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COP30, INDICE DI BORSA DEL SACCHEGGIO DEL PIANETA
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STAMPA INTERNAZIONALE
Le Monde, 12 novembre 2025
Belém, città simbolo delle sfide dell’Amazzonia
La città, fondata nel 1616, dove il 60% degli abitanti vive nelle baraccopoli, ospita la COP30 in una zona ultra-protetta. Alle porte della foresta tropicale, incarna i paradossi del Brasile moderno.
di Bruno Meyerfeld
traduzione di Rachele Marmetti
Aggiornate le vostre mappe: la capitale del Brasile è cambiata. È quasi una consuetudine in questo Paese-continente che, dopo Salvador di Bahia (1546-1760), Rio de Janeiro (1763-1960) e Brasilia (la capitale attuale) ora ha trasferito il suo centro politico e amministrativo a Belém, alle porte dell’Amazzonia. Il trasferimento è temporaneo: per due settimane, durante la Conferenza delle Parti sul clima (COP30), dal 10 al 21 novembre.
Da un giorno all’altro, l’arrivo di 60 mila visitatori ha catapultato la città alla ribalta della scena mondiale. L’aeroporto brulica, le imbarcazioni si accalcano nella baia di Guajará. I vecchi moli traboccano di luminarie e festeggiamenti. Ovunque dibattiti, conferenze, mostre… David Fleury, 36 anni, produttore culturale, non riconosce più la sua città: «Belém è in grande fermento!» Questa metropoli di 1,6 milioni di abitanti si è rifatta il look. Le facciate rosa confetto, giallo uovo e verde fluorescente sono state ritinteggiate. Il mercato Ver-o-Peso (Occhio al peso), struttura in ferro con quattro torrette, cuore nevralgico di Belém, è stato completamente ristrutturato: corridoi ripuliti, illuminazione e refrigerazione modernizzate.
Attento alla propria immagine di paladino del clima, il presidente Luiz Ignacio Lula da Silva ha puntato in alto per la “sua” COP. Il trasferimento ufficiale e simbolico della capitale, sancito da una legge del Congresso, è stato accompagnato da un notevole dispiegamento di mezzi. La sede dei negoziati è stata costruita su 500 mila metri quadrati, l’aeroporto modernizzato, un terminal portuale nuovo di zecca. Risanamento, strade asfaltate, corsie preferenziali per gli autobus, parchi… Quasi un miliardo di dollari (866 milioni di euro) è stato investito per trasformare Belém in una splendida vetrina dell’Amazzonia.
«Il Brasile non si riduce al Sud, alla bella Rio o all’industriale San Paolo!» ha dichiarato Lula il 1° ottobre. Il presidente si è fatto promotore delle ricchezze del Pará, Stato grande il doppio della Francia, di cui Belém è capitale. Alla vigilia della COP, Lula ha fatto visita ai piccoli produttori del rio Tapajos, a 800 chilometri a ovest di Belém, e ha partecipato alla raccolta dell’acai e alla preparazione delle frittelle di manioca.
Panama sulla testa, il promotore dell’Amazzonia era nel proprio elemento. L’intento era contribuire a cambiare l’immagine di un agglomerato urbano percepito da molti brasiliani come una periferia lontana ed esotica. Per molti, Belém continua infatti a essere sinonimo di lentezza, disorganizzazione, caldo soffocante e letargia economica. Manaus, sebbene più isolata, appare molto più dinamica: sperduta nella foresta, a 1.600 chilometri di navigazione a monte, vanta una popolazione e un reddito pro-capite doppio, grazie alla zona industriale franca. Da molto tempo Manaus ha scippato a Belém il titolo di capitale dell’Amazzonia.
Secondo Nilson Gabas Junior, «non esiste posto migliore per ospitare una COP!». A capo del Museo Emilio-Goeldi, uno dei più antichi centri di ricerca sull’Amazzonia, con sede a Belém, quest’uomo cordiale si appresta ad accogliere decine di dibattiti, in particolare sugli indigeni, presenti in gran numero all’evento. «La nostra città è avviluppata nella foresta, dice. È il luogo ideale per percepire l’Amazzonia e prendere appieno coscienza delle sfide climatiche».
La prova? Nilson Gabas Junior cita le piogge torrenziali che si abbattono ogni giorno. Ma non può non elogiare la gastronomia a base di pesce d’acqua dolce e frutta tropicale. E soprattutto la musica, con il ritmo del carimbo, tipico del Pará, dove i ballerini riproducono le schermaglie amorose degli uccelli della giungla; ma anche le feste techno, chiamate d’aparelhangens, animate da creature meccaniche giganti – aquile, bufali, giaguari, serpenti o caimani d’acciaio. «Qui la foresta s’insinua ovunque», assicura.
Non potrebbe essere altrimenti. La Betlemme dei Tropici [Belém è il nome portoghese di Betlemme, ndt] è da secoli la porta d’ingresso delle Amazzonie. In origine si chiamava Feliz Lusitania (Lusitania felice): nasce nel 1616, alla confluenza dei fiumi Guamá e Acará, fondata da coloni portoghesi determinati a contrastare le incursioni britanniche e spagnole nella regione dell’estuario del Rio delle Amazzoni. I coloni vi eressero il forte della Crèche, nucleo da cui nacque, al ritmo delle maree, una città di mercanti e missionari in cui si mescolavano europei, schiavi africani e indigeni.
Eppure, «Belém ha voltato le spalle alla foresta per molto tempo» spiega Michel Pinho. Seduto davanti a una crêpe di tapioca, tra due baracche del Ver-o-Peso, questo storico del luogo evoca la febbre del caucciù, durante la Belle Époque. Sfruttando appieno la coltivazione dell’hevea, l’albero della gomma, Belém diventa presto uno degli agglomerati urbani più ricchi del mondo. Tra il 1872 e il 1920 la sua popolazione quadruplica grazie all’afflusso di migranti provenienti dall’Europa, dal Levante e persino dal Giappone. La città, collegata via piroscafo a New York, Le Havre e Liverpool, diventa un dedalo di linee tranviarie e cavi elettrici.
I baroni del caucciù «non abiurano l’Europa» riprende Pinho. Al calar della sera si recano in pompa magna ad ascoltare le arie di Verdi al Teatro della Pace, copia del Teatro alla Scala di Milano. Nei loro palazzi i signori dell’Amazzonia banchettano con formaggi e vini importati. La biancheria sporca viene spedita via nave alle lavanderie di Lisbona. Colmo dell’assurdo: nel cuore della foresta, l’élite fa importare mobili di quercia dall’Europa…
«Ma gradualmente la città ha conquistato una propria identità» sottolinea lo storico. I bagni nel fiume, un tempo disprezzati, ora sono in voga, così come l’acai, bacca di palma che tinge le labbra di viola, diventato un prodotto gourmet. La musica carimbo, emblema della simbiosi tra uomo e natura, vietata per legge nel 1980, dal 2014 è riconosciuta patrimonio culturale immateriale del Brasile. «La COP30 chiude un ciclo» afferma Pinho. «Consacra finalmente Bélem come città amazzonica».
Ma non era affatto scontato. Per mesi il destino della COP è stato incerto. Motivo: il boom immobiliare intorno alla baia di Guajará, che ha fatto schizzare il costo delle camere d’hotel fino a 3.000 euro a notte, mettendo a rischio la partecipazione dei delegati provenienti dai Paesi del sud e dei rappresentanti della società civile. Il colmo, per una metropoli che ogni anno ospita una delle più importanti processioni cattoliche del mondo, il Círio de Nazaré. A fine luglio scoppia la polemica: 25 Paesi suggeriscono al Brasile di spostare in un altro luogo tutta o parte della Conferenza. Fuori discussione, ribatte Lula, che respinge le critiche e suggerisce ai brontoloni di dormire in amaca. «Capiranno il dolore provocato dalla puntura di una carapana [una zanzara amazzonica]!» dice beffardo. Ma dietro le quinte gli organizzatori si spaventano e si danno da fare. Caserme, scuole, transatlantici e love motel vengono riconvertiti d’urgenza per ospitare quasi tutte le delegazioni, con successo.
La COP ha rischiato grosso. Ma resta aperta una domanda: queste migliaia di delegati avranno mai l’occasione di incrociare gli abitanti di Belém? I negoziatori si riuniscono al Parque da Cidade, sede dei colloqui, nella parte nord dell’agglomerato: una zona vietata al pubblico e sorvegliata da circa 20 mila poliziotti e militari. Un alto funzionario brasiliano di una ONG ammette: «Organizzare la COP a Belém è stata una mossa pubblicitaria. I delegati rimarranno nella loro bolla. Si sarebbe potuto farla altrove, in qualsiasi parte del Brasile, non sarebbe cambiato nulla».
Ma è stata scelta proprio BellHell [gioco di parole con hell, inferno in inglese]», come soprannomina Belém lo scrittore locale Edyr Augusto, con le sue 214 favelas dove vivono sei abitanti su dieci. Crocevia del traffico di cocaina, l’antica Parigi dei Tropici ha perso la sua alterigia: gli antichi palazzi cadono a pezzi, erosi dall’umidità, invasi dalla vegetazione e occupati dai senzatetto.
Nei sobborghi, come Marituba, il tasso di omicidi raggiunge, a seconda degli anni, il doppio o il triplo della media nazionale. La COP non ha alleviato le sofferenze di questa città. A Vila da Barca, una favela su palafitte di 5.000 abitanti, costruita proprio sulla baia di Guajará, vive la pedagoga Inez Medeiros. Con passo deciso questa insegnante di 38 anni risale i passaggi in legno, sospesi sopra il fango, fino a un cantiere circondato da palizzate. «Per abbellire i moli, il governo ha deciso di scaricare tutte le acque reflue qui, proprio sotto le nostre case!», denuncia Medeiros, lo sguardo rivolto ai lussuosi edifici del vicino quartiere di Umarizal, dove gli appartamenti vengono venduti anche a tre milioni di euro.
Nello Stato del Pará una manciata di famiglie controlla i media, l’economia e la vita pubblica. Tra queste, il clan dei Barbalho. L’erede, Helder, 46 anni, sorriso smagliante e vestito su misura, altri non è che l’attuale governatore dello Stato. «La COP ha aggravato un’antica dinamica persecutoria dei più poveri» deplora Medeiros, che evoca il ricordo della Cabanagem (1835-1840), la rivolta di meticci, neri e indigeni contro l’élite bianca. All’epoca la repressione causò 40 mila morti, ovvero un terzo della popolazione dell’Amazzonia brasiliana recensita all’epoca.
La COP ha anche contribuito alla distruzione della natura che sostiene di proteggere. Per rendere più fluido il traffico, il governatore ha fatto costruire una strada di 13 chilometri, radendo al suolo una porzione di giungla a est della metropoli. «Il cantiere è stato ovviamente accelerato per la COP» denuncia Isadora Canela, 31 anni, originaria di Minas Gerais (sud-est), che si trova a Belém per una mostra. I giganti del petrolio e dei minerali hanno finanziato costose campagne promozionali, disseminate un po’ ovunque nei quartieri, per decantare le loro azioni a favore del clima. «Greenwashing!» denuncia Canela.
Il fermento sconvolge anche Combú, una delle 39 isole dell’arcipelago di Belém. I visitatori affollano le bettole che hanno invaso la fragile mangrovia. L’inquinamento, il rumore e il viavai incessante delle imbarcazioni, decuplicato dalla COP, «hanno fatto fuggire i delfini e i lamantini, ma anche i gamberetti e gli uccelli» si rammarica Rosivaldo de Oliveira Quaresmo, 49 anni. Questo ex pescatore cabloco (meticcio, da un genitore bianco e uno amerindo) ha visto sorgere un’enorme antenna di comunicazione nel giardino della sua capanna. «Le autorità volevano migliorare la connessione internet per la conferenza» dice.
Tanti danni all’ambiente ci richiamano alla mente la realtà: la “capitale del clima” è innanzitutto la capitale del saccheggio della natura. In quattro decenni, nello Stato di Pará sono stati rasi al suolo 185 mila chilometri quadrati di foresta amazzonica, una superfice equivalente a metà Germania. Il centro urbano non è sfuggito a questa logica di distruzione. «Belém è una delle grandi città con meno verde del Brasile» ricorda Nilson Gabas Junior, del Museo Goeldi. Oltre la metà degli abitanti vivono in strade prive di alberi.
Già dall’aeroporto internazionale il doppio volto della metropoli balza agli occhi. Una pubblicità di una mietitrebbia affianca un appello a proteggere la foresta, illustrato dall’immagine di un indigeno in piroga nel cuore della giungla. Handicap o risorsa? «L’essenza di Belém è la contraddizione. Qui tutti gli opposti riescono a dialogare» vuole credere lo storico Michel Pinho. Chissà, forse questo potrebbe renderla il luogo della riconciliazione di un mondo lacerato di fronte all’emergenza climatica.
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11 novembre 2025
SE DIVENTA POSSIBILE CORREGGERE GLI ERRORI DI DIO / 2
Credenti da brivido
di Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
A integrazione dell’articolo Genio e riservatezza pubblicato ieri:
Quando la scienza conquista una porzione di cervello che i credenti ritenevano presidio inespugnabile del mistero divino, questi sono scossi da fremito di terrore. Motivo: il popolo equipara il sacro a un orticello suo proprio, dove coltivare e accudire ogni credenza e illusione che gli pare. È uno spazio bandito alla razionalità e a ogni sapere autentico. È una sorta di catacomba che ciascuno personalizza e nel quale si rifugia per coccolarsi al tepore di speranze miracolistiche, superstizioni e dogmi, riempitivi di esistenza altrimenti arida e antidoti a eventuali tentazioni alla riflessione autonoma. «Vade retro, untori dell’apostasia del familismo, predicatori di un agire che persegua il bene comune.» Prospettive orrorifiche, da esorcizzare respingendo tutto che le alimenti, a cominciare da quel progresso scientifico ed etico che pretenda scalzare nuclei riproduttivi degenerati a microcellule di mutuo soccorso e involventi verso lo Stato-famiglia.
Il popolobasso non vuole il riscatto delle aree depresse cerebrali, tali perché precluse alla bonifica del razionalismo. Vuole tenersele così come sono, vivaio di conforti sovrannaturali; sacrari dove continuare ad adorare non-verità personali (familiari), dove aggrapparsi a incertezze su misura. Se scienza e filosofia minacciano di smascherare gl’inganni delle cripte-rifugio, allora scienza e filosofia sono il nemico da abbattere. È una crociata che comincia molto a monte delle persecuzioni mirate contro questa o quella conquista scientifica o filosofica (Galileo, teologi della liberazione, Watson...): germina e si radica nella quotidianità della generale indifferenza, se non nell’insulto, alla logica, all’autonomia critica, alla conoscenza, insomma alla cittadinanza coerente, intesa come antagonista dell’ignoranza e della sudditanza.
Delibiamo gli assunti di Watson “incriminati” dalla stampa di regime e da noi ieri sintetizzati:
– lungi dall’essere male, è più che doveroso manipolare l’embrione al fine di scongiurare la nascita di creature condannate a sofferenza perpetua, ch’è peggio di una non-vita;
– la procreazione è la più alta e delicata incombenza del genere umano: perché non dovremmo ritenerci astretti a farne scaturire persone sane e cerebralmente vieppiù dotate, capaci di superarci nella decifrazione delle leggi della natura?
– suona così scientificamente scandaloso affermare che, essendosi differenziato lungo i millenni lo sviluppo sociale nelle diverse regioni del pianeta, ci siano etnie che, globalmente e statisticamente considerate, sono più avanti di altre lungo il percorso evolutivo dell’umanità?
(Esempio: gli ebrei sono meno dello 0,2% della popolazione mondiale, ma l’87% dei più grandi matematici del mondo.)
– quanto all’esortazione di Watson a non figliare da nonne, è auspicio assiomatico, riflessivo d’incontestate leggi scientifiche: solo un pessimo emulo di Torquemada può ritenerlo blasfemo.
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10 novembre 2025
SE DIVENTA POSSIBILE CORREGGERE GLI ERRORI DI DIO
Genio e riservatezza
di Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
Sì, la malattia letale del genio è la schiettezza: per scongiurare il morbo deve essere molto accorto a mimetizzare gli esiti della propria superiore intelligenza. Deve esibirli con cautela e in dosi omeopatiche, calibrate alla capacità di assorbimento dei destinatari, che sono i mediocri,ancorché mandatari d’un popolo di superstiziosi e codardi. Sono costoro a tracciare il solco tra Bene e Male, Lecito e Illecito.
I mandatari apprezzano gli intelligenti, sono grati agli scienziati che decifrano le leggi della natura, sono riconoscenti agli intellettuali che schiudono prospettive di miglioramento delle condizioni di vita di loro stessi mandatari, innanzitutto, e a cascata e in minor misura quelle di tutti. Quindi sono aperti alle novità. Ma a una ferrea, imprescindibile condizione: che non tracimino il livello di guardia, appunto. Il troppo sconvolge le masse, impreparate ai balzi del conoscere e dell’agire; il che è fisiologico. La patologia subentra quando, a lasciarsi scombussolare dalle prodezze della ricerca scientifica, e dai guizzi filosofici che spesso ne sono al traino, sono anche i cerebri elevati il poco che basta a ergersi sulle moltitudini e a timonarle.
L’articolo che di seguito proponiamo illustra, a mo’ di fulgida dimostrazione del nostro assunto, le vicissitudini di uno scienziato di somma vaglia ma ahilui – e ahinoi, per osmosi – riottoso ad adeguare il proprio passo, di lunghissima portata intellettiva, al modesto incedere delle Vestali della Scienza e dei Sacerdoti dell’Etica di regime. Giacché la progressione cerebrale del genere umano non è espressa dalle sue cuspidi, ma da quella linea mediana ch’è compromissoria tra quanto l’archetipo del cittadino/suddito medio è in grado di assorbire e quanto i gestori della società vogliono che assorba. Il risultato di questa miscela di piallatura e di censura insieme è che l’umanità tutta è deprivata della fruizione dei benefici derivabili dall’innesto, nella tecnica e nelle leggi, dei più eccelsi parti cerebrali.
Va rimarcato che l’articolo proposto è tratto da un quotidiano di regime, dunque ligio all’accennata medianità; ciò perché riteniamo che le ragioni degli intellettuali più avanzati trionfino anche attraverso gli scritti degli intellettuali che lo sono meno, convinti come siamo che la verità e il superiore argomentare delle cuspidi colino, in una certa misura, sui gradini sottostanti della piramide.
Per questo siamo altresì convinti che il protagonista dell’articolo, James Watson, eretico agli esordi del terzo millennio quanto Galileo Galilei lo fu a metà del secondo, è destinato alla (ri)abilitazione. Ma continuerà ad ardere ancora per un bel pezzo, perché i suoi peccati di eccesso di intelligenza propria e di capacità consequenziale delle intelligenze di predecessori e coevi non sono adeguati alle capacità ricettive e alla propensione al perdono dei loro giudici.
A propiziare la lettura di Le Monde sintetizziamo le tesi più eretiche che Watson ha affisso sulla Schlosskirche:
– la specie umana può essere migliorata con la genetica;
– la miglior procreazione è quella che deriva dal coniugio dei migliori gameti;
– ci sono razze umane più intelligenti di altre;
– le donne mature (diciamo oltre i 30 anni) dovrebbero astenersi dal far figli.
Che la provocazione sia provvida sferza.
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STAMPA INTERNAZIONALE
Le Monde, 8 novembre 2025
L’eredità scientifica di James Watson
Co-vincitore del premio Nobel nel 1962 per una scoperta della struttura a doppia elica del DNA, che ha dato il via alla rivoluzione genetica, lo statunitense ha offuscato la propria immagine minimizzando il lavoro della cristallografa Rosalind Franklin e con affermazioni razziste, sessiste ed eugenetiche..
di Hervé Morin
traduzione di Rachele Marmetti
Con James Watson scompare uno degli ultimi giganti della scienza del XX secolo. Il genetista e biochimico americano è morto il 6 novembre, a 97 anni, a East Northport, nello Stato di New York. Lo ha annunciato il figlio Duncan al New York Times. Watson ha dato il via alla rivoluzione genetica descrivendo, nel 1953, la struttura a doppia elica della molecola di DNA, portatrice del nostro patrimonio genetico. Un’eredità macchiata da posizioni razziste, sessiste ed eugenetiche, nonché da sospetti sull’appropriazione delle ricerche di una cristallografa britannica, Rosalind Franklin (1920-1958).
Il suo articolo più famoso si conclude con una frase sibillina: «Non ci è sfuggito che l’appaiamento specifico da noi postulato suggerisce immediatamente un possibile meccanismo di copia del materiale genetico», scrive insieme al britannico Francis Crick (1916-2004) in uno studio pubblicato il 25 aprile 1953 su Nature e passato alla posterità. Questa frase introduce l’idea che la doppia elica, i cui filamenti sono ciascuno portatore, in modo complementare all’altro, delle informazioni genetiche, possa sia trasmettere queste ultime di generazione in generazione sia consentirne la traduzione in proteine, grazie a un codice universale. Un codice che sarà decriptato da altri nel decennio successivo.
Questa fondamentale scoperta valse a Crick e a Watson il Premio Nobel per la medicina nel 1962, insieme al britannico Maurice Wilkins (1916-2004). Ma sarà soprattutto il punto di partenza di una rivoluzione in biologia e medicina, nonché in una folta serie di discipline associate, come la zoologia, l’ecologia, l’agronomia, la paleontologia e l’astrobiologia.
La scoperta ha da subito suscitato interrogativi etici, diventati via via sempre più pressanti: «Alla domanda se il nostro lavoro potesse portare a un miglioramento genetico degli esseri umani, ho risposto: se lei desidera un figlio intelligente, dovrebbe scegliere una donna intelligente.» Questa battuta è riportata nel suo libro Avoid Boring People (2007, Oxford University Press). Watson l’avrebbe pronunciata in risposta a giornalisti, la mattina dell’annuncio dell’attribuzione del premio Nobel. Una frase tipica di uno stile intenzionalmente provocatorio, perfettamente rappresentato in La doppia elica, un vivace racconto autobiografico, a tratti romanzato, pubblicato nel 1968.
Da allora, le possibilità di manipolazione degli organismi viventi attraverso la modifica del DNA si sono rivelate sempre più potenti: organismi geneticamente modificati, terapie geniche, produzione di farmaci mediante ingegneria genetica, xenotrapianti, controllo delle popolazioni di parassiti o creazione di virus mutanti. Per non parlare delle “bimbeCrispr” [1], il cui patrimonio genetico fu modificato nel 2018 da un ricercatore cinese, He Jiankui, archetipo dello scienziato pazzo.
Watson non contribuisce, di fatto, a scoraggiare questa smania di onnipotenza. Nel 1997 dichiara alla stampa che una donna dovrebbe avere la possibilità di abortire se venisse a sapere che il nascituro è portatore del gene dell’omosessualità (gene mai scoperto, perché inesistente…). O per qualsiasi altro motivo – statura, scarsa attitudine alla musica, malattia mentale – precisa, reagendo al clamore suscitato dalla sua affermazione.
Ma questo è solo il primo di numerosi scivoloni: nel 2000 il genetista suggerisce che il colore della pelle abbia un legame con la sessualità, avanzando la teoria che i neri hanno una libido più intensa dei bianchi. Nel 2007 dichiara al Sunday Times di essere «fondamentalmente pessimista riguardo al futuro dell’Africa»: «Le nostre politiche di aiuto sono fondate sul presupposto che la loro intelligenza è uguale alla nostra, ma tutti i test dimostrano il contrario» aggiunge. Dichiarazioni che gli valgono la sospensione poi l’allontanamento dal suo laboratorio di Cold Spring Harbor (Stato di New York), di cui aveva assunto la direzione nel 1968.
Sempre nel 2007 si dichiara favorevole all’uso dell’ingegneria genetica per «rendere belle tutte le ragazze». Nel 2013 suggerisce che, per ridurre la frequenza delle malattie mentali, le donne forse non dovrebbero avere figli dopo i 30 anni. Propone di raccogliere i gameti, maschili e femminili, in vista di future procreazioni artificiali. Una presa di posizione nata probabilmente dall’esperienza di padre di un bambino schizofrenico. Nel 2014, come ulteriore affronto all’establishment scientifico, mette all’asta la medaglia del Nobel. Il miliardario russo Alisher Usmanov, che ha sborsato 4,1 milioni di dollari (3,76 milioni di euro) per acquistarla, gliela restituisce l’anno successivo durante una cerimonia all’Accademia delle Scienze di Russia, a Mosca.
Scivolando volontariamente nel politicamente scorretto, “Jim” Watson diventa definitivamente “radioattivo”. Nel 2018 il genetista Eric Lander, direttore del Broad Institute (Massachusetts Institute of Technology e Harvard) è costretto a scusarsi per aver brindato in suo onore per il suo 90° compleanno. Un rammarico ancora più vivo in quanto Lander afferma di «essere stato personalmente bersaglio di commenti antisemiti» da parte di Watson. Nel 2019, in un documentario, quest’ultimo afferma di nuovo che esiste una differenza di quoziente intellettivo tra i neri e i bianchi, di origine genetica. Questa volta il laboratorio un tempo da lui diretto, il Cold Spring Harbor, gli revoca ogni titolo onorifico, abbandonandolo alla deriva fino a diventare figura di spicco del razzismo scientifico.
Ma torniamo agli inizi. James Dewey Watson nasce il 6 aprile 1928 a Chicago (Illinois). Bambino precoce, influenzato dal padre si interessa all’osservazione degli uccelli: la sua prima passione è l’ornitologia. Entrato a 16 anni all’università di Chicago, nel 1947 consegue la laurea in zoologia. Ma la lettura, l’anno precedente, di Qu’est-ce que la vie? (Che cos’è la vita?) del fisico Erwin Schrödinger, lo riorienta verso la genetica. Nel 1950, all’università dell’Indiana, discute la tesi di dottorato sugli effetti letali dei raggi X sui virus batterici (batteriofagi). Si trasferisce poi a Copenaghen dove trascorre alcuni mesi poco stimolanti. Nel 1951, a Cambridge (Regno Unito), nel laboratorio Cavendish, insieme al collega più anziano Francis Crick, trova la propria strada.
La coppia si concentra rapidamente sullo studio della struttura dell’acido desossiribonucleico (DNA), che sospettano essere il supporto dell’ereditarietà. I due studiosi tentano di costruire modelli tridimensionali, costituiti da incastri di pezzi metallici, in particolare sulla base dei dati cristallografici raccolti al King’s College di Londra da Maurice Wilkins e Rosalind Franklin. Nel 1952 Crick e Watson elaborano una struttura e la presentano con orgoglio ai colleghi londinesi. Basta uno sguardo di Rosy – il soprannome che Franklin detestava – per demolire il tentativo. Il cocente fallimento scoraggia solo per un breve periodo i due ricercatori, preoccupati della concorrenza del biochimico americano Linus Pauling (1901-1994) di cui conoscevano i progressi grazie alla presenza di suo figlio nel loro laboratorio.
Franklin aveva stabilito che il DNA poteva essere fotografato in cristallografia in forma A, disidratata, e in forma B, umida, più simile al suo stato naturale, in soluzione nelle cellule viventi. Inizialmente concentra i suoi sforzi sulla forma A, ma una prima immagine le fa dubitare che il DNA sia elicoidale. Ciò la porta a pubblicare nel maggio 1952, insieme allo studente di dottorato Raymond Gosling (1926-2015), una partecipazione umoristica in cui annunciano la dolorosa scomparsa del modello a elica; un documento che Watson userà in seguito per sminuire i meriti di Franklin.
All’inizio del 1953 Franklin sta per lasciare il King’s College. Chiede a Gosling di consegnare a Wilkins le immagini a raggi X del DNA, questa volta nella forma B. Tra queste c’è l’immagine n. 51, di altissima qualità. Wilkins la mostra immediatamente a Watson: i pezzi del puzzle finalmente combaciano, la struttura corrisponde effettivamente a una doppia elica. Anche una relazione sui lavori dei londinesi, Franklin e Wilkins, consegnata al team di Cambridge, Watson e Crick, ha fortemente contribuito a mettere sulla strada giusta i futuri premi Nobel, che tuttavia si basavano anche su molti altri indizi.
Watson e Crick hanno sottratto a Franklin la scoperta? Franklin avrebbe meritato il Nobel se non fosse morta di cancro alle ovaie nel 1958? Regolarmente, in occasione dell’anniversario della scoperta, storici e biografi apportano nuovi elementi al delicato caso. Indubbiamente la giuria di Stoccolma sarebbe stata in difficoltà a designare solo tre vincitori se Franklin fosse stata ancora in vita.
Da vero signore, Crick ammette che, se avesse avuto solo le immagini della forma A, sarebbe stato molto meno sicuro della validità del loro modello di DNA. Nell’epilogo di La doppia elica, Watson rende omaggio alla collega, al suo «coraggio e alla sua integrità esemplari», «comprendendo, con anni di ritardo, quali lotte una donna intelligente deve sostenere per essere accettata in un mondo che spesso considera le donne solo una semplice distrazione dalle questioni serie». Ma Watson comunque non desiste. Invitato nel 2018 al Collège de France, ribadisce di essere convinto che «non ci sarebbe stato alcun motivo di attribuire il premio Nobel» a Franklin: secondo lui, la collega non credeva alla validità dell’ipotesi della doppia elica; un punto smentito dagli storici. «Era una perdente [loser]» conclude Watson con accenti trumpiani.
Cosa fare una volta svelato il «segreto della vita», secondo le parole dello stesso Watson? Nella primavera 1953 si reca a Parigi, dove ammira da lontano «le ragazze dai lunghi capelli vicino a Saint-Germain-des-Prés». «Avevo 25 anni, ero troppo vecchio per essere interessante» scrive nella conclusione della Doppia elica… Ma la storia non finisce qui. Nello stesso anno entra a far parte del California Institute of Technology, poi nel 1956 diventa professore ad Harvard. Successivamente assume la direzione del Cold Spring Harbor, il laboratorio di Long Island (New York), facendolo risorgere dalle ceneri; nel 1988 dirige il progetto di sequenziamento del genoma umano presso il National Institute of Health (NIH). Mentre aumentano in modo esponenziale le più folli speculazioni sul valore commerciale della genomica, nel 1992 Watson si dimette per i profondi disaccordi con la politica americana di brevettare indiscriminatamente il genoma umano.
Avviata dal NIH in concorrenza con il genetista americano Craig Venter, la corsa al sequenziamento del genoma umano si concluderà nel 2001 con un pareggio: nessuna delle due squadre sarà riuscita a portare a termine l’impresa. Nel 2007 il franco-tiratore Venter pubblica la prima sequenza di un singolo individuo. Nel 2008 è la volta del genoma di Watson (che detestava perdere, sia nella scienza sia nel tennis) a essere pubblicato, al termine di uno sforzo quantificato in un milione di dollari – il costo del sequenziamento scenderà a circa 500 dollari. La sua sequenza è presentata sulla rivista Nature, la stessa su cui aveva descritto i prolegomeni del «libro della vita».
Watson ammetteva che la sua lettura di circa 20 mila geni non aveva portato i progressi sperati. L’obiettivo di sconfiggere il cancro era più difficile da raggiungere di quanto avesse annunciato, riconosceva nella conferenza al Collège de France del 2018. «C’è bisogno di una nuova scintilla (…) arriverà, sono molto ottimista» assicurava.
[1] Due gemelle cinesi, Lulu e Nana, i primi individui al mondo a venire alla luce geneticamente modificati: è stato sostituito un gene in modo da renderle immuni dall’infezione HIV grazie alla tecnica Crispr, tecnica di ingegneria genetica che consente di modificare a proprio piacimento il DNA con precisione elevatissima e relativa facilità (da Fondazione Veronesi).
29 ottobre 2025
ETICA E SCIENZA
Democrazia agli ultimi rantoli?
di Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
Etica è:
– prestare cuore e orecchio a valori a noi intrinseci, che pulsano nella nostra coscienza come ineludibili. Esempi: «Tutti gli uomini sono titolari del medesimo zoccolo di diritti-doveri.»; «Valutati il bene e il male, dobbiamo scegliere il bene.», eccetera.
– accanto ai valori intrinseci, che pulserebbero in noi anche se vivessimo solitari in un’isola, fioriscono valori derivati dalla valutazione del mondo, alimentata dall’osservazione del medesimo e dalle relazioni col prossimo. Questi valori dedotti dall’osservazione, dall’esperienza e dalla decifrazione delle leggi della natura sono generati dalla conoscenza. Dilatandosi questa, se ne dilata il peso nel crogiolo della nostra coscienza. Conoscenza è sapere oggettivo, scientifico. È, ribadisco, soprattutto decifrazione delle leggi della natura.
Ne deriva che, se cambia il mondo, cambiano anche le nostre valutazioni del medesimo, e di conseguenza la nostra coscienza e il nostro agire in esso.
Esempio: se la scienza ci dice che l’essere umano nasce con l’unione dei gameti e la formazione dell’embrione, alla luce dei nostri valori nativi concludiamo che sopprimere un embrione è omicidio; se la scienza ci dice che la vita inizia con la percezione che il nascituro o il neonato hanno di sé, ecco che l’essere umano nasce quando ha la capacità di percepirsi. E se si scoprisse che il neonato si percepisce a 15 giorni dal parto dovremmo dedurne che sopprimere un neonato di 14 giorni non è infanticidio, ma lecita, persino doverosa, pratica di contrasto alla disgenica.
Progredendo la scienza e dilatandosi il sapere, aumenta il peso della componente scientifica nella mescola delle nostre acquisizioni etiche. Significa che le scelte politiche dell’umanità sono sempre più conseguenza delle nostre scoperte scientifiche.
Ne deriva che la miglior politica è coniugio tra:
– miglior zoccolo di valori intrinseci, fusione di elaborazione di sapere riflessivo;
– e acquisizione costante del sapere scientifico.
E siccome abbiamo stabilito che nel binomio coscienza nativa-scienza quest’ultima ha sempre maggior incidenza, ecco che anche le menti più ricche di valori nativi perdono il passo se non tengono aggiornata la componente di sapere scientifico.
Significa che le scoperte scientifiche sono destinate a condizionare la componente opinabile. Questo conduce ad accettare il primato progressivo dell’oggettività sulla soggettività. E dunque ad accettare il prevalere del filosofo-scienziato sul filosofo che ha perso il passo con il progresso scientifico. Parlo di filosofo-scienziato perché non può esservi decisore, gestore della società, che, per quanto convertito all’oggettività delle scoperte scientifiche, non le stacci alla luce delle proprie radicate acquisizioni filosofiche. Perché se è vero che l’etica è sempre più forgiata dalla scienza, è e sarà sempre l’etica ad avere l’ultima parola sulla scienza.
Tracciare la rotta e determinare i fini dell’umanità, nonché le modalità per raggiungerli, implica conoscenze scientifiche crescenti, per cui tracciamento e determinazione saranno appannaggio di un sempre minor numero di decisori. E le scelte che questa ristretta cuspide dovrà fare saranno sempre più oggettivizzate non soltanto da crescente competenza scientifica, ma anche da acquisizioni etiche più esposte ai condizionamenti scientifici.
Si ridurrà pertanto il numero degli umani che avranno meriti e attitudini per contribuire alla gestione della società; e si ridurranno, nei loro dibattiti per prendere di volta in volta le migliori decisioni, i margini di compromesso. Dinanzi a due scelte contrapposte, vincerà non quella giusta (cioè corretta dal punto di vista di qualche legge scientifica), ma quella che sarà vincente nel confronto etico-scientifico nel quale la scienza avrà peso crescente. Ma non si arriverà mai, non si potrà arrivare, a una gestione esclusivamente scientifica della società, giacché la coscienza (i valori intrinseci) avrà sempre la prima e ultima parola. Dal calderone decisionale uscirà una fusione dove il peso della coscienza ridurrà, in proporzione, il proprio apporto di materia prima, per consolidare la funzione di catalizzatore, senza il quale nessuna fusione sarà accettabile.
La riduzione del margine di compromesso tra diverse opinioni non sarà soltanto esito della preminenza, nel dibattito, dell’oggettivo sul soggettivo. Ma dell’affermazione, già a monte, di soggettività sempre più oggettive. Cioè: il filosofo evolverà sempre più in un filosofo-scienziato, e dunque potrebbe essere in arduo contrasto con la propria componente scientifica.
La consunzione dell’area compromissoria è la fine della democrazia com’è da sempre concepita e come anche oggi viene applicata: la rinuncia ad alcuni aspetti del proprio opinare per surrogarli con l’opinare altrui. Se equipariamo democrazia a partecipazione, a costruzione di un consenso il più possibile vasto, implichiamo un’unione di fini che non è la somma di fini diversi, ma lo sfaccettamento, lo sfrondamento di ogni fine per renderlo unibile a ogni altro fine individuale (o di parte) incluso nella mescola della decisione finale condivisa. Insomma in una democrazia ogni apportatore di idee, di progetti, di proposizioni deve pagare un pedaggio d’ingresso consistente nel mutilare i propri intenti delle componenti incompatibili con quelle altrui, se non anche ingurgitare farina del sacco altrui, farina che, fosse astretto a opzioni esclusivamente autonome, disdegnerebbe.
È a questo punto che va fiorendo, in ristretti ambiti del filosofare e in ancor più in ristrette nicchie del progettare politico, un’involuzione riflessiva inquietante: «Democrazia non è enfasi sinergica, ma piallate di incompatibilità e di disomogeneità». È un processo di automutilazione (nonché potenzialmente di arricchimento) antico, essenza dello stesso concetto di gestione sociale condivisa, ma che oggi, alle altezze vertiginose del progresso intellettuale umano, relega le fasce sociali escluse dal processo evolutivo a un’arretratezza belluina, vieppiù distanti dal consesso decisionale ineunte, elitario a picchi eccelsi.
Alla luce di questa cuspide di pensatori-scopritori il concetto di democrazia viene abbagliato, condannato all’arsura. Ai piedi e ai margini della cuspide possono sopravvivere – quantomeno può rivelarsi utile lasciar sopravvivere a caritatevole lenitivo regressione altrimenti troppo drastica – lungo i declivi scalinate cui collocare democrazie formali, pascoli di sopravvivenza per menti che, inidonee a salire ai sogli decisionali, si appagano di partecipazione simbolica, marginale, irrilevante alle soglie della disfunzionalità. Tali democrazie di cartongesso sono baluardo a uno smarrimento psicologico delle masse che potrebbe adombrare i fasti dei nuovi filosofi-scienziati.
Quella che abbiamo appena iniziato a vivere è fase tra le più delicate nel percorso dell’umanità. Sulla distesa di otto miliardi di teste devastate dalla bomba binaria mancanza di etica-ignoranza s’ergono due eserciti: la comunità dei filosofi-scienziati e la comunità tecnocrati-goderecci. Quest’ultima la più pericolosa, perché tesa esclusivamente al sodo e al soldo e disposta a mandare in vacca l’universo pur di cavarci immediato, familiare tornaconto; perigliosa perché capace di manipolare la gran massa dei subordinati. Una manipolazione che, esaurita la lusinga della distribuzione crescente di una ricchezza che invece si rattrappisce, si esercita con l’allocchimento mediatico, cioè con l’illusione democratica. Ecco perché, conclude il consesso dei Nuovi Filosofi-Scienziati, «sarà soltanto uccidendo la democrazia universale, alimento del circo mediatico, che si può far trionfare il Bene filosofico-scientifico sul Male della Tecnica fine a stessa, non subordinata all’etica, dunque cancerogena. Peggio: potenzialmente letale per l’intero genere umano».
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26 ottobre 2025
MERCATO GLOBALE E NUOVI SCHIAVI
Così la familcrazia propizia il colonialismo del XXI secolo
articolo a richiesta
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STAMPA INTERNAZIONALE
Le Monde, 25 ottobre 2025
Qui si tesse la rabbia
Nello Stato indiano del Bengala Occidentale sale la tensione nelle fabbriche che producono juta, utilizzata per confezionare sacchi: i lavoratori chiedono il lenimento di condizioni di lavoro coloniali e di paghe da fame.
di Sophie Landrin
inviata a Calcutta
traduzione di Rachele Marmetti

Nella fabbrica tessile Reliance Jute Mill a Bhatpara, in India. Scatto del 28 agosto 2025, Arko Datto per Le Monde.
Nella terra sommersa, i lunghi fusti di juta sono stati assemblati in forme evocanti capanne. È il periodo della macerazione che serve a facilitare la separazione della corteccia filamentosa dallo stelo. Sotto la pioggia monsonica, con l’acqua che arriva alla vita, le donne separano le parti fibrose, che vengono poi portate a riva, a seccare lungo i bordi delle strade e dei villaggi. A fine agosto, nel delta del Bengala, nel nordest dell’India, la stagione della juta è al culmine. Grazie al clima tropicale, la regione è ideale per la coltivazione di questa fibra naturale, robusta, biodegradabile, usata soprattutto per confezionare sacchi. Caratteristiche che la rendono un’alternativa provvida alla plastica. Tanto più che questa coltura non richiede praticamente fertilizzanti e ricicla il carbonio.
Con i tre quarti della produzione nazionale di juta, lo Stato del Bengala Occidentale è il polmone del settore, in cui l’India è il primo produttore mondiale, davanti al Bangladesh. Ma nelle filande di quest’area i lavoratori, da 250 a 300 mila, ribollono di collera. Il settore traversa da molti decenni una crisi sociale ininterrotta, che spinge regolarmente i sindacati a scendere in piazza a Calcutta, la capitale, per chiedere migliori condizioni di lavoro e di retribuzione.
L’ultima manifestazione risale al 29 agosto. «I lavoratori patiscono condizioni di estrema precarietà. La loro vita è minacciata dalla negligenza dei padroni e dalle politiche antioperaie della classe politica» afferma Gargi Chatterjee, una dei leader del sindacato Bengal Chatkal Mazdoor Union, nonché rara donna in un contesto dominato dagli uomini. «I governi, centrale e regionale, continuano a essere indifferenti ai problemi dei lavoratori» aggiunge la sindacalista.
Alle porte di Calcutta, il distretto North 24 Parganasci pulsa di decine di filande dove lavorano circa 60 mila operai. È il cuore storico di questa industria, nata ai tempi della britannica Compagnia delle Indie. I coloni europei se ne sono andati da un pezzo, ma negli ultimi centocinquant’anni le officine sono cambiate di poco, soprattutto per mancanza di investimenti in macchinari moderni. Il mestiere è stato tramandato di generazione in generazione senza un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori.
Visitiamo la filanda Reliance, fondata nel 1906, a Bhâtpâra, vicino al fiume Hooghly, in un’epoca in cui le merci venivano trasportate in battello. La fabbrica, molto buia e poco ventilata, somiglia a un gigantesco e mostruoso formicaio, con macchine a perdita d’occhio sulle quali si agitano oltre 300 capisquadra e quattromila operai, in sandali e perizoma. Non calzano alcuna protezione: né maschere né guanti né caschi, a una temperatura di 40 gradi e un tasso di umidità estremo. I lavoratori meglio pagati guadagnano 650 rupie (6,10 euro) al giorno, quelli al livello più basso 300 rupie.
«L’ambiente di lavoro è molto insalubre e favorisce incidenti e malattie» sintetizza Gargi Chatterjee. Prima di raggiungere i telai, la juta passa infatti attraverso una dozzina di macchine assordanti che la trasformano in filo, rilasciando una montagna di polvere nociva per la salute. Secondo uno studio scientifico, condotto nel 2009 nei filatoi di juta del Bengala Occidentale, su 203 lavoratori tra i 18 e i 60 anni il 50,65% degli addetti alla gramolatura, nonché il 26,09 degli addetti alla filatura e il 20,34% degli addetti alla tessitura soffrivano di bissinosi, malattia polmonare che causa il restringimento delle vie respiratorie. [Si cronicizza e può condurre alla morte, ndt].
Come la maggior parte dei concorrenti, la fabbrica Reliance produce sacchi per lo stoccaggio dei cereali, e spago. Anche questa azienda beneficia della spinta del governo indiano all’industria della juta: nel 1987 è stato reso obbligatorio l’utilizzo della fibra naturale per l’imballaggio di cereali, grano, riso e zucchero. Gli ordinativi del settore pubblico oscillano tra i 10 e 12 milioni di tonnellate di sacchi in juta, ma sono in costante calo, forse a causa del prezzo. Un sacco di juta costa infatti tra le 65 e 75 rupie, tre volte più di un sacco in plastica (21 rupie).
A poca distanza da Reliance, nella filanda Auckland, a Jagatdal, a giugno è esplosa la rivolta. Il direttore dello stabilimento è stato picchiato da operai esasperati, che lo accusavano di trattenere indebitamente i contributi pensionistici prelevati ogni mese dai loro salari, invece di versarli all’istituto di previdenza regionale. L’incidente ha fatto scattare uno sciopero generale. Da anni i proprietari delle fabbriche si rifiutano di versare la quota di contributi a loro carico ai programmi di assicurazione sanitaria, che consentono ai lavoratori l’accesso gratuito ai sevizi sanitari, nonché ai fondi di previdenza, che garantiscono ai dipendenti una modesta entrata al momento della pensione.
La ricorrente esasperazione violenta dei lavoratori è la punta dell’iceberg della tensione che cova nelle filande. Dieci anni fa, l’amministratore delegato della fabbrica Northbrook, a Bhadreswar, fu picchiato a morte; nel 2001 il direttore e il responsabile del personale della fabbrica di Baranagar furono bruciati vivi.
A due mesi dagli incidenti, nello stabilimento Aucklandnon non si arresta il lento declino delle condizioni di lavoro degli operai. In risposta al malcontento del personale, la direzione ha ridotto drasticamente il numero dei dipendenti a tempo indeterminato aumentando quello dei giornalieri. «Un anno fa la maggior parte dei 3.500 lavoratori dello stabilimento erano dipendenti a tempo indeterminato e i giornalieri una minoranza. Ora non ci sono più lavoratori a tempo indeterminato. Ci sono soltanto lavoratori a contratto o a giornata, pagati meno e privi delle tutele del lavoro dipendente: senza ferie retribuite, né contributi né pensione. Si può perdere il lavoro in ogni momento» spiega un operaio di 45 anni, che preferisce non dire il proprio nome.
Viene da Benares, nello Stato dell’Uttar Pradesh, e lavora per Auckland dal 1997. Guadagna 500 rupie, ma deve pagarne 150, elettricità esclusa, per l’alloggio nell’area della fabbrica: una minuscola baracca condivisa con altri sei operai, con servizi igienici comuni e in cattivo stato. «La direzione, ci racconta l’operaio, ci addossa sempre più mansioni da eseguire in sempre meno tempo e ci costringe a prendere due giorni di riposo la settimana, ovviamente non retribuiti». Unico conforto e barlume di speranza per quest’uomo esausto è la figlia, che è riuscito a far studiare all’università di Calcutta.
Il padrone ha imposto un sistema di tre turni giornalieri di otto ore, in sostituzione di un sistema orario frazionato che offriva ai lavoratori maggiore flessibilità. Ora i lavoratori sono costretti ad affrontare turni di lavoro massacranti, interrotti da una breve pausa. La maggior parte torna a casa stordita e per affrontare il giorno successivo si abbrutisce nell’alcol.
Ahmed Edlakh, 45 anni, lavora nella fabbrica da trent’anni, a giornata. Vive con moglie e tre figli in questa baraccopoli. «Le condizioni di lavoro stanno peggiorando e chi fa sciopero viene buttato fuori. Io sono costretto a subire perché non ho alcun altro posto dove andare e non ho altre competenze».
Altro esempio della condizione precaria dei lavoratori a giornata: i lavoratori di Kamarhatty, azienda fondata nel 1887, a fine agosto hanno trovato i cancelli della filanda chiusi per diversi giorni a causa di ordinativi pubblici insufficienti. I lavoratori sono stati avvertiti da un cartello affisso all’ingresso.
«Siamo giornalieri, quindi non veniamo pagati quando la fabbrica ferma. Niente lavoro, niente paga, è così che funziona» spiega Firoz Akhtar, che lavora qui da diciotto anni. Gli operai elencano una serie di soprusi: ritmi produttivi infernali, insicurezza del posto di lavoro, trucchi dell’azienda per non versare i contributi per assistenza e pensione invocando ostacoli amministrativi. A Shafique, 57 anni, manca un anno alla pensione. Ha dieci giorni di ferie all’anno e lavora sei giorni la settimana per un salario che gli permette a malapena di sfamare la famiglia.
Abbiamo interpellato i datori di lavoro, che però non si sono mostrati molto loquaci. Il direttore della filanda Empire ha invece accettato di incontrarci. Anil Singh, 67 anni, da due mesi dirige una fabbrica di mille dipendenti che produce tappeti, sacchi e spago. Viene da Dubai, dove, fino al pensionamento, ha svolto un incarico ben remunerato. Gli attuali proprietari, la quarta generazione dalla fondazione dell’azienda, lo hanno chiamato per imprimere una svolta alla fabbrica. «I margini qui sono molto risicati» ci spiega nel suo minuscolo ufficio in un edificio coloniale, «e l’automazione è ancora molto carente. Per trovare nuovi sbocchi dovremmo migliorare la qualità della produzione e diversificarla con altre fibre, per esempio il bambù. Il problema è che l’industria della juta è molto conservatrice.» Le uniche linee che sono state modernizzate e completamente automatizzate sono quelle della bobinatura, dove lavora una squadra di donne, ossia il 25% della forza lavoro.
Alcuni proprietari hanno iniziato a delocalizzare la produzione nell’India meridionale, ritenuta più favorevole all’industria, soprattutto nell’Andhra Pradesh. Sebbene l’India sia il primo produttore di juta, deve misurarsi con la concorrenza del vicino Bangladesh, che sovvenziona fortemente il settore. Il Bangladesh lavora fibre di migliore qualità e ha sviluppato una produzione più diversificata e a più alto valore aggiunto: prodotti per la casa, una gamma di borse per la spesa e sacchi che si esportano meglio. Di conseguenza è diventato il primo esportatore mondiale di prodotti in juta di qualità; l’India invece si limita a una produzione massiccia ma a basso valore aggiunto, destinata principalmente al mercato interno. Per proteggere l’industria nazionale, a giugno il governo indiano ha deciso di vietare le importazioni via terra dal Bangladesh di juta, tessuti e filati.
Alcuni stilisti indiani lavorano ormai con questa fibra e anche case di alta moda; l’hanno adottata anche marchi occidentali di prêt-à-porter. Per questo settore si schiudono nuove prospettive. Purché si osi fare il balzo necessario per entrare nel XXI secolo.
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20 ottobre 2025
VENTI DI GUERRA
Babbo Natale col moschetto
di Gian Carlo Scotuzzi e Rachele Marmetti
Secondo l’Istituto di ricerca sulla pace, di Oslo, mentre scrivo sono in corso nel mondo 61 conflitti. Soltanto su due s’appigliano speranze di una pace a breve, peraltro precaria: su Gaza e sull’Ucraina. Come farà mai la più potente lobby industrial-politico-finanziaria del mondo, quella delle armi, a sopravvivere lucrando su appena 59 campi di battaglia? Non potrà: per questo si prepara ad aprire un nuovo e più esteso fronte, più che compensativo dei due piccini minacciati di requie. L’offensiva partirà dalla Finlandia, sotto ferula Nato, all’assalto della Russia. Con uno squarcio alla frontiera con la Carelia, per poi allungarlo, a nord, ai mari baltici e alle frange del Polo, silurandovi la flotta di rompighiaccio che schiude ai container rossi la Via della Seta più proficua, quella che dai porti dell’Estremo Oriente fornisce Nordeuropa e Nordamerica di materie prime e prodotti finiti russi e cinesi; poi la Nato allungherà lo squarcio a Sud, sino alla Germania e agli Stati centrali che daranno il cambio all’Ucraina.
Fantapolitica? Le vicende degli ultimi mesi, confermate dalle cronache delle ultime settimane, dicono di no. Bastino poche carotature:
In Finlandia rullano tamburi di guerra ovunque. Nelle forze armate, che il 3 ottobre hanno inaugurato a Mikkeli un nuovo comando regionale Nato, a 250 chilometri da San Pietroburgo e allungando avamposti ad appena 40 chilometri dal confine russo; che stamburano sulla stampa atlantica l’esercitazione aerea in corso (13-24 ottobre), finalizzata a testare la risposta atomica di Finlandia e soci al paventato attacco russo, come la prova generale di un’offensiva imminente. Il primo quotidiano del Paese, l’Helsingin Sanomat, classe 1904, a suo tempo araldo delle prodezze dei finnici in divisa nazista (si veda sotto l’articolo correlato), insuffla spirito patriottico, con articolesse reiterate ed enfatizzate. In mancanza di meglio sbatte in prima pagina la réclame di uno dei due Hornet F-16 cooptati nella flotta interforze: velivoli obsoleti, ancorché caricati a ordigni nucleari, ma rimpiazzanti dai modernissimi F-35. Che a disdoro della pecetta finnica sulla fusoliera, sono preclusi ai finlandesi, come a ogni altro pilota non a stelle e strisce: sono virtualmente pilotati dagli Usa, senza i quali non sparano, non sganciano e neppure si alzano da terra. Puri terminali dell’arbitrio del Pentagono: precisazione tecnologica doverosa, perché acclara la sudditanza operativa degli europei tutti agli Stati Uniti. Di queste macchine volanti per conto altrui, i finlandesi ne hanno comprate o prenotate 64, e siccome costano da 71 a 95 milioni di dollari l’una, il bilancio dello Stato dovrà tagliare all’umbertina le spese sanitarie, sociali, dell’istruzione e via elencando le cinghie che gl’incauti 5,6 milioni di finlandesi dovranno tirare per ingrassare gli azionisti della Lockheed Martin, la fabbrica degli F-35 appunto. Unica consolazione dei finlandesi: gli italiani, contabilmente messi molto peggio di loro, di questi balocchi ne stanno comprando 115.
Altro sintomo di malessere bellico, stavolta piccino. Succede che i finlandesi hanno smesso di portare i loro bambini allo zoo di Ahtari, meta tradizionale del Paese, 270 chilometri a nord di Helsinki. Il 15 ottobre scorso ha annunciato di chiudere a fine mese. Fallito per mancanza di clienti. Idem gli annessi hotel Mesikammen, ristorante eccetera. I giornali inchiestano e scoprono che i finlandesi non hanno più i soldi per pagare il biglietto d’ingresso (21 euro l’intero, 11 il ridotto) né la camera d’albergo né i pasti. Perché? Risposta: Con la guerra alle viste, non è il caso di scialare nel superfluo.
200 animali e altrettanti lavoratori, indotti compresi, a spasso o al macello. Cassa integrazione? Per carità, con le cambiali firmate per gli F-35 non se ne parla! Però ottime prospettive di conversione nelle forze armate, se la Russia non si decide a invaderci ve la provochiamo noi. Ci siamo giusto acquattati ad appena 40 chilometri da casa loro. Non a caso il ministro della Difesa, Antti Häkkänen ha ordinato l’allestimento di strutture sanitarie di emergenza per le forze armate.
A Sud. Il governo tedesco scimmiotta il predecessore cha lanciò la parola d’ordine Nach Osten, verso Oriente. All’assalto degli slavi, oggi come ieri rubricati Untermenschen. Se non mangiamo Putin, prima o poi ci mangia lui. Camionate di soldi pubblici trasferiti dai servizi sociali all’acquisto di armi. Il cancelliere Friederick Merz ha fatto il pitocco con gli F-35: solo 35 esemplari, poco più della Polonia, ma si sta rifacendo alla grande con nuove basi militari, carrarmati, droni e ovviamente aerei meno Usa-terminali. Ha ordinato agli ospedali di allestire adeguati posti letto per ospitarvi i molti feriti che il conflitto prevede. Idem stanno facendo i governi britannico e francese e gli altri natisti minori, giù giù sino all’Italia. Dove però di guerra alla Russia si parla poco e si continua a intrattenere il popolo con la cronaca rosa, con quella nera ma di bassa scostumanza, con quella comica di un dibattito politico appiattito a chiacchiere della serva. I registi della Nato hanno suggerito ai luogotenenti romani di non inquietare un elettorato da sempre pacioso, ancorché per metà non votante, con preoccupazioni anzitempo. Al momento opportuno, si taglieranno con la roncola pensioni, salari, sanità, istruzione e quant’altro senza che il grosso degl’italiani osi ridire. C’inventeremo favole per tenerli allegri e in riga. I rari riluttanti si piegheranno come i greci.
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STAMPA INTERNAZIONALE
Tass, Russia
La nuova dottrina finlandese: stupidità, bugie, ingratitudine
Il vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Russia mette in parallelo i comportamenti degli attuali leader di Helsinki con quelli di almeno un secolo fa. E ricorda le conseguenze degli attacchi alla Russia, ammonendo a non replicarli.
di Dmitri Medvedev
traduzione di Rachele Marmetti

Soldati nazisti finlandesi, inquadrati dalla Germania durante la seconda guerra mondiale.
La scorsa settimana ho fatto un viaggio di ricognizione lungo i confini tra Russia e Finlandia, nella regione di Leningrado, e ho parlato con i funzionari locali e le nostre guardie di frontiera. Il traffico transfrontaliero è congelato; fino a poco tempo fa i posti di controllo brulicavano invece di attività. Per volontà di Helsinki, le normali e reciprocamente vantaggiose relazioni decennali sono al tracollo. La popolazione finlandese ne paga le conseguenze. In passato, grazie alle fiorenti relazioni commerciali ed economiche bilaterali, i finlandesi godevano di notevoli vantaggi. Oggi molti di loro manifestano rabbia per le stupide politiche che il governo persegue a danno dei loro interessi.
Vorrei spendere alcune parole sulle cause profonde di questa situazione. Purtroppo non è casuale. I vortici dei turbolenti processi geopolitici in atto mettono a nudo problemi di antica data e ne rivelano l’essenza. È appunto il caso della Finlandia.
All’inizio della stagione autunnale ogni viaggio nelle regioni nord-occidentali è sempre occasione per ricordare la data più tragica nella storia della grande città russa sul fiume Neva: il blocco nazista durante la seconda guerra mondiale, iniziato l’8 settembre 1941. Ma oggi sembra siamo i soli a coltivare il vivido ricordo di quei giorni bui. I diretti responsabili di quegli eventi hanno cercato di cancellare meticolosamente dalla memoria storica le tracce del loro agire. O almeno cercano d’impedire spiacevoli parallelismi con le loro attuali politiche. Non mi riferisco solo alla Germania, che anche a livello ufficiale rifiuta spudoratamente di riconoscere il blocco di Leningrado un crimine contro l’umanità.
Non si deve dimenticare che, senza il coinvolgimento delle forze armate finlandesi, il blocco di Leningrado, che causò la morte di centinaia di migliaia di civili, non avrebbe potuto esserci. Ossessionata dalla sete di rivincita e determinata a rovesciare l’esito del conflitto sovietico-finlandese del 1939-40, nell’estate del 1941 la classe dirigente finlandese si gettò incautamente nel marasma della guerra, a fianco della Germania nazista. All’epoca, nella società finlandese imperava la narrazione della propaganda ultranazionalista e, con l’approvazione dei protettori nazisti, i poteri forti di Helsinki consideravano seriamente l’idea del Finnlands Lebensraum, ovvero di un [più vasto] spazio vitale per la Finlandia. Le autorità politiche e militari del Paese intendevano non solo rimettere le mani sui territori ceduti all’URSS con il trattato di pace di Mosca del marzo 1940, ma anche estendersi fino a quelli che definivano i «confini naturali della Grande Finlandia»: dal Golfo di Finlandia al Mare di Barents, compresi la Carelia orientale, Leningrado e dintorni, nonché la penisola di Kola. E cacciare da queste terre i tanto odiati russi. Nelle loro fantasie più audaci, alcuni finlandesi speravano di avanzare oltre gli Urali fino al fiume Ob. Una bramosia territoriale che, in termini percentuali rispetto alla superficie del Paese, a quel tempo era la più rilevante in Europa. Queste ambizioni superavano persino le rivendicazioni sui territori dei Paesi confinanti avanzate dai membri del blocco guidato dai nazisti: Italia, Romania e Ungheria.
I piani aggressivi di Helsinki erano sostenuti dalla Germania nazista, che appunto fomentava attivamente l’espansione territoriale finlandese. Un telegramma spedito il 25 giugno 1941 dall’inviato finlandese a Berlino, Toivo Kivimäki, riportava in termini molto chiari il contenuto della conversazione con Hermann Göring: la Finlandia avrebbe ottenuto «dalla Russia, in termini territoriali, tutto ciò che desiderava e persino un surplus». Gli stati-maggiori dell’esercito finlandese e della Wehrmacht stesero i piani per un’invasione congiunta dell’Unione Sovietica, con azioni militari coordinate durante l’offensiva di Leningrado, in conformità con l’Operazione Barbarossa. Lo scopo comune – la lotta al bolscevismo e – nonché la retorica che enfatizzava l’alleanza militare tra finlandesi e tedeschi, è riflessa in modo esplicito nell’ordine del comandante in capo finlandese, Carl Mannerheim [1], del 10 luglio 1941. La disponibilità delle risorse militari della Finlandia per attaccare la parte nord-occidentale dell’URSS consentì al comando nazista di liberare divisioni per altre aree strategiche. In altre parole, la responsabilità delle tragiche conseguenze di questa alleanza ricade interamente sulle autorità finlandesi dell’epoca, artefici di questa sanguinosa collaborazione con il Terzo Reich. Mi riferisco alle vite e ai destini distrutti di milioni di uomini, donne e bambini sovietici innocenti, che non ci fu il tempo di evacuare dall’ovest del Paese verso le zone centrali, lontano dai campi di battaglia, in particolare durante le prime settimane della rapida avanzata della Wehrmacht.
Le forze finlandesi si distinsero per ferocia. I primi raid aerei della Luftwaffe su Leningrado, nell’estate 1941, respinti dalle difese aeree sovietiche, partirono dagli aeroporti finlandesi, perché gli aeroporti tedeschi nella Prussia orientale erano troppo distanti e gli aerei non avrebbero potuto raggiungere Leningrado senza atterrare per il rifornimento di carburante. Le truppe finlandesi si avvicinarono al fiume Svir a metà settembre 1941, conquistando e distruggendo la centrale idroelettrica, all’epoca in costruzione, destinata a migliorare l’approvvigionamento energetico di Leningrado. Interruppero anche la ferrovia Kirov, arteria fondamentale per portare rifornimenti essenziali alla città. Le forze di occupazione erano determinate anche a impedire il funzionamento della leggendaria Via della Vita, percorso per camion tracciato in inverno sul lago ghiacciato di Ladoga. Squadre di sabotatori tentarono ripetutamente di tagliare questa linea di rifornimento, fondamentale per la sopravvivenza della popolazione di Leningrado.
Sul lago Onega, le forze finlandesi gestivano una flottiglia di cannoniere, navi corazzate e chiatte ad alta velocità; la loro base principale era nella città occupata di Petrozavodsk (ribattezzata Aanislinna dai tedeschi). Pochi ricordano che fino al 1944 l’accesso della Finlandia al Mare di Barents, nella comunità di Pechenga (Petsamo), consentì alla marina della Germania nazista, la Kriegmarine, di disporre di una base navale strategicamente importante a Liinakhamari. Da qui i tedeschi potevano imbarcare il nichel dei vicini giacimenti nonché sferrare attacchi contro i convogli artici che trasportavano rifornimenti Lend-Lease [rifornimenti statunitensi di materiali bellici e materie prime, ndt] all’Unione Sovietica. I britannici, che in Scozia depongono fiori ai memoriali dei partecipanti ai convogli artici, o gli americani, che fanno altrettanto ai memoriali del Maine, sanno che gli sforzi dei loro eroici connazionali furono in parte compromessi dai finlandesi, oggi loro alleati nella Nato? La domanda rimane aperta.
La partecipazione delle forze finlandesi ai bombardamenti di artiglieria su Leningrado è cosa nota. Sebbene alcuni evochino un «nobile divieto» da parte di Mannerheim di attaccare Leningrado, città dove trascorse la giovinezza, prove storiche attendibili lo smentiscono: i finlandesi parteciparono ai bombardamenti, compresi quelli indiscriminati contro la popolazione civile. Kronstadt era uno degli obiettivi. La portata limitata degli attacchi finlandesi fu dovuta alla scarsa preparazione al combattimento dei cannonieri, certamente non al sentimentalismo o alla pietà dei comandanti. In particolare, all’inizio del 1944, quando il blocco stava per essere spezzato, l’aviazione finlandese condusse attacchi molto aggressivi contro gli aeroporti sovietici nei pressi della periferia nord di Leningrado, a Karimovo e a Levashovo. Nell’aprile di quell’anno diverse decine di bombardieri attaccarono, ma le difese aeree sovietiche vanificarono i loro sforzi, costringendoli a ritirarsi all’aeroporto di Joensuu senza aver ottenuto alcun risultato. Per tutta l’estate del 1944 le truppe finlandesi mantennero la pressione militare su Leningrado da nord, anche dopo che nel mese di gennaio i tedeschi furono respinti a sud e a sud-ovest, lontano dalla città.
La Finlandia commise atti di genocidio e crimini di guerra contro la popolazione civile sovietica non solo a Leningrado. Le sue squadre della morte fecero il bottino più sanguinoso in Carelia. Oggi, i discendenti degli scagnozzi finlandesi ne parlano a fatica, con riluttanza e fastidio.
La decisione della Corte suprema della Carelia del 1° agosto 2024, che ha riconosciuto come criminali le azioni commesse nella regione dalle autorità di occupazione e dalle truppe finlandesi durante la Grande Guerra Patriottica contro 86 mila cittadini sovietici, è stata maleducatamente definita «infondata» dal primo ministro della Finlandia. Si tratta, ha sostenuto, di uno «stratagemma propagandistico» russo: argomentazione cui abitualmente si ricorre per tentare di negare una scomoda verità.
In poche parole, queste affermazioni sono un ennesimo palese tentativo di riscrivere la storia. Utili anche a giustificare le rivendicazioni territoriali del regime di Mannerheim, che a oriente si estendevano ben oltre il confine sovietico-finlandese del 1939, nonché a cancellare la memoria dell’eccezionale crudeltà dell’amministrazione finlandese durante l’occupazione bellica. Lo dimostrano fatti accertati: gli invasori, che istituirono l’Amministrazione militare della Carelia Orientale, guidata dal colonnello Vaino Kotilainen (a partire dal 1943 da Olli Paloheimo), perseguirono una politica apertamente razzista. Fecero di tutto per annettere la Carelia alla Finlandia, epurandola però della «componente slava». Separarono gli abitanti dividendoli tra «corretti», cioè i finno-ugrici, e «non corretti», cioè di etnia russa. I primi sarebbero diventati cittadini a pieno titolo di una futura Grande Suomi [Finlandia] e “finlandizzati” con la forza, il che implicava la cancellazione della loro identità storica e culturale e la rescissione di ogni legame con la civiltà russa. L’altro gruppo, la popolazione non autoctona, sarebbe stata trasferita con la forza in altre regioni. Nell’ambito della politica di etnocidio perseguita dagli aggressori finlandesi, i russi dovevano inoltre indossare una fascia rossa al braccio, in analogia con la stella di David gialla usata dai nazisti come segno distintivo degli ebrei europei. Sotto il giogo finlandese la vita dei non-autoctoni differiva poco dalle condizioni della popolazione dei territori della Repubblica sovietica e delle repubbliche di Bielorussia, Ucraina e Moldavia occupati dai tedeschi. Erano privati dei diritti civili: ricevevano razioni di cibo scarse ed erano esposti alle rapine e alle soperchierie dei militari finlandesi, nonché alle persecuzioni extragiudiziali.
Inoltre, dall’autunno 1941 all’estate 1944, sul territorio dell’allora Repubblica Socialista Sovietica Carelo-Finlandese (in cui 21 distretti su 26 erano completamente occupati e un altro parzialmente occupato, così come 8 delle 11 città) fu istituita una rete di campi di lavoro forzato su ordine di Mannerheim. Nella sentenza del 1° agosto 2024 la Corte Suprema della Repubblica di Carelia si è avvalsa delle conclusioni della Commissione straordinaria di Stato per l’Accertamento e le Indagini sulle atrocità commesse dagli invasori nazisti e dai loro complici. Secondo questi documenti, le spaventose condizioni igieniche e di vita, la diffusione di malattie infettive, il freddo, la scarsità di cibo e il ricorso al lavoro di donne, anziani e bambini ridotti in schiavitù provocarono la morte di 8.000 civili e di oltre 18.000 prigionieri di guerra. A differenza dei nazisti, i finlandesi non ebbero bisogno di ricorrere a camere a gas o a esecuzioni di massa.
Oggi molti storici finlandesi travisano goffamente i fatti, suggerendo maldestramente che i campi di concentramento furono probabilmente creati non già per «sterminare la popolazione sovietica», ma per la «detenzione di persone trasferite per ragioni militari o perché sospettate di inaffidabilità politica». Il tentativo di sminuire il genocidio della popolazione slava perpetrato durante la guerra dalle autorità finlandesi e di farlo diventare qualcosa di “neutrale” non fa altro che mettere in luce la natura estremista e nazionalista della loro politica: la replica esatta di quella nazista. Ma i fatti sono incontrovertibili. Il numero di prigionieri in questi campi di concentramento raggiunse il 20% dell’intera popolazione dei territori occupati. Si tratta di cifre estremamente elevate anche per gli standard della seconda guerra mondiale. È difficile immaginare quale clamore isterico susciterebbe in Europa il tentativo di trovare una giustificazione alla creazione, per esempio, del famigerato campo di concentramento di Dachau, in origine usato specificatamente per gli oppositori del regime nazista. E invece i finlandesi che eccelsero in una retorica russofoba e, di fatto, cannibalesca, la passarono liscia.
Ancor prima della fine dell’offensiva strategica Viborg-Petrozavodsk (10 giugno-9 agosto 1944) il vicecapo della Direzione politica dell’Armata Rossa, tenente-generale Iosif Shikin, fu inviato sul fronte careliano per raccogliere prove dei crimini commessi dalle truppe finlandesi. In un rapporto indirizzato al membro del Politburo del Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, a capo della Direzione politica principale dell’Armata Rossa, colonnello-generale Alexander Shcherbakov, datato 28 luglio 1944, Shikin afferma che le prove raccolte «testimoniano le torture selvagge e barbariche nonché i tormenti che i sadici finlandesi infliggevano alle loro vittime prima di ucciderle». Le prove rinvenute fecero rabbrividire anche i soldati veterani del fronte. In diverse fotografie raccolte in varie zone di combattimento, confermate dalle testimonianze dei finlandesi catturati, ufficiali dell’esercito finlandese posavano spavaldamente con in mano i teschi dei soldati dell’Armata Rossa torturati e uccisi. La pratica di collezionare questi mostruosi cimeli non era rara nell’esercito finlandese: alcuni li esibivano sulle scrivanie o li mandavano in regalo ai parenti.
Le perdite inflitte all’economia della Carelia furono enormi. Oltre 80 villaggi rasi al suolo e 400 danneggiati. Nel rapporto che descrive le atrocità commesse dagli invasori fascisti-finlandesi, pubblicato sul quotidiano Pravda il 18 agosto 1944, si legge: Solo a Petrozavodsk, l’università, la biblioteca pubblica, la filarmonica, il centro di attività extrascolastiche per bambini, cinque scuole, nove asili nido e un cinema sono stati saccheggiati e bruciati. Tutti i ponti e oltre 485 edifici residenziali, compresa la casa che fu del poeta classico del XVIII secolo Gavrila Derzhavin, sono stati distrutti. Nelle zone occupate della Repubblica Socialista Sovietica carelo-finlandese, gli invasori distrussero tutte fabbriche meccanizzate, nonché gli impianti per l’abbattimento di alberi e il trasporto del legname. Gli invasori causarono enormi danni alle strutture del Canale Mar Bianco-Mar Baltico. La Carelia sovietica fu saccheggiata senza pietà: quattro milioni di metri cubi di legname e prodotti del legno, nonché un milione di libri sottratti alle biblioteche furono portati in Finlandia, il bestiame venne rubato. Non sarebbe esagerato affermare che le azioni dei finlandesi si discostavano di poco dall’attuazione dei programmi cannibaleschi della Germania nazista in Europa orientale: il Generalplan Oste e il Backe Plan, noto anche come The Hunger Plan.
Perché allora i criminali finlandesi, a differenza dei nazisti, non furono puniti come meritavano per i crimini commessi? Fu grazie alla volontà politica dell’URSS che le autorità politico-militari della Finlandia non finirono sul banco degli imputati a Norimberga e che i processi a numerosi alti funzionari si svolsero nella stessa Finlandia. Le sentenze furono piuttosto clementi. A differenza di coloro che subirono processi simili in Germania e in Giappone, nessuno degli imputati che avrebbero meritato la pena capitale fu giustiziato. Dopo qualche tempo i condannati furono graziati.
Dopo la guerra, la Finlandia preferì perseguire una politica equilibrata, basata sui principi del non-allineamento militare; per questo motivo la questione dei crimini finlandesi fu accantonata. L’URSS credeva sinceramente nella necessità di una politica di buon vicinato per la trasformazione del Mar Baltico in un’area di cooperazione. Gli eventi del 1941-44 venivano considerati una tragedia che non doveva servire per costruire inutili linee di divisione. Le autorità di Helsinki condividevano questa linea, consapevoli che sulla mappa d’Europa il loro Paese si trova all’interno dei confini europei in gran parte grazie alla bona volontà della coalizione anti-Hitler, che aveva rilasciato ai finlandesi una sorta di certificato di perdono politico.
Si instaurò una cooperazione economica reciprocamente vantaggiosa: la Finlandia riceveva materie prime, investimenti e prodotti petrolchimici su base stabile, in cambio forniva all’URSS attrezzature ad alta tecnologia che non poteva ottenere direttamente dall’Occidente. Furono varate molte joint-venture in diversi settori: cantieristica navale, metallurgia, energia.
Purtroppo, oggi, grazie agli sforzi delle autorità fantoccio filoamericane della Terra dei Mille Laghi, le relazioni bilaterali sono crollate e Helsinki è l’unica responsabile dell’insana logica delle sanzioni. Il volume degli scambi commerciali per il 2024 è stato di soli 1,26 miliardi di euro (nel 2019 fu di 13,5 miliardi di dollari). Per quale ragione la Russia dovrebbe continuare a nascondere le pagine oscure del passato finlandese?
La Finlandia, che in quanto satellite di Hitler attaccò l’URSS, ha esattamente la stessa responsabilità della Germania nazista per aver scatenato la guerra, per tutti gli orrori e le sofferenze inflitti alla nostra popolazione.
Tanto più che per genocidio e crimini di guerra non c’è prescrizione e il tempo trascorso dal momento in cui i crimini sono stati commessi non influisce sulla loro definizione di crimini contro l’umanità. In particolare, come risulta dalla risoluzione 96 del 1946 dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, la comunità internazionale riconobbe il crimine di genocidio prima dell’adozione, nel 1948, da parte delle Nazioni Unite della Convenzione per la Prevenzione e Punizione del Crimine di Genocidio. Per esempio il genocidio in Namibia delle tribù Herero e Nama del 1904-1908 da parte delle truppe coloniali dell’impero tedesco, comandate dal generale Lothar von Trotha, fu classificato genocidio nel 1985, in un rapporto speciale della Commissione per i diritti umani del Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, ma fu riconosciuto come tale da Berlino solo nel 2004. Come sottolinea Jeremy Sarkin nel fondamentale Colonial Genocide and ReparationsClaims in the 21st Century (Genocidio coloniale e richieste di risarcimento nel XXI secolo), le richieste possono essere presentate a un tribunale nazionale o internazionale, che può applicare i principi del diritto internazionale e/o del diritto pubblico e privato. Il diritto internazionale è, in generale, schierato dalla parte delle vittime. La gravità prevale sul tempo trascorso dal momento in cui questi crimini furono commessi. Questo principio deve valere anche per Helsinki.
Sia detto incidentalmente, la svastica fu rimossa dalla bandiera dell’Aeronautica militare finlandese solo nel 2020. Va notato che i finlandesi, pur riluttanti, si risolsero a rimuovere l’emblema nazista dalle bandiere delle loro unità nel contesto della riforma delle bandiere dell’agosto 2025, citando «pressioni esterne». Gli eredi odierni dell’ideologia degli invasori fascisti finlandesi non perdono occasione per fornire ragioni di manifestare rivendicazioni nei loro confronti. Dopo aver aderito alla Nato, che chiama la Russia proprio nemico, in questi giorni la Finlandia calpesta direttamente e rozzamente le basi storiche e giuridiche su cui si fonda l’esistenza del nostro Paese: tra le altre, le disposizioni del Trattato di pace di Parigi del 1947 tra Mosca ed Helsinki (la Russia non ha mai dato il proprio consenso ufficiale ed esplicito alla risoluzione unilaterale da parte della Finlandia, nel 1990, degli impegni relativi alle clausole di difesa), nonché il Trattato bilaterale sui Principi Fondamentali delle Relazioni del 1992. Si tratta dell’impegno della Finlandia a non usare le forze armate fuori del proprio territorio, il che è chiaramente in contrasto con le propensioni militaristiche dei Paesi membri della Nato. L’interazione con la Nato è una grave violazione degli obblighi pattuiti, compreso l’acquisto di determinati tipi di armi, nonché il divieto di usare il proprio territorio per aggressioni armate contro la Russia, divieto che i finlandesi si preparano oggi a violare con propensione suicida. Alla vigilia della Grande guerra patriottica, la Finlandia mise volontariamente il proprio territorio a disposizione del Terzo Reich per schierare le infrastrutture della Wehrmacht per un attacco all’URSS. Oggi lo apre servilmente ai membri della Nato per il potenziamento militare, contemporaneamente additandoci come la «principale minaccia alla sua sicurezza». In particolare, in base all’accordo di cooperazione nel campo della difesa con gli Stati Uniti (approvato dal parlamento finlandese nell’estate 2024) la Finlandia deve mettere a disposizione 15 strutture militari per un eventuale uso da parte del personale militare statunitense. Oltre alla componente Nato, sono stati creati solidi presupposti per la presenza permanente di contingenti e basi militari di Washington.
Questo revisionismo deve essere rigorosamente combattuto. Dal punto di vista giuridico, la rottura del nesso sinallagmatico insito nei trattati ne mette in luce la questione della loro stessa validità, in virtù del principio do ut des, cioè della reciprocità degli impegni .
Ai sensi dell’art. 44 della Convenzione di Vienna sul Diritto dei Trattati del 23 maggio 1969, il diritto di una parte di denunciare, recedere o sospendere un trattato può essere usato solo rispetto all’intero trattato, salvo che il trattato stesso disponga diversamente. Tradotto in un linguaggio più comprensibile per Helsinki, questa norma stabilisce che un accordo internazionale non è un menu à la carte, in cui le voci possono essere singolarmente scelte, ma piuttosto un menu convenuto nella sua integralità.
In altre parole, se nel trattato non c’è una componente militare-politica, ciò significa che si è esonerati dall’obbligo compensativo di lasciar correre il passato, di archiviare i contenziosi storici e di evitare di mettere in luce la questione della responsabilità morale dell’attuale governo finlandese nelle azioni dei predecessori. I 300 milioni di dollari di risarcimento previsti dal Trattato del 1947 (in realtà ne sono stati pagati solo 226,5) furono un gesto di generosità da parte nostra, per niente apprezzato dalle attuali generazioni. Questi fondi non possono evidentemente coprire i danni che la Finlandia ci ha inflitto: la Corte suprema della Carelia li ha stimati in 20 miliardi di rubli. Abbiamo ogni ragione per farlo ipso jure.
Ciò è a maggior ragione vero sullo sfondo dell’isteria bellicista antirussa, combinata con il tintinnare di spade che risuona in Finlandia. La Finlandia, la cui storia è segnata dal genocidio della popolazione slava e dal terreno fertile al nazionalismo, è stata trasformata in un aggressivo antagonista della Russia ancor più rapidamente dell’Ucraina: invece dei piani per la finlandizzazione dell’Ucraina, discussi in una determinata fase, l’ucrainizzazione virtuale della Finlandia è avvenuta in un batter d’occhio.
Dopo l’adesione alla Nato, Helsinki, con il pretesto di misure “difensive”, ha intrapreso un percorso provocatorio di preparativi per una guerra alla Russia, creando manifestamente un trampolino per un attacco contro di noi. L’Alleanza è coinvolta pienamente: sta intensificando la propria presenza in tutti e cinque gli ambienti operativi finlandesi: terra, mare, aria, spazio e cyberspazio.
L’attività militare è in forte espansione. Nelle immediate vicinanze del confine con la Russia sono in corso preparativi per la creazione di una struttura di comando delle forze terrestri avanzate della Nato in Lapponia (in caso di «cambiamento della situazione operativa», il numero delle truppe può essere aumentato fino a formare una brigata completa di 5.000 uomini) e nella città di Mikkeli è in corso il dispiegamento del quartier generale del Comando della Componente Terrestre Settentrionale della Nato (MCLCC). È superfluo precisare contro chi saranno dirette le sue attività. Stanno sorgendo nuove guarnigioni, per esempio, nella comunità di Ivalo, località a 40 chilometri dal territorio russo.
Helsinki si sta ritirando dalla Convenzione di Ottawa sul divieto delle mine antiuomo per liberarsi dagli obblighi di applicare i principi del disarmo umanitario e compromettere deliberatamente la sicurezza regionale.
Nei mesi di maggio, giugno, agosto e settembre è stato effettuato un numero incredibile di manovre militari, tra cui la più grande esercitazione di artiglieria della Nato, Lightning strike 24; nonché esercitazioni terrestri, Northern Star 25, in Lapponia; esercitazioni dell’aeronautica militare, Atlantic Trident 25; ed esercitazioni delle forze speciali, Southern Griffin 25. Alcune delle mosse ipotizzate sono davvero ridicole: la Finlandia sta valutando seriamente di aderire all’iniziativa folle, nonché distruttiva per l’ambiente, di Polonia e Lituania: allagare artificialmente il proprio territorio come mezzo di difesa contro una presunta inevitabile «invasione russa».
I finlandesi stanno pagando a caro prezzo la spavalderia antirussa. Nel 2024 l’economia finlandese è andata in recessione, con una contrazione dello 0,3 rispetto al 2023. A causa della rottura dei rapporti con la Russia, l’intera parte orientale del Paese è colpita da una grave disoccupazione. L’incertezza delle prospettive economiche ha portato al crollo degli investimenti nel 2024 di quasi il 7%. Se lo meritano.
Sembra che le voci spudorate che si sentono di tanto in tanto nella Terra dei Mille Laghi riguardo alla costruzione di una nuova Grande Finlandia, i tentativi di alimentare tali sentimenti con l’idea di appropriarsi di parte del territorio russo, siano istigati in tutti i modi dalla leadership della Ue a Bruxelles. All’epoca del nazismo nelle menti finlandesifu instillata l’idea di arricchirsi a spese della Russia. Evidentemente ora stanno lavorando a un programma simile.
Se così fosse, la logica russofoba dell’amministrazione di Alexander Stubb, che sta spingendo dissennatamente il Paese verso l’abisso di un possibile conflitto militare, sarebbe piuttosto chiara. Proprio recentemente il presidente finlandese ha affermato che nel 1944 il suo Paese sconfisse l’Unione Sovietica perché «conservò la propria indipendenza». E, affermazione ancora più assurda, che l’Ucraina odierna è presumibilmente «in posizione migliore» rispetto alla Finlandia dell’epoca. Non sono affermazioni folli? È evidente che una posizione del genere va contro gli interessi del popolo finlandese.
In un impeto di revanscismo, l’establishment finlandese sta preparando una “nuova linea Mannerheim”, cioè l’infrastruttura militare per una nuova aggressione contro la Russia; ma è bene si ricordi che scontrarsi con noi potrebbe portare al collasso definitivo dello Stato finlandese. Non saremo clementi come lo fummo nel 1944. Nessuno si preoccuperà di leggere loro le belle favole della buonanotte sui Mumin [2]. Come dice il proverbio finlandese, sitäsaa, mitätilaa, raccogli ciò che semini.
Mosca, 8 settembre 2025
[1] Carl Gustaf Emil Mannerheim (1867-1951), considerato l’eroe nazionale finlandese, servì come ufficiale di cavalleria nell’esercito russo; nel 1917, allo scoppio della rivoluzione si spostò in Finlandia, da dove iniziò la guerra contro i bolscevichi, facendoli retrocedere. Fu capo del governo nel 1918-19, riuscì a far riconoscere l’indipendenza della Finlandia da parte delle grandi potenze. Nel 1931 fu nominato presidente del supremo consiglio della difesa; nel 1939 divenne comandante in capo delle forze armate finlandesi e condusse le due guerre del 1939-40 e del 1941-44 contro l’URSS; nel 1944 fu eletto presidente della Repubblica, nello stesso anno stipulò l’armistizio con l’URSS (Enciclopedia Treccani).
[2] I Mumin sono pupazzetti creati dalla scrittrice e illustratrice finlandese Tove Jansson. Sono simili a ippopotami bianchi.
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