nuova Darsena prodotta da Expo è quella di sempre. Bisogna riconoscerlo: è ben ristrutturata e abbellita, ma resta pur sempre una Darsena condannata a capolinea dei due navigli, Pavese e Grande, non già snodo idraulico a presidio delle fantomatiche rotte dirette nel cuore della città, oltre che alla fiera espositiva.
La Darsena è presidiata da due manufatti misteriosi, ricoperti di tela bianca come le performance di Cristo, l’artista che impacchettava i ponti di Parigi. Questo genere di colossali bianchi gendarmi s’erge un po’ ovunque a Milano ‒ per esempio a fianco dell’Arco della Pace, al termine di Parco Sempione ‒ a proclamare l’inefficienza di Expo, il cui ultimo appalto, di due milioni di euro, è stato bandito un mese fa per trovare un’impresa specializzata nella mimetizzazione dei cantieri in corso. Consapevoli che le opere incompiute non si possono togliere di mezzo, Expo si preoccupa di camuffarle.
L’altra notte ignoti nottambuli hanno imbrattato le pareti della Darsena, dai muri perimetrali al mercato comunale. L’indomani era bell’e tutto ripulito: in un mare d’inefficienza, fa piacere riscontrare eccezioni.
Un quarto d’ora prima della partenza, flussi di Noexpo, provenienti da ogni direzione, soprattutto dal metrò di Porta Genova, addensano Porta Ticinese e il primo tratto del Corso omonimo, dove s’inoltrerà il corteo. È un’umanità varia, per abbigliamento e bandiere e vessilli e striscioni e cartelli e pecette esibite. Spicca però, nel multicolore formicolio preparatorio del corteo, una chiazza tutta nera, cromaticamente e vestimentarmente omogenea. Impossibile non notarne la disomogeneità col contesto. Impossibile non accostare la chiazza odierna alle chiazze similari che hanno demeritato in molte, precedenti manifestazioni: i Black Bloc, le bande spaccatutto che ammorbano ogni mobiliazione antagonista. Da settimane, cioè da quando è stata annunciata questa manifestazione avversa all’Expo, la stampa ha evocato l’incubo dei masnadieri in nero che bruciano macchine e cassonetti, che devastano vetrine, che lordano di vernice ogni cosa. Le forze dell’ordine hanno promesso occhiuta vigilanza. prevenire è preferibile al reprimere. Scongiurare un danno costa assai meno che ripararlo.
Dunque è ragionevole supporre che gli osservatori della pubblica sicurezza stiano guatando questa manifestazione, anche nella sua fase preparatoria; che anche a loro non sia sfuggita, come non è sfuggito a ogni altro buon osservatore, l’anomalia di questa macchia nera. O la sua normale corrispondenza con i Black Bloc.
Osserviamoli. Sono ragazzi e ragazze giovani, rari gli ultratrentenni. Il loro tratto saliente è lo zaino: molto capiente, gonfio e nero. Sono in gran parte robusti, alcuni molto atletici. Con vistose eccezioni: come questa ragazza minuta, «sembra una bimba, non arriverà ai 30 chili» chiosa un anziano con ammicco malsano.
È evidente che la macchia nera fa parrocchia a parte. Non lega con gli altri gruppi, che anzi sembra disdegnare. Una cauta ispezione ravvicinata consente persino a un cronista ‒ e dunque consentirebbe all’occhiuta vigilanza di un gendarme in borghese, se ci fosse ‒ di rilevare quanto segue: da alcuni zaini fuoriescono bastoni o mazze; da altri occhieggiano caschi da motociclista; tutti calzano scarpe da ginnastica nuove e di primo prezzo; i cinturoni di molti sono gravidi di sacche e contenitori vari; da uno zaino che si rovescia escono limoni; nelle conversazioni di questi personaggi si colgono frasi in tedesco e in inglese. Dopo aver passato in rassegna tutti gli altri gruppi del corteo, viene ovvio concludere che, se i Black Bloc sono qui, non possono che coincidere con la macchia nera.
Il corteo s’inoltra, con i rumori, lo stile e la colonna sonora di una sfilata di carnevale. Parole d’ordine: suonare, ascoltare musica, ballare, esibire ogni creatività in chiave anticapitalista, antiexpo, antinquinamento, antisfruttamento, anticorruzione… insomma è ammesso ogni anti- possibile. Sfilano bande musicali che, al repertorio rivoluzionario, alternano ballate apolitiche; sfila un Tir con cassone semivuoto, dove un pugno di persone presidia due altoparlanti a forma di jet; sfila un furgone di una società di autonoleggio con i portelloni spalancati a esibire barili di birra con impianto di spinatura; sfilano ragazze in viola lesbico che innalzano vagine in polistirolo dipinto, grandi come assi del water; sfila un babbo ciclista con una figlia sul sellino anteriore, una su quella posteriore e un cagnolino nel carrello al traino; sfila un settantenne, venuto apposta da San Giovanni in Persiceto (Bologna), inalberante un cartello con i volti tratteggiati dei «cinque martiri di Boston, bravi compagni impiccati dai padroni»; sfila un gruppo di anarchici con coccarde e bandiere venuti in pullman da Torino, sfilano altri camion con altoparlanti; sfilano carrelli e carriolini pedalati carichi di birra («cinque euro una lattina»); sfila un venditore di hot-dog, l’impianto spinto da una bicicletta elettrica. E sfila la chiazza nera. È a metà del corteo. Seguiamola, come forse fanno anche i gendarmi in borghese.
In Via De Amicis, all’altezza in cui la concessionaria Bmw fronteggia un ristorante («i bagni sono impraticabili» espone all’ingresso, provvido guasto a fianco d’una processione dove si suda e si beve molto e dunque dai bisogni mintori prevedibili). La macchia nera si ferma, ne escono fanciulle piacenti, una in minigonna, che prendono a ballare sul marciapiede, attirando molti sguardi tra gli spettatori a bordo sfilata; qualcuno della macchia accende fumogeni, le cui nubi colorate tolgono visuale. Scoppiano mortaretti, sincopati da colpi secchi. Quando il fumo si dirada, ecco le vetrate della concessionaria qui lordate a spray, là segnate da colpi contundenti.
È questa tecnica che la chiazza nera userà nel seguito del corteo: distrarre l’attenzione degli osservatori con diversivi, fare fumo di copertura e poi lordare, sfasciare, rompere, abbattere vetrine, svellere cestini portarifiuti e sbatterli in strada, lanciare bottiglie e pietrame, incendiare auto.
In piazza Resistenza Partigiana altri fumogeni e altri diversivi a coprire il lancio di bottiglie e pietre verso i blindati della polizia che presidiano l’accesso a via Torino. I blindati rispondono cacciando i tiratori con pochi getti d’idrante e gl’incidenti sembrano chiusi lì.
In largo D’Ancona (in prossimità del bar Magenta, locale storico) la macchia nera si palesa per quel che ogni normale osservatore di buon senso da tempo ha supposto che sia: Black Bloc. Devastatori, infiltrati violenti in una manifestazione ovunque altrove pacifista, quantomeno nelle azioni. Lungo tutta la sfilata echeggiano slogan barricadieri e insulti ai «ladri e speculatori di Expo», gli altoparlanti di un camion diffondono inni all’occupazione abusiva di case ed esortazioni rivoluzionarie, ma si resta sempre nell’ambito dell’eversione verbale, che appunto, mai passando dagli auspici ai fatti, rientra nella libertà estrema di esternazione, la quale non è reato.
Con i Black Bloc i fatti ‒ di distruzione, saccheggio e periglio per l’incolumità dei cittadini, soprattutto di poliziotti, carabinieri e forestali su cui piove di tutto ‒ sostituiscono le parole.
Ora non può sussistere dubbio alcuno: questi qua sono un pericolo pubblico, devastatori in fragranza di reato. Se qui, tra noi osservatori e tra i manifestanti pacifici, ci fosse un tutore dell’ordine pubblico avrebbe l’obbligo morale e professionale d’impedire ai Black Bloc altre devastazioni, altre minacce alla pubblica incolumità. Purtroppo qui, a osservare le devastazioni dei Black Bloc ci siamo soltanto noi borghesi, esitanti ad affrontare a mani nude e senza protezione alcuna ‒ e senza autorità alcuna ‒ questi energumeni anonimi e minacciosi, coperti di tessuto nero sino agli occhi, celati da occhiali scuri, il capo incappucciato. Molti indossano caschi, molti brandiscono quelle che ora si rivelano mazze appuntite. Abbattono vetrine, incendiano auto, rompono tutto che hanno a tiro, lanciano proietti vari, lordano muri e le vetrine non mazziate. I gendarmi, ordinati e compatti nelle loro formazioni che sbarrano la strada, lanciano candelotti. Ma i Black Bloc hanno maschere antigas. Si spremono mezzi limoni sul volto, a lenire il bruciore agli occhi, del resto protetti da occhialetti da piscina.
L’ondata dei saccheggiatori devasta i pressi di Santa Maria delle Grazie fin verso Cadorna, Conciliazione e Pagano. Insomma agiscono per ore, con ogni evidenza scarsamente contrastati.
Una donna e una ragazza s’affacciano a una finestra del terzo piano, quasi a perpendicolo su un’auto in fiamme. Urla la donna: «Ma perché mi avete bruciato la macchina, disgraziati? Sapete che l’assicurazione non risarcisce i danni provocati da atti vandalici? E di sicuro la macchina non me la risarcisce Expo! »
Dalla strada si levano insulti d’intensità crescente sino all’ultimo, che spinge donna e ragazze e richiudersi dietro la finestra.
Dopo oltre un’ora le forze dell’ordine riescono, in via Monti, a collocarsi davanti e alle spalle dei Black Bloc. I quali, obbedendo simultaneamente a un comando e protetti da coltre fumogena, si spogliano di caschi, cappucci, occhiali scuri, maschere antigas, tuta nera, scarpe e guanti. Insieme a ogni capo di abbigliamento, lasciano sulla strada mazze, fumogeni residui e ogni altro strumento di saccheggio. Cavano dallo zaino altre scarpe, maglie colorate, rivoltano lo zaino (dall’interno colorato) e si sparpagliano, diretti alle fermate del metrò.
Nei pressi del metrò Pagano due poliziotti tengono per le braccia una donna e la sospingono verso una camionetta.
Un gruppo di Noexpo accerchia i tre. Chiedono il rilascio della ragazza. Insultano i poliziotti. Replica un poliziotto: «Non avete visto? Hanno devastato mezza Milano. È nostro dovere verificare i sospetti».
Controreplica di una donna matura: «Non può aver devastato nulla una ragazza che peserà sì e no 30 chili!»
Scena analoga si replica in via Monti, dove una piccola folla cerca di opporsi a un altro arresto (o fermo).
Bilancio della giornata
Feriti tra le forze dell’ordine: sette carabinieri con lesioni da poco; quattro poliziotti contusi.
Arresti in flagranza: due donne di 33 e 42 anni; tre uomini di 32, 33 e 27 anni. Fermati: due italiani e un francese.
Danni materiali: 22 auto danneggiate, di cui 10 incendiate.
Lacrimogeni sparati dalle forze dell’ordine: 400.
Quanti hanno partecipato alla sfilata dei Noexpo? 20 mila, secondo le forze dell’ordine; 30 mila secondo fonti del quotidiano francese Le Monde; 40 mila, secondo altre e reputate stime.
Quanti erano i Black Bloc? Qualche centinaio, secondo cifre fornite senza fonte dai quotidiani.
Un evento è la sua proiezione sui media. Da domani l’immagine di Expo 2015, per quanto grigia d’inefficienza e chiazzata di sperperi e corruttele, acquisterà brillantezza a cospetto delle nefandezze di pochissimi violenti, associati alla moltitudine di quanti criticano pacificamente la fiera.
Il fumo dei candelotti e dei fumogeni ammanta d’una coltre assolutoria quanti hanno male realizzato un’Expo costata 1,2 miliardi di soldi pubblici.
Un miracolo per lorsignori. Ci contavano.
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CONTRO L’ASSALTO DEI POPULISTI ALLA MAGISTRATURA
Che la resistenza al neofascismo evolva in offensiva per affermare la giustizia sociale
di Scot e Rac
È auspicio condiviso dai sodalizi di cittadini che si vanno aggrumando nel Nordovest. Sempre più numerosi, s’oppongono alla barbarie ideologica e gestionale che tutt’i partiti rappresentati nel parlamento nazionale e nelle assemblee regionali hanno instaurato. I nuovi barbari saccheggiano incontrastati le risorse dello Stato, ne abbattono la divisione dei Poteri, picconando una Costituzione peraltro misera, che lungi dal fare baluardo alle grandi violenze di regime, a cominciare dalla sanità pubblica sempre più negata, si è rattrappita a mera speranza nel suo potenziale garantista. Quando in 77 anni di vigenza non ha mai garantito uno solo dei diritti fondamentali del cittadino: né lavoro dignitoso, né alloggi decenti, né sanità pubblica adeguata, né equa e proporzionata contribuzione di tutti al funzionamento dello Stato. Eppure ai parlamenti odierni, nazionale come regionali, persino una Costituzione tanto poverella sta stretta. Soprattutto là ove, imponendo a magistrati indipendenti di perseguire anche le ruberie e gli altri delitti commessi dalla classe dirigente, la intralcia nel suo malaffare. Di qui la crociata mediatica contro i magistrati, comandata a pennivendoli inquadrati come al tempo del Duce, che non a caso li incatenò all’Ordine dei Giornalisti, facendone una casta di proni che da allora non ha più rialzato la testa.
Contro questa offensiva fascistoide, le anime candide propongono una fantomatica resistenza, falsamente evocativa di quella che, stimolata e mantenuta e diretta dagli Alleati, illuse gl’italiani, quasi tutti in camicia nera almeno sino all’8 settembre 1943, di essere protagonisti di primo piano della liberazione del proprio Paese. La resistenza contro il neofascismo propugnata oggi replica il simbolismo e l’inconsistenza sostanziale di quella di ottant’anni fa. Per questo viene respinta dalle nuove aggregazioni partigiane (legali, pacifiche e democratiche, ovvio) del Nordovest. Che alla resistenza simbolica, fitta di processioni, appelli, proclami ed esibizioni televisive oppongono una controffensiva, solida di controinformazione efficace e vivaio di contropoteri capaci davvero di placcare con ogni mezzo necessario (sempre lecitissimo e di buone maniere, ribadiamo) le mire di politicanti per nostra fortuna pessimi e plebiscitati da elettorato ahinoi non migliore di loro.
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DA LE MONDE DEL 12 APRILE 2025
Pierre Rosanvallon: «Al pari dei parlamentari, anche i giudici incarnano la sovranità del popolo»
Contrariamente a quanto afferma Marine Le Pen, la legittimità dei magistrati è forte quanto quella dei responsabili politici. La prima si fonda sull’adesione ai valori condivisi sanciti nel diritto. La seconda sull’attuazione di una procedura maggioritaria: le elezioni.
Intervista di Anne Chemin
traduzione di Rachele Marmetti
All’indomani della condanna di Marine Le Pen a cinque anni di ineleggibilità con esecuzione immediata per la vicenda degli assistenti parlamentari del Front National (FN) al parlamento europeo, il Rassemblement National si è scagliato contro la «tirannia» dei giudici. «Il Paese sta vacillando sui suoi principi, sui suoi valori. Tutti coloro che parlano solo di Stato di diritto sono generalmente i primi a tentare di violarlo» ha affermato il 1° aprile la leader del partito di estrema destra.
I magistrati si sono «abusivamente intromessi nel modo in cui gli eletti esercitano il loro mandato» come sostiene Marine Le Pen? La pena d’ineleggibilità immediatamente esecutiva è di per sé «uno scandalo democratico»? Come definire, in una democrazia, i rispettivi confini di legittimità degli eletti e dei magistrati?
Professore emerito al Collège de France, lo storico e sociologo Pierre Rosanvallon da molti anni studia la storia intellettuale della democrazia francese, alla quale ha dedicato una trilogia pubblicata da Gallimard: Le Sacre du citoynen. Histoire du suffrafe universel en France (1992) (La rivoluzione dell’uguaglianza. Storia del suffragio universale in Francia, Anabasi 1994); Le peuple introuvable. Histoire de la représentation démocratique en France (1998) (Il popolo introvabile. Storia della rappresentanza democratica in Francia, Il Mulino 2005); La Démocratie inachevée. Historire de la souveraineté du peuple en France (2000) (La democrazia incompiuta. Storia della sovranità popolare in Francia, non tradotto).
Il fondatore del circolo di riflessione La République des idées e della rivista digitale La Vie del idées ha pubblicato, dal 2006 al 2011, una seconda trilogia, dedicata, questa volta, ai mutamenti della democrazia contemporanea, poi, nel 2020, un’opera su storia, teoria e critica del populismo: Le siècle dupopulisme (Seuil) (Il secolo del populismo, non tradotto). Il suo ultimo libro, Les Institutions invisibles (Seuil, 2024) (Le istituzioni invisibili, non tradotto), analizza le tre «istituzioni invisibili» che sono l’autorità, la fiducia e la legittimità.
Anne Chemin:
Cosa ne pensa del dibattito sulla sentenza del tribunale di Parigi sul caso degli assistenti parlamentari del Front Nazional al parlamento europeo?
Pierre Rosanvallon:
La prima cosa che mi colpisce è la rapidità con cui la gravità dei fatti (milioni di euro di appropriazione indebita di fondi pubblici a danno del parlamento europeo) e la severità della sentenza (argomentata in 150 pagine di motivazioni dettagliate e rigorose) sono state eclissate dalla denuncia di quella che Jordan Bardella [il presidente del RN] chiama un’«esecuzione politica».
Il dibattito sulle conseguenze della sentenza ha sostituito l’analisi delle motivazioni. Questo spostamento ha una spiegazione “tattica” – si è trattato di un’operazione diversiva –, ma si pasce di una visione della democrazia che va discussa nel merito. In questa occasione, Marine Le Pen ha coniato un concetto, lo «Stato di democrazia», che contrappone al concetto di Stato di diritto: è una formula che merita la nostra attenzione.
La seconda cosa che mi colpisce è la difficoltà che sembrano incontrare molti difensori dell’indipendenza della giustizia nel formulare quei concetti che permetterebbero d’interpretare correttamente questa vicenda. Costoro affermano giustamente che lo Stato di diritto è un bene «liberale» fondamentale, ma non si preoccupano di spiegare perché esso sia al centro dell’ideale democratico. Poiché non comprendono appieno la loro stessa indignazione e preoccupazione, la loro contestazione delle tesi populiste si rivela essenzialmente negativa: dunque è poco probabile che possa invertire il corso degli eventi.
L’RN oppone in continuazione ai giudici la legittimità democratica degli eletti, come se i responsabili politici fossero gli unici a incarnare il principio della sovranità del popolo. Cosa risponde?
Il problema di fondo è effettivamente l’analisi delle rispettive legittimità del giudice e dell’eletto. Esiste ovviamente una differenza di ordine procedurale: le persone che occupano cariche politiche sono scelte al termine di un processo elettorale competitivo, mentre i giudici sono oggetto di una nomina: la legittimità degli eletti può essere quindi definita sostanziale, quella dei giudici funzionale. Alcuni ne traggono la conclusione che la prima deve prevalere sulla seconda: a loro avviso, in caso di conflitto tra politica e diritto, è il popolo, quindi l’eletto, che deve avere l’ultima parola.
Per difendere la legittimità dei giudici, la maggior parte dei difensori dello Stato di diritto invoca i principi del liberalismo politico: il giudice, dicono, è il garante dei diritti dell’individuo. Questo è evidentemente vero, ma a mio avviso occorre andare oltre: certamente il giudice non è eletto, egli difende, è vero, i diritti dei cittadini, ma assicura anche, e questo per me è fondamentale, una funzione strutturalmente democratica. Per capirlo occorre tornare alla definizione del principio generatore delle democrazie: la sovranità del popolo.
In una democrazia il popolo è il supremo sovrano, ma in origine questo concetto si basava sul principio dell’unanimità: si pensava che il suffragio universale avrebbe un giorno permesso di esprimere la comunione e l’unità del popolo. Poiché queste speranze sono andate deluse, è stato necessario trovare un sostituto all’unanimità: la regola della maggioranza. Il principio aritmetico su cui si basa ha il vantaggio della semplicità: è difficile mettersi d’accordo sulle qualità morali o sulle capacità di un candidato, ma è molto facile essere d’accordo che 51 è superiore a 49. Nel corso della Storia la sovranità del popolo si è ridotta a una procedura elettorale fondata sul principio di maggioranza.
Quali problemi vede in questo concetto di sovranità popolare?
Questa regola ha costruito nelle urne il “popolo aritmetico”, ma ha anche reso evidenti i propri limiti. Una società non è composta semplicemente di elettori (non solo perché ci sono gli astensionisti), né è pienamente espressa da una maggioranza. È quindi emerso un secondo modo di concepire la sovranità del popolo e la volontà generale. Fondato sulla nozione di “popolo-comunità”, questo concetto ritiene che una comunità politica si definisca anche attraverso i valori e i principi che la organizzano.
In Francia questo mondo comune si esprime nel motto repubblicano «Liberté, égalité, fraternité», ma anche in un sistema giuridico basato sul riconoscimento dell’unicità degli individui, sul riconoscimento dei loro diritti e sull’affermazione della loro dignità. Lo strumento di questa sovranità del “popolo-comunità” è la giustizia: è la giustizia che assicura il rispetto dei nostri principi collettivi. Quando si dice che i magistrati dispensano la giustizia in nome del popolo francese, non è semplicemente perché lo rappresentano, ma perché sono i custodi della sovranità popolare definita dai valori fondanti del contratto sociale. I giudici incarnano, esattamente come i rappresentanti eletti, il principio democratico della sovranità del popolo.
La legittimità del diritto risiede nel fatto che è una sorta di memoria della volontà generale: rappresenta il periodo lungo del contratto sociale, mentre i ritmi elettorali rappresentano il periodo breve delle democrazie.
Lei afferma che nella sentenza contro Marine Le Pen, come in ogni altra sentenza della magistratura, il giudice trae la propria legittimità dal principio della sovranità del “popolo-comunità”. Questa legittimità ha pari valore di quella dei rappresentanti eletti?
Sì, certo. Gli eletti rappresentano il “popolo aritmetico”, i magistrati il “popolo-comunità”. È su questa definizione più ampia di sovranità che poggia la democrazia, perché il popolo è un sovrano al tempo stesso ineludibile e inafferrabile: non può essere confinato in un’unica e definitiva formulazione. Nell’elezione c’è sì un principio da cui non si può prescindere, ma nell’esercizio del diritto è all’opera una funzione costitutiva.
Invocando avventatamente “il” popolo, i difensori di Marine Le Pen seguono le orme dei populisti: esaltano la figura di un “popolo-uno” oppresso dalle élite del quale pretendono essere gli autentici rappresentanti. Uno dei grandi pensatori del populismo sudamericano degli anni Trenta e Quaranta, il colombiano Jorge Eliecer Gaitan, si definiva infatti un «uomo-popolo», mentre Hugo Chavez [1954-2013], che fu presidente del Venezuela, diceva di «non essere più l’individuo» Chavez, perché come presidente era diventato «la personificazione stessa del popolo». In una democrazia, invece, nessuno potrà mai proclamare “Il popolo sono io”.
Come risponde a quanti considerano la decisione del tribunale di Parigi una «sentenza politica»?
È una sentenza che ha certamente ripercussioni politiche, ma non è stata presa per ragioni politiche, come dimostrano tre elementi essenziali su cui i difensori di Marine Le Pen sorvolano. Il primo è che la sentenza è stata emessa dopo un’istruttoria e un processo durante i quali gli avvocati dell’RN hanno potuto esporre le loro argomentazioni a favore dell’assoluzione; il secondo è che la sentenza non è stata emessa da un unico giudice, ma da una corte composta da tre giudici; in terzo luogo la sentenza espone con estrema chiarezza il meccanismo di appropriazione indebita di fondi pubblici, ma anche le ragioni che hanno portato i giudici a comminare una pena detentiva di quattro anni, di cui due sospesi, e una pena di ineleggibilità di cinque anni, immediatamente esecutiva.
Secondo lei, a quale concetto di democrazia si riferisce l’espressione «governo dei giudici», utilizzata dai parlamentari dell’RN dopo la condanna di Marine Le Pen?
Questa espressione proviene da un libro pubblicato nel 1921 da un docente di diritto, Édouard Lambert, intitolato Le Gouvernement des juges et la lutte contre la législation sociale aux États-Unis [Il governo dei giudici e la lotta contro la legislazione sociale negli Stati Uniti], che non criticava il potere dei giudici in sé: denunciava il sistema americano di controllo della costituzionalità delle leggi in quanto lesivo dei diritti del parlamento. L’espressione è stata successivamente utilizzata come slogan da tutti coloro che ritenevano che l’unico arbitro legittimo del comportamento dei politici fosse l’elettorato.
Oggi è il punto di vista di Marine Le Pen, ma anche di Jean-Luc Mélenchon, che ha dichiarato che «la decisione di destituire un eletto dovrebbe spettare al popolo». Il leader di La France Insoumise (LFI), si riferisce senza dubbio alla procedura americana del recall [revoca]: in alcuni Stati, se uno sceriffo, un procuratore o un governatore si è comportato male o non ha mantenuto le promesse, gli elettori scontenti possono presentare una petizione per chiederne la revoca. Tuttavia, questa procedura non esclude le azioni legali: se un funzionario eletto si è appropriato di fondi pubblici, i giudici devono ovviamente occuparsi del caso.
Il primo ministro François Bayrou si è detto «turbato» dalla condanna di Marine Le Pen e alcuni deputati chiedono una legge che vieti ai giudici di pronunciare sentenze di ineleggibilità immediatamente esecutive per i rappresentanti eletti. La vede come una rivendicazione di una forma di privilegio?
I rappresentanti eletti devono naturalmente essere protetti dalle intimidazioni e dagli attacchi diretti alla loro libertà di azione e di espressione, perché esercitano una funzione pubblica, ma questo non li pone al di sopra della legge come individui. In una democrazia i politici non devono essere intoccabili.
Pensa che questo discredito dei giudici e della legge sia un punto che hanno in comune Marine Le Pen e Donald Trump?
Sì, con ogni evidenza. Tra le tante persone che Donald Trump copre di sarcasmo e minacce, i giudici sono al primo posto. Ogni magistrato implicato nei numerosi procedimenti giudiziari intentati contro di lui viene accusato di essere corrotto. La denigrazione della giustizia indipendente è al centro della visione politica del presidente americano, come in quella di Vladimir Putin in Russia o di Viktor Orban in Ungheria. Questi regimi ovviamente non si trovano nella stessa fase di decostruzione democratica, ma condividono lo stesso spirito.
La Francia non è risparmiata da questa ondata dilagante, silenziosa e sommersa che poco a poco sta riducendo il campo della democrazia in tutto il mondo. Le polemiche sulla condanna di Marine Le Pen, in ultima analisi non sono che la manifestazione in Francia di questa crescente diffidenza verso il diritto. La troviamo, in misura diversa, nel Rassemblement National e nella France Insoumise, ma anche in figure politiche che si pensava fossero immuni da questa tentazione, come il primo ministro François Bayrou.
Come spiega l’emergere di movimenti populisti che hanno preso il potere negli Stati Uniti, in Argentina e anche in alcuni Paesi europei?
Il primo fattore è di ordine intellettuale: a mio avviso, risiede in un’inadeguata comprensione del principio della sovranità del popolo. Questo deriva probabilmente dall’ignoranza della lunga storia della democrazia, fatta di tentativi ed errori, di esperimenti sfortunati o non riusciti, che non dobbiamo dimenticare se vogliamo essere buoni democratici! Penso, ad esempio, al dibattito sulla questione della legittimità democratica dei giudici, che durante il periodo rivoluzionario si credette di poter risolvere eleggendoli. L’idea fu ripresa nel XIX secolo dai repubblicani. Faremmo bene a ricordare questa lezione della storia quando discutiamo, come facciamo oggi, della legittimità del potere giudiziario.
Il secondo fattore è la sorprendente abilità dei padroni di queste democrazie atrofizzate di farsi portavoce di un mondo sociale svantaggiato e disprezzato. Il vicepresidente americano J.D. Vance, autore di Hillbilly Elegy, 2017 [Elegia dei cafoni, pubblicato in Italia con il titolo di Elegia americana] ha presentato se stesso, in compagnia di una cricca di miliardari, come il rappresentante politico dei dimenticati. Questo discorso è tassello di una spudorata impresa demagogica, ma tutti i democratici dovrebbero esserne pungolati, in particolare i partiti di sinistra, che sono stati a lungo i portavoce delle classi lavoratrici. Il successo dei populisti deriva infatti da un sentimento d’abbandono di cui essi sono in buona parte responsabili.
Come si combattono questi movimenti politici che oggi hanno il vento in poppa?
Demonizzare il populismo non porta ad alcun risultato. Non si può combattere un pericolo se non si ha qualcosa di più attraente da offrire: i democratici devono quindi condurre una battaglia su tre fronti.
La prima e decisiva battaglia va combattuta sul piano intellettuale. Bisogna sottolineare incessantemente l’inconsistenza democratica dei movimenti populisti che salvaguardano i processi elettorali ma squalificano i giudici, il diritto e le autorità indipendenti. Questi regimi esaltano la sovranità del “popolo aritmetico” ma cancellano la sovranità del “popolo-comunità. Il [rivoluzionario] Camille Desmoulins [1760-1794] diceva che l’essenza della democrazia consiste nel mettere le giuste parole sulle idee e sulle cose: dobbiamo quindi instaurare una vigilanza sul linguaggio e perseguire indefettibilmente i ladri di parole e i trafficanti di idee.
La seconda battaglia è quella della vicinanza sociale a tutti coloro che vivono ma sono invisibili. La rappresentanza non si concretizza semplicemente nelle elezioni: è attenzione alle esistenze concrete delle persone. Questo imperativo di portare il vissuto della società nel dibattito pubblico ha una dimensione che potremmo definire “narrativa”. Si concretizza attraverso reportage giornalistici, inchieste sociologiche, romanzi, film, spettacoli che si ispirano alla vita reale, o iniziative individuali, come l’impegno di François Ruffin [deputato ex-La France Insoumise per la Somme] per far conoscere meglio la vita quotidiana delle donne delle pulizie.
Questo modo di raccontare il mondo sociale può provenire anche da protatonisti sociali come i sindacati o le associazioni. Quando Cimade, organizzazione che da anni aiuta i migranti, parla pubblicamente della vita delle persone che accoglie e consiglia, svolge un ruolo di rappresentazione. Purtroppo, questa attenzione alla società reale non è al centro dei discorsi e delle pratiche dei partiti politici e dei rappresentanti eletti. Questo è ovviamente un immenso problema di democrazia.
Infine la terza battaglia è politica. La vitalità elettorale non è sufficiente a garantire la vitalità democratica, tanto più che è in costante declino: dagli anni Ottanta, con l’aumento dell’astensionismo e la frammentazione del campo politico, il processo di legittimazione attraverso le urne si è molto indebolito. Occorre quindi andare oltre le votazioni che permettono di scegliere chi governa, reinventare processi democratici che siano ampiamente diffusi nel corpo sociale e che coinvolgano i cittadini sugli aspetti il più possibile vicini alla loro vita quotidiana.
Nel 2018-2019 i Gilet Gialli proposero di introdurre un referendum di iniziativa popolare. Cosa pensa di questa modalità di consultazione?
I referendum di iniziativa popolare sono ovviamente utili dal punto di vista democratico, ma possono portare a delusioni se diventano l’alfa e omega di ogni progresso democratico. Perché siano significativi, i termini del quesito devono contenere le condizioni normative per l’applicazione: un referendum permette di votare a favore o contro l’aborto, a favore o contro il matrimonio omosessuale, ma non permette di decidere su questioni complesse come le pensioni o l’immigrazione. Come possiamo legiferare, per esempio, a partire da un referendum sul “controllo dell’immigrazione”?
Per rimediare al deficit democratico, dobbiamo superare l’illusione dello strumento del referendum e far vivere concretamente le grandi “funzionalità” democratiche.
Quali sono le “funzionalità” che secondo lei ci permetterebbero di resistere all’offensiva populista?
La prima è, a mio avviso, la funzione della deliberazione. Occorre che la vita pubblica riconsideri e restituisca la complessità delle mediazioni che le grandi scelte collettive comportano, in modo che gli individui possano assimilarle. L’abbiamo visto nel 2023 con la mobilitazione contro la legge sulle pensioni: il testo avrebbe dovuto tener conto del principio di giustizia tra le generazioni, determinare solidarietà vitali, gerarchizzare l’usura dei diversi lavori e le variabili legate alle condizioni di ingresso nel mercato del lavoro. La gestione di questa complessità avrebbe dovuto essere oggetto di un dibattito pubblico ampio, informato e democratico, mentre è stata ridotta a questioni tecnocratiche, declinate sulla base di indicatori statistici macro-economici, senza una vera consultazione del parlamento.
La seconda funzionalità democratica che dovrebbe essere sviluppata è il controllo: una funzione che nella democrazia greca era importante quanto la funzione esecutiva. Il filosofo politico e morale britannico Jeremy Bentham (1748-1832) diceva che la democrazia non è solo la «voce» intermittente del popolo, ma anche il suo «occhio» sempre aperto. La voce è la scheda elettorale, l’intervento orale o la manifestazione; l’occhio sono le istituzioni che permettono il controllo dell’esercizio del potere: la Corte dei conti o l’Alta Autorità per la Trasparenza nella Vita Pubblica, per esempio.
In origine, queste funzioni di controllo erano svolte dai parlamenti, che inventarono gli strumenti per inquadrare il potere esecutivo. Nel Regno Unito del XIV secolo la procedura parlamentare fondatrice fu l’impeachment (la destituzione) che permetteva di mettere sotto accusa gli agenti del re. Nel XIX secolo le grandi inchieste economiche e sociali del parlamento britannico, molto ammirate dal [tedesco] Karl Marx (1818-1883), associarono indirettamente il Paese alla deliberazione pubblica. Anche le procedure di rendicontazione e l’obbligo per il potere di giustificare le proprie decisioni svolsero un ruolo fondamentale. Nel tempo, tuttavia, queste funzioni scomparirono progressivamente: è perciò urgente reinventarle affinché la società civile possa appropriarsene.
Ritiene che le democrazie di alcuni Paesi abbiano raggiunto un punto di svolta? Pensa che queste oscillazioni antidemocratiche siano reversibili?
Si possono invertire, come dimostra il ritorno della Polonia alla democrazia. Tuttavia, al di là della messa sotto tutela dello Stato di diritto, dobbiamo prestare molta attenzione a due meccanismi-chiave che possono generare forme di irreversibilità.
Il primo è la riorganizzazione dei tempi politici. Tutti i leader populisti tentano di modificare, per via costituzionale, la scadenza delle elezioni presidenziali. È quanto accadde in Venezuela: Hugo Chavez è rimasto al potere per quattordici anni dapprima facendo votare un’estensione del mandato presidenziale, poi la possibilità di una rielezione a tempo indeterminato. È quanto accadde anche in Russia nel 2020: Putin ha fatto passare il principio del mandato presidenziale illimitato, che gli permetterà di rimanere al potere fino al 2036.
Ecco perché dobbiamo stare in guardia quando Donald Trump parla di candidarsi per un terzo mandato, anche se la Costituzione statunitense lo vieta. Quando al tempo politico viene dato un orizzonte smisuratamente lungo, la sfera del diritto si riduce meccanicamente: il potere del tempo è cambiato di mano.
Il secondo meccanismo produttore d’irreversibilità è la trasformazione degli avversari in nemici. Quando le contrapposizioni di progetti diventano battaglie tra amici e nemici del popolo, la democrazia si allontana. E quando chi è al potere pretende di governare le menti, di mettere a tacere gli oppositori e di trasformarli in delinquenti, il regime imbocca la strada di un totalitarismo che può essere senza ritorno. |
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